La presenza e l’irricevibile intervento di don Giulio Mignani, della diocesi di La Spezia, a Torino, in occasione della presentazione delle firme a sostegno della proposta di legge popolare per il suicidio assistito, è la chiara dimostrazione dello stato di totale disorientamento in cui versa certo clero cattolico. Innanzitutto il confratello ci tiene a distinguere che è «presente all’evento come cittadino» e poi come sacerdote, incarnando quella separazione tra fede e ragione, denunciata da San Giovanni Paolo II nell’enciclica Fides et Ratio, ed oggi drammaticamente diffusa, anche nella gerarchia ecclesiastica. Diceva Chesterton: «Quando entro in chiesa mi tolgo il cappello, non la testa!». Tale distinzione fu quella che portò molti cattolici (democratici) a votare a favore del divorzio e dell’aborto, con il falso ragionamento: «Io non sono d’accordo, ma non posso impedire ad altri di farlo»; come se un male potesse avere eccezioni o dipendere dalla valutazione del soggetto, con la complicità anche economica dello Stato, quindi di tutti. Posto che sul tema della vita basterebbe il retto uso di ragione e che senza la fede cristiana, la sofferenza non può che apparire un «non senso», sfugge totalmente ai più il fatto che lo Stato non possa mai essere complice del male, né garantire che esso venga compiuto impunemente. L’ormai desueta tattica del «caso pietoso» ha fatto il suo tempo! La vera questione, se non si fosse ancora compreso, è la sopravvivenza della stessa civiltà occidentale, storicamente motore del benessere e dello sviluppo di cui siamo tutti beneficiari. Se non esiste più il vero e il falso, il bene e il male, se tutto deve essere sottoposto al «discernimento situazionale» allora, dobbiamo ammetterlo, siamo tutti caduti nell’utilitarismo di J. Bentham (1832), per il quale è bene ciò che è utile. E, prima o poi, tutti saremo inutili (alcuni già lo sembrano!) e quindi saremo considerati un male da eliminare. Siamo certi che sia davvero ciò che vogliamo? Una società malthusiana nella quale ciò o chi non è utile viene eliminato, con il suo stesso consenso, perché convinto sia il proprio bene e quello della società? Il don Mignani, con un impeto giustificabile solo dall’emozione effimera suscitata da un microfono e una telecamera, giunge ad affermare: «Sono qui per rappresentare il mondo della Chiesa» (sic!).No, caro confratello! Tu non rappresenti affatto la Chiesa, come nessuno la potrebbe rappresentare, contraddicendo la ragione umana e la verità rivelata! La Chiesa sa benissimo che: «Qualunque ne siano i motivi e i mezzi, l’eutanasia diretta […] è moralmente inaccettabile. Così un’azione oppure un’omissione che, da sé o intenzionalmente, provoca la morte allo scopo di porre fine al dolore, costituisce un’uccisione gravemente contraria alla dignità della persona umana e al rispetto del Dio vivente, suo Creatore. L’errore di giudizio, nel quale si può essere incorsi in buona fede, non muta la natura di quest’atto omicida, sempre da condannare e da escludere» (Catechismo della Chiesa Cattolica n. 2277). Tu rappresenti al massimo te stesso ed i poveri parrocchiani che hai indotto a firmare, ma non usare il santo nome della Chiesa, la Sposa di Cristo, per sostenere battaglie di morte e di inciviltà, che contraddicono venti secoli di cristianesimo, di dottrina cattolica e di santità vissuta. Verrebbe da chiedersi cosa ne pensa il tuo vescovo (epískopos), chiamato a sorvegliare, anche su quanto il clero fa e dice pubblicamente. Emerge, in dolorosi esempi come questo, la desolante povertà della formazione del clero degli ultimi decenni e la consapevolezza della pervasività del mondo anche nella Chiesa. Papa Francesco ammonisce sempre contro la «mondanizzazione», che evidentemente non riguarda solo il tipo di auto o di orologio che possediamo, ma, molto più gravemente, il pensiero che abbiamo adottato, i criteri che utilizziamo per valutare tutto. Le derive eutanasiche, per quanto da frenare a livello legislativo con tutte le forze a disposizione, dipendono dall’abbandono dell’uso retto della ragione, dall’irrilevanza culturale del cattolicesimo e dalla pervasività di una mentalità utilitaristica. Solo una enorme urgente operazione culturale, che parta dal basso ed incontri (se Dio vorrà) qualche aiuto dall’alto, potrà prima frenare la deriva e poi invertire la rotta. «Il mondo ha bisogno di più Europa», ha detto papa Francesco a Lisbona. Il mondo ha bisogno della civiltà occidentale nata dal cristianesimo, di più vita, non di più morte!
*Sacerdote e teologo
Il dibattito degli ultimi giorni intorno al testo di Marco Ascione, La profezia di Cl - Comunione e Liberazione tra fede e potere. Da Formigoni alla rivoluzione Carrón e oltre, mi ha sorpreso nel metodo e nel merito. Nel metodo, mi ha stupito che una certa stampa (il Corriere della Sera) «vada in soccorso» a un prete; nel merito, stupisce la capacità di «piegare la realtà» a ideologie preconcette o a «desiderata» irrealizzati.
La lettura dei «normalizzatori di Cl» (Antonio Polito) procede coerentemente con la loro «visione del mondo», evidenziando la necessità di un senso alla vita: «Chi ha un perché del vivere può sopportare quasi ogni come». Stupisce che a fronte della gratuita capacità di spalancarsi alla realtà, prevalga la necessità di inquadrare un movimento religioso (come altri avvenimenti della vita personale e sociale) in categorie politiche e mondane; è come se i «normalizzatori» avessero la necessità di separare ciò che il cuore dell’uomo domanda («mendicante del cuore di Cristo» lo definì don Luigi Giussani) dall’agire dell’uomo nel mondo; è come voler ridurre la «portata rivoluzionaria» dell’incontro tra desiderio umano infinito e risposta incontrata a tale desiderio.
Ancora, molti evidenziano la necessità di separare la Chiesa - una società «sui generis», spirituale e visibile insieme; umana, ma animata dall’azione soprannaturale dello Spirito santo - dalla presenza della stessa Chiesa nel mondo, fastidiosa quando si occupa di cose «materiali», e sociali, perché morali. Come se esistesse una morale a-storica!
Si riporta così in auge la «scelta religiosa» di Carlo Carretto, prima, e di Vittorio Bachelet: cioè l’abbandono della speranza di poter costruire un «mondo migliore» o, in termini teologici, «concorrere alla realizzazione del Regno di Dio sulla Terra» o «instaurare omnia in Christo». Siamo quindi a una sostanziale rinuncia a operare secondo la dottrina sociale della Chiesa.
Ma la storia umana non è solo necessità e, come amava ripetere don Giussani, la realtà è testarda. Don Giussani non ha mai voluto «fare politica», se non come conseguenza della testimonianza dovuta a Cristo Redentore del mondo, cioè dell’universo creato. Prospettiva difficile da cogliere da parte di chi (Polito e, forse, Ascione), comunque attribuisce all’ex leader di Comunione e Liberazione, don Julián Carrón una sottile capacità: sbianchettare, «anno dopo anno, volantino dopo volantino, elezione dopo elezione, la lista dei politici di riferimento»; reinterpretare «l’approccio al totem dei valori non negoziabili e cassando le partecipazioni ai Family day».
Si vorrebbe così determinare se Carrón abbia cercato una «terza» via; se abbia rispettato la storia del movimento; se sia stato coerente con l’insegnamento di Giussani, se sia stato la prosecuzione di Giussani o se si sia «ispirato» a Giussani.
Bisogna infatti sempre distinguere se una realtà è di appartenenza e continuità con un’altra o, semplicemente, vi si ispira. Esistono, ad esempio, valori «di ispirazione cristiana», ma che non sono cristianesimo, né cattolicesimo.
La certezza di essere permanenza e continuità di un’appartenenza, obbedisce a un semplice criterio: la realtà presente deve mostrare, nel proprio sviluppo, di aderire alla dinamica che l’ha fatta nascere e sviluppare.
La correzione teologica della Santa Sede lo dice chiaramente: il carisma non si trasmette, si custodisce.
Il cardinale Joseph Ratzinger, nell’omelia funebre per don Giussani - ero presente - affermò: «Ha saputo che incontrare Cristo vuol dire seguire Cristo. Questo incontro è una strada, un cammino; un cammino che attraversa anche la “valle oscura”. Ha guidato le persone non a sé, ma a Gesù Cristo, ha guadagnato i cuori, ha aiutato a migliorare il mondo, ad aprire le porte del mondo per il cielo; […] ha conservato la centralità di Cristo e proprio così ha aiutato con le opere sociali, con il servizio necessario l’umanità in questo mondo difficile […]. Una libertà isolata, una libertà solo per l’Io, sarebbe una menzogna e dovrebbe distruggere la comunione umana. La libertà per essere vera, e quindi per essere anche efficiente, ha bisogno della comunione, e non di qualunque comunione, ma ultimamente della comunione con la verità stessa, con l’amore stesso, con Cristo, col Dio trinitario».
Quello che domina oggi è l’ideologia del dialogo, come se la verità germogliasse dal confronto delle opinioni e non si fosse invece manifestata definitivamente nella carne di Dio: in Gesù di Nazareth Signore e Cristo.
Che antipatico questo Gesù che ripete: «In verità, in verità vi dico…»!
Il dialogo (dia-logos) è l’espressione di un’identità, testimonianza schietta e coraggiosa, tanto nel segreto del cuore, quanto nel foro pubblico nella società di ogni tempo. I cristiani hanno parlato sempre e senza problemi con tutti, proponendo la verità di Cristo.
Il cardinale Angelo Scola, nella prefazione al recentissimo (4 agosto 2023) volume: Giussani e i Padri della Chiesa. Una tradizione vivente (Marcianum Press), a cura di Pierluigi Banna, afferma: «La forza educativa di Giussani non consiste soltanto nel riportare al tempo presente la freschezza originaria dei Vangeli. Per quanto non fosse un esperto studioso delle antichità cristiane, trovava in tutta la tradizione della Chiesa delle origini espressioni, episodi e figure a lui congeniali per descrivere il cuore dell’esperienza cristiana. Stando alle stesse parole di Giussani, questo dinamismo di rivitalizzazione della tradizione si rifà al modo stesso con cui Gesù si presentò all’interno della tradizione giudaica: Quello che incominciò a dire di nuovo, lo disse dentro l’antico: era un nuovo modo di vedere il mondo. Le parole erano le stesse: era un nuovo modo di vedere le parole antiche. Insisto perché questa è la vita del cristiano, essere cristiani è questo: una novità che si apre sempre il varco dentro le parole antiche.
L’annuncio del cristianesimo è pertanto sia «principio di redenzione» che assume il nuovo, sia nuovo modo di ridire «le parole antiche». Nuovo e antico sono abbracciati nell’unico avvenimento cristiano». E questo senza mai rinunciare a essere presenza nel mondo, per la salvezza del mondo, senza ritirarsi nella «scelta religiosa», né in un utopistico «piccolo gregge».
*Teologo
- L’idea di «famiglia elettiva», dove ognuno si sceglie genitori o fratelli, è un atto di egoismo e di vana illusione di libertà.
- Tanti vip di sinistra per l’addio alla Murgia. E fuori alla chiesa si intona «Bella ciao».
Lo speciale contiene due articoli.
In tanti, in questi giorni, si sono precipitati a dire qualcosa su Michela Murgia, la sua fine ed il suo pensiero.
Non l’ho mai conosciuta personalmente, ho letto qualcosa, ascoltato molto e mi sono sempre chiesto, come teologo, che cosa le avessero insegnato (o cosa avesse capito e/o studiato) all’Istituto superiore di scienze religiose di Oristano, dove ha conseguito il diploma di laurea in Scienze religiose (non la laurea in teologia, e non definiamola «teologa»! Teologo, nella Chiesa, è solo chi ha il mandato ufficiale di insegnare teologia, e non chi ha solo conseguito un titolo accademico).
La Murgia, oltre al titolo, ha anche ricoperto ruoli di primo piano nell’Azione cattolica sarda, fino a diventarne referente regionale per il settore giovani.
Posto che a tutti è sempre consentito di cambiare opinione (ma la fede non è una opinione) la prima domanda che mi pongo riguarda la formazione che offriamo nelle nostre Istituzioni accademiche ed i criteri che adottiamo per riconoscere responsabilità educativa e visibile.
Ma quest’analisi autocritica ci porterebbe lontano, perché la situazione è generalizzata, da quando all’appartenenza si è sostituita un’anonima inclusività, fondata unicamente sulla comune umanità, e da quando la militanza e l’apostolato non sono più considerati valori, ma atteggiamenti divisivi. Come se la Chiesa non fosse più cattolica ed apostolica, e come se non fosse proprio la coscienza di appartenere, l’unica autentica garanzia di apertura all’altro. Giorgio Gaber docet.
Il punto cruciale del pensiero della Murgia, colto anche da Dacia Maraini, è tuttavia il «superamento dei legami di sangue», la proposta di una «famiglia elettiva» nella quale ciascuno sceglie liberamente i propri familiari, superando la «mesolitica famiglia patriarcale».
Ora, posto che alcune insofferenze, in Sardegna, possono essere percepite in modo più acuto che a Milano, la sostituzione della famiglia con legami elettivi sarebbe una catastrofe antropologica, devastante anche per la ragione umana ed il comune buon senso.
Innanzitutto, si dimentica un fattore essenziale: all’origine della «famiglia di sangue» c’è sempre un legame elettivo. Uomo e donna si scelgono, si eleggono e, da quel legame elettivo libero, nasce la famiglia di sangue.
Anche in tempi e circostanze in cui la scelta non appariva così libera e il «suggerimento» dei genitori poteva condizionare in modo determinante, permaneva sempre l’elemento elettivo, soprattutto, paradossalmente, nelle classi più umili, meno condizionate da questioni sociali ed economiche.
Appartenere ad una «famiglia di sangue», poi, dove nessuno sceglie il proprio padre, la propria madre ed i propri fratelli, è la prima necessaria scuola di alterità: il primo luogo dato, non soggettivamente scelto, in cui l’uomo impara a relazionarsi con «altro da se stesso» e non solo con i propri desideri e/o capricci.
Il fatto che, ordinariamente, questo impatto con il mondo dell’altro coincida con gli affetti più cari ed intimi è una enorme facilitazione, voluta dalla Provvidenza, perché alla scuola dell’amore familiare, con persone date, si possa imparare l’amore per tutti, anche per chi vive e pensa differentemente.
«Se amate solo quelli che vi amano, che merito avete?» (Mt 5,43).
Se scegliete solo quelli che «pensano come voi», dov’è la vostra vera capacità inclusiva? La vostra apertura all’altro?
La «famiglia elettiva» della Murgia (e di tanti con lei) è un grossolano errore antropologico, che presuppone necessariamente, anche se inconsapevolmente, la «famiglia di sangue» e che rivela fino a che punto possa spingersi il soggettivismo gnoseologico, che caratterizza la modernità ed illude l’uomo, sostituendo alla realtà (complessa, ma vera) la soggettiva volontà (inebriante, ma drammaticamente illusoria).
Infine, teologicamente parlando, l’odio per il sangue (ed i legami di sangue) è sempre sospetto. Gli ebrei, in Egitto, furono risparmiati, perché segnarono gli stipiti delle porte con il sangue degli agnelli immolati, profezia del sangue salvifico di Cristo, immolato sulla Croce per tutti gli uomini. Prototipo (anzi primogenito) di quell’amore totale, oblativo, inclusivo e gratuito, di cui tutti abbiamo infinita nostalgia. Ed è l’Unico Amore che salva, nel sangue.
La famiglia di sangue precede in modo irrinunciabile ogni altro legame elettivo, ne è scuola, ed è essa stessa frutto di elezione libera.
Saviano si fa lo spot sull’altare: «Io e lei pericolosi per i potenti»
«Michela lascia un compito agli intellettuali: difendere i diritti, scegliere da che parte stare, perché i diritti sono il più grande canto d’amore possibile. Michela ha portato sulle sue spalle quello che spesso non fa la politica: prendersi cura della cosa pubblica, venendo bersagliata da una stampa infame, che quando attacca un intellettuale sta intimidendo, manda un messaggio a tutti gli altri». Roberto Saviano «ruba» l’applauso che chi lo circonda aveva destinato al feretro di Michela Murgia all’uscita della Chiesa degli Artisti a Roma sulle note di Bella Ciao. E alla fine del funerale politico, Saviano, in cerca di un ritorno in tv, dopo la cancellazione in Rai, ripete quello che ha già detto sul pulpito ricordando l’amica ma parlando di sé stesso: «Sono le parole più difficili della mia vita. Michela voleva che questa giornata fosse per tutti. Per lei la condivisione era il senso di tutto. Ha protetto tutti fino alla fine, anche nei momenti dolorosissimi della fine. Lei è stata abile a non far sentire il dolore delle sue scelte di lotta, ci siamo conosciuti e uniti non per quello che abbiamo fatto, ma per quello che ci hanno fatto. In questo Paese è stato possibile che si considerasse una scrittrice, intellettuale attivista come una nemica politica. Aveva talento che permetteva di ribaltare le cose, questo la rendeva pericolosa ai potenti. Michela ha voluto stare accanto a me nei processi che mi hanno riguardato. Voglio darle tutta la mia gratitudine» ha concluso Saviano. Tanta gente e niente corone, soltanto il copribara (sono rimaste sul sagrato le corone compresa quella del Campidoglio) con i fiori di carciofo, limone, peperoncino e mirto. È il profumo della macchia mediterranea della sua Sardegna che ha accompagnato l’ultimo saluto a Michela Murgia la scrittrice morta giovedì sera a 51 anni per un tumore. Nata a Cabras, in provincia di Oristano, aveva esordito nel 2006 con Il mondo deve sapere, ma tra e sue opere più note Accabadora, Tre ciotole e Istruzioni per diventare fascisti. Fuori da Santa Maria in Montesanto lo striscione God save the queer, la scritta che la Murgia aveva sull’abito di nozze celebrate in «articulo mortis» un mese fa. All’interno, tra i presenti noti, Nicola Fratoianni, Paolo Repetto, Paolo Virzì, Elly Schlein con Paola Belloni, Sandro Veronesi, Lella Costa, Concita De Gregorio, Ritanna Armeni, Francesca Pascale con Paola Turci. In prima fila i meno noti ai più, invece, gli amici più stretti, quelli che lei considerava la sua famiglia con i 4 «figli dell’anima»: il fratello Cristiano, Chiara Tagliaferri, Teresa Ciabatti, il marito di Murgia, Lorenzo Terenzi, poi Saviano, Chiara Valerio, Diego Passoni. «Michela è nell’oltre, la sua anima è in questo viaggio verso il Padre non verso il nulla» ha detto don Walter Insero durante l’omelia. «Vi invito ad accogliere la testimonianza di fede che ha rappresentato nel momento della prova, nella malattia, nella sofferenza dura che ha vissuto. Michela ha portato avanti la buona battaglia, ha conservato la fede, direbbe San Paolo, e non ha mai avuto timore di dimostrarla». C’è stato anche il messaggio di Matteo Zuppi, presidente della Cei: «Il libro della sua vita non è finito ed è un libro che Michela ha scritto per passione». Pungente come sempre Vittorio Sgarbi, sottosegretario alla Cultura: «Non sono un ipocrita, e nel rispetto che si deve a chi non c’è più, e ancor più a chi le ha voluto bene, devo dire che della Murgia donna di cultura conservo un pessimo ricordo. Come quando, per esempio, disse di Battiato: «Scriveva delle minchiate». Mi sarei aspettato argomentazioni più profonde invece che una battuta così triviale. Della Murgia ho apprezzato coraggio e determinazione, e certamente la dignità con cui ha affrontato la malattia, ma credo appartenesse a quella schiera di mitizzati intellettuali di sinistra a cui tutto è concesso, anche insultare uno dei più grandi autori e compositori della musica italiana. Grande rispetto per la sofferenza di questa donna e per la sua morte, ma vedo e leggo messaggi e parole di circostanza che rivelano incoerenza e ipocrisia». E mentre si celebrava il funerale, un passante in piazza ha gridato «comunisti di m…» senza conseguenze.





