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Il libro di Dal Pozzo, con prefazione del cardinale Sarah, fa luce su uno dei momenti più importanti della storia della Chiesa.
Pochi eventi nella bimillenaria storia della Chiesa sono stati così importanti e purtroppo «divisivi», per usare un termine oggi di moda anche in ambito ecclesiale, come il Concilio Vaticano II. La ricorrenza del sessantesimo anniversario della chiusura dell’assise conciliare sarà anche l’occasione per dar vita a nuovi dibattiti, confronti e purtroppo polemiche su un evento epocale che non cessa di far discutere. D’altronde se ancora oggi gli uomini si interrogano su Gesù di Nazareth, non ci si deve sorprendere se a distanza di anni si continua a parlare del Concilio. D’altro canto, se il Concilio Vaticano II è ancora per molti un «segno di contraddizione», evidentemente la scelta che fece San Giovanni XXIII di indire il Concilio nel bene e nel male è stata lungimirante e profetica.
Il problema non è che a distanza di tempo ancora si parli del Concilio, perché è giusto e normale che sia così, ma piuttosto come se ne discuta. Troppo spesso, infatti, si considera il Concilio Vaticano II in modo troppo astratto e ideologico mettendo in campo interpretazioni che assecondano interessi e visioni del mondo e della Chiesa che non rispondono a quanto è stato discusso e approvato. C’è, infatti, una grande differenza tra ciò che il Concilio ha sancito e quello che invece si desiderava che il Concilio affermasse. Il risultato di questa forzatura, purtroppo, è lo stravolgimento sia della comprensione che della ricezione delle disposizioni conciliari.
Il libro di Luca Del Pozzo, intitolato Il Concilio Vaticano II spiegato ai miei figli, offre un importante contributo per chiarire equivoci e fraintendimenti. Il merito principale di quest’opera veramente originale e, per certi aspetti, unica nel suo genere, consiste appunto nello spiegare con chiarezza e dovizia di particolari che cosa sia stato effettivamente il Vaticano II. Considerando che ogni lettura di eventi consegnati alla storia risente spesso di una visione soggettiva, è tuttavia indubitabile che l’autore offra con questo saggio una lettura del Concilio, che a molti potrà sembrare indigesta e politicamente scorretta, ma molto ben documentata e pertinente.
Non si tratta di un’opera destinata ai giovani, come il titolo potrebbe far credere, ma di un saggio divulgativo in cui non mancano le analisi approfondite, la sistematicità e il riferimento alle fonti e ai documenti conciliari che offrono un quadro chiaro ed organico anche al lettore meno attento alle vicende ecclesiali.
Del Pozzo, pur non essendo uno specialista, ma un «laico, marito e padre di famiglia», legge il Concilio partendo dal Concilio, cioè dai principali documenti conciliari ai quali è dedicata la parte centrale del volume. Grazie a questo approccio metodologico, termini e categorie assurte a simboli del Vaticano II, come ad esempio «aggiornamento», «apertura», «dialogo», «rinnovamento», «segni dei tempi», etc., che hanno creato non poca confusione e incertezza, vengono ricondotti al loro significato autentico.
L’autore ha il merito di cogliere e illustrare il senso e il significato dell’evento conciliare ed in particolare le sue istanze riformatrici, il posto che occupa nella storia della Chiesa e, soprattutto, la sua missione che si inquadra perfettamente nell’attualità dei nostri giorni. Un grande affresco di teologia della storia, all’interno del quale si propone, in particolar modo nella parte conclusiva, una lettura «apocalittica» del Concilio alla luce della profezia di Joseph Ratzinger sul futuro della Chiesa.
Tre sono le acquisizioni principali dell’opera.
La prima che l’autore espone, a partire da un confronto serrato con i testi del Concilio, gli interventi dei pontefici e, non ultimo, un pronunciamento della Congregazione per la Dottrina della Fede spesso sottaciuto, ma in realtà decisivo, riguarda il fatto che il Vaticano II non è stato un Concilio di rottura bensì - come già Benedetto XVI aveva sottolineato nel celebre discorso del 22 dicembre 2005 - di rinnovamento nella continuità. Papa Benedetto afferma che «possiamo oggi con gratitudine volgere il nostro sguardo al Concilio Vaticano II: se lo leggiamo e recepiamo guidati da una giusta ermeneutica, esso può essere e diventare sempre di più una grande forza per il sempre necessario rinnovamento della Chiesa».
Così Papa Benedetto XVI appoggia la sua ermeneutica di continuità, citando le parole ben note di Papa Giovanni XXIII, «in cui questa ermeneutica viene espressa inequivocabilmente quando dice (Giovanni XXIII) che il Concilio «vuole trasmettere pura ed integra la dottrina, senza attenuazioni o travisamenti», e continua: «Il nostro dovere non è soltanto di custodire questo tesoro, come se ci preoccupassimo unicamente dell’antichità, ma di dedicarci con alacre volontà e senza timore a quell’opera, che la nostra età esige […] È necessario che questa dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che corrisponda alle esigenze del nostro tempo. Una cosa è infatti il deposito della fede, cioè le verità contenute nella nostra veneranda dottrina, e altra cosa è il modo col quale esse sono enunciate, conservando ad esse tuttavia lo stesso sen\so e la stessa portata» (S. Oec. Conc. Vat. II Constitutiones Decreta Declarationes, 1974, pagine 863-865)».
La seconda è che critica la tesi per la quale tutti i mali e gli errori della Chiesa (che pure non sono mancati come ad esempio nella riforma liturgica), ivi compresa l’attuale crisi del cattolicesimo, sono imputabili al Concilio.
La terza sottolinea la grande attualità del Vaticano II che rappresenta un efficace antidoto alla crisi della Chiesa e più in generale della fede. Una reale e autentica attuazione del Concilio, piuttosto che programmi di riforma ecclesiale o percorsi sinodali dall’esito incerto, è il vero rinnovamento che la Chiesa da sempre persegue, cioè, la conversione e il ritorno a Cristo, ovvero la chiamata alla santità, dalla quale prende forza un nuovo slancio missionario «centrato» sull’uomo.
Il Giubileo, che si celebra nell’anno del sessantesimo anniversario della chiusura del Concilio Vaticano II, ci ricorda che la vera vocazione di ogni uomo e donna è la santità, la consapevolezza di appartenere totalmente a Dio. Questo è il dono che il Concilio Vaticano II ha consegnato alla Chiesa e all’umanità.
Mi auguro che questo meticoloso studio di Luca Del Pozzo possa essere di grande aiuto a chiunque voglia acquisire un’ampia conoscenza dei testi conciliari e una giusta ermeneutica per leggere e recepire il Concilio Vaticano II come una forza di rinnovamento della Chiesa.
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Il cardinale Robert Sarah (Ansa)
- In «Per l’eternità» il cardinale Sarah affronta il relativismo che profana la vita consacrata. E disgrega famiglie e società.
- Eutanasia: la posizione espressa da padre Casalone in audizione al Senato (chiamato dal Pd) sul ddl. E che va contro le parole di Papa Bergoglio: «La morte non va somministrata».
Lo speciale contiene due articoli.
In questi anni il cardinale africano Robert Sarah, 77 anni, prefetto emerito del Culto divino, ha dato alle stampe dei veri e propri best sellers dello spirito. Dio o niente, La forza del silenzio, Si fa sera e il giorno volge al declino, per citare il trittico edito in italiano dall’editore Cantagalli, sono stati letti dai fedeli di tutto il mondo.
Ora esce nelle librerie italiane, sempre per l’editore senese, il volume dal titolo Per l’eternità. Meditazioni sulla figura del sacerdote (Cantagalli, pagine 272, €23 euro il prezzo di copertina), un testo che si concentra sulla figura del prete, ma che in qualche modo parla a tutti. Coincidenza vuole che proprio in questi giorni in Francia è in uscita l’ultimissimo libro del cardinale, un catechismo sulla vita spirituale in cui afferma, fra l’altro, che «l’Occidente non può più reggersi in piedi perché non sa più inginocchiarsi». (Lorenzo Bertocchi).
Robert Sarah, Cardinale, prefetto emerito
del Culto divino
Come si può restare indifferenti di fronte al dramma degli abusi sessuali e dell’abuso di potere? Sono convinto che essi abbiano le loro radici nella secolarizzazione della vita dei sacerdoti. Il sacerdote è un uomo al servizio di Dio e della Chiesa. È un consacrato. Tutta la sua vita è riservata a Dio. Si è voluto desacralizzare la vita sacerdotale. Si è voluto banalizzarla, profanarla, secolarizzarla.
Abbiamo formato sacerdoti senza insegnare loro che il solo punto d’appoggio della loro vita è Dio, senza consentire loro di sperimentare che la loro vita ha senso soltanto per e attraverso Dio. Lontani da Dio, non resta loro nient’altro che il potere umano. Alcuni sono sprofondati nella logica diabolica dell’abuso di potere e dei reati sessuali. Se un sacerdote non sperimenta quotidianamente di essere soltanto uno strumento nelle mani di Dio, se non sta costantemente davanti a Lui per servirlo con tutto il cuore, allora rischia di inebriarsi di potere. Se la vita del sacerdote non è una vita consacrata, allora egli corre il grande pericolo di cadere vittima di illusione e sviamento. Ora, il celibato è la manifestazione più evidente che il sacerdote appartiene a Cristo e che non appartiene più a sé stesso. Il celibato è il segno di una vita che ha senso solo per e attraverso Dio. […]
L’obbedienza del sacerdote non è una sottomissione professionale a un superiore. Essa si inscrive nell’obbedienza del Figlio al Padre, ne partecipa e la prolunga. Come Cristo, il sacerdote deve poter affermare: «La mia dottrina non è mia, ma di colui che mi ha mandato» (Giovanni 7,16). «Perché io non ho parlato da me, ma il Padre che mi ha mandato, egli stesso mi ha ordinato che cosa devo dire e annunziare» (Giovanni 12,49). E devo obbedirgli assolutamente, fino alla morte e alla morte di Croce (cfr. Fil 2,8). Un sacerdote non parla di sé, della propria esperienza.
Egli è inviato ad annunciare una parola di cui non è l’autore. La sua fedeltà alla parola di Dio, trasmessa dalla Chiesa, è la radice della sua obbedienza. Non aspettiamoci da un sacerdote che sia originale, ma che sia fedele alla dottrina trasmessa.
È deplorevole che oggi alcuni, per la preoccupazione di compiacere il mondo o di risultare attuali, e talvolta anche per velare o attenuare le esigenze radicali della Parola di Dio, abbiano la tendenza ad annacquare il Vangelo, a mistificarlo o a edulcorarlo per adattarlo alla mentalità e alle ideologie occidentali. […]
C’è oggi molta ambiguità, confusione, e molte interpretazioni ideologiche della Parola di Gesù. Anche nella Chiesa si è raggiunto un livello di relativismo mai visto. Così si crocifigge Cristo ancora una volta e si adultera il messaggio evangelico. Gesù, tuttavia, non ha lasciato spazio a nessun dubbio circa la radicalità del suo messaggio e le sue esigenze. Gesù è la Via, la Verità e la Vita; «Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi, e sempre» (Eb 13,8). Ciò che chiedeva allora egli lo chiede ancora oggi. Il suo Vangelo non cambia al ritmo del mondo. […] Dalle origini del cristianesimo ci sono scelte alle quali non si può derogare. «Nessuno può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro: non potete servire a Dio e a mammona» (Mt 6,24; cfr. Lc 16,13). O seguiamo Gesù oppure scegliamo di conformarci al mondo.
La storia della Chiesa è segnata dalla testimonianza di una moltitudine di cristiani che hanno preferito dire «no», anche a costo della vita, piuttosto che perdere il tesoro che avevano scoperto in Gesù (cfr. Mt 13,44). Ancora oggi, questa libertà sovrana, che la fede in Gesù Cristo dona, porta i cristiani a resistere vittoriosamente alle nuove ideologie che distruggono l’uomo, la famiglia e la nostra società. Molti uomini del nostro tempo si irrigidiscono non appena si parli di verità e di una verità oggettiva universale che è al di fuori di noi, che ci supera e ci sovrasta. Ritengono ciò sinonimo di dogmatismo, di fondamentalismo e di intolleranza, e contrario alla scienza. Ci si rifiuta di riconoscere la realtà sovrana di Dio. Tuttavia, la Parola di Dio è l’unica luce che rivela la verità del mondo. Si insiste molto anche oggi sul cambiamento culturale. Si parla di una nuova etica globale, di cambi di paradigmi. Anche l’insegnamento dottrinale e morale e le discipline della Chiesa dovrebbero cambiare a loro volta? Se ci sono cose che cambiano, ci sono anche cose che restano immutate. Il progresso riguarda le tecnologie.
L’uomo resta lo stesso. I nostri contemporanei vivono in un contesto nuovo. Alcuni godono di nuove comodità, altri invece sperimentano nuove difficoltà. Ma nell’uomo di oggi vi è la stessa gentilezza, solidarietà fraterna, generosità e aspirazione alla libertà, alla felicità e la stessa malizia, perversione, avidità, malvagità, brutalità, lussuria e inclinazione all’idolatria dell’uomo di mille anni fa, a tal punto il peccato originale ci ha profondamente e ontologicamente segnati. Sono in tutto simile a Adamo ed Eva. L’unica differenza che sussiste tra me e Adamo è che io, oggi, ho un cellulare, un’automobile. Ma questa differenza è superficiale. Nel mio intimo ho i suoi stessi vizi, le stesse ambizioni, le stesse concupiscenze, la stessa avidità. E ogni uomo che nasce è costretto ad affrontare a sua volta le fatiche di ordine morale e spirituale dei propri genitori. Tutto ricomincia da capo. È questa la verità e la realtà a cui dobbiamo obbedienza.
Che tentazione, alle volte, di dire ciò che tutti vorrebbero sentire! Che tentazione di annacquare la Parola di Dio! Fin troppo forte per il nostro spirito intorpidito! Eppure, la nostra obbedienza ha le sue esigenze ed è il pegno del nostro amore per le anime. Che cosa saremmo se insegnassimo loro una dottrina addolcita, ammorbidita? Saremmo dei falsari. Condurremmo le anime lungo sentieri che non portano da nessuna parte.
Casalone: «Mondo pluralista, sì all’eutanasia»
Legge sul suicidio assistito? Sarebbero consigliabili alcuni ritocchi, ma sulla sostanza si può convenire, perché «siamo in una società pluralista». È questo il succo dell’intervento reso ieri mattina, nel corso delle audizioni tenute in Senato, precisamente nelle Commissioni riunite Giustizia e Sanità, non già da qualche militante radicale, bensì da un sacerdote, padre Carlo Casalone, docente di Teologia morale alla Pontificia università gregoriana, chiamato dal Pd a sostegno del disegno di legge.
L’intervento è stato strutturato in due passaggi: uno di «notazione generale», l’altro più basato su un esame critico dei singoli articoli. In effetti, nella seconda parte della sua relazione padre Casalone non ha mancato di evidenziare almeno un paio di punti critici del testo approvato alla Camera a marzo, relativamente alle cure palliative e all’espressione «condizione clinica irreversibile» che, secondo il sacerdote, sarebbe da integrare con l’aggettivo «terminale», onde evitare che il ddl esponga persone affette da una disabilità mentale o fisica a qualsivoglia pressione di morte.
Peccato, però, che nella prima parte del suo intervento, quella di «notazione generale», il docente della Gregoriana nulla abbia evidenziato delle criticità bioetiche della legge sul suicidio assistito. Addirittura, per giustificare tale sorprendente neutralità di un sacerdote davanti ad una norma che introduce il diritto di ottenere la morte, Casalone ha richiamato un intervento tenuto da Papa Francesco sei anni or sono, nel 2016, quando al Comitato nazionale di bioetica disse che «la Chiesa non rivendica alcuno spazio privilegiato in questo campo, anzi, è soddisfatta quando la coscienza civile, ai vari livelli, è in grado di riflettere, di discernere e di operare sulla base della libera e aperta razionalità».
Chiarissimo il senso di questa citazione da parte del religioso, che in questo modo ha paradossalmente voluto sottrarsi, lui docente di Teologia morale, a qualsivoglia valutazione morale sul testo. Una cosa assai singolare di cui si è accorto il senatore della Lega Simone Pillon il quale ha chiesto al sacerdote se secondo lui vi fosse accordo tra il ddl sul fine vita e le recenti parole di papa Bergoglio che, in udienza generale il 9 febbraio scorso, disse: «La vita è un diritto, non la morte, la quale va accolta, non somministrata».
Chiunque, davanti a una domanda così puntuale, si sarebbe sentito in difficoltà; non così, però, padre Casalone, che ha seraficamente riportato il discorso sul «rapporto tra dottrina e posizioni giuridiche all’interno di un Paese pluralista». È chiaro quale sia la posizione del pensiero cattolico sull’eutanasia e sul suicidio assistito, ha affermato il sacerdote, ma bisogna fare i conti con il panorama culturale odierno: come se la verità morale fosse subalterna al pluralismo e non chiamata a guidarlo.
Infine, Casalone ha concluso richiamando il suo articolo uscito sulla Civiltà Cattolica a gennaio, con cui auspicava l’approvazione della legge sul suicidio assistito. «Quell’articolo è uscito con l’approvazione della Segreteria di Stato», ha chiosato il sacerdote. Come dire: il mio pensiero non è affatto eretico, anzi è conforme a quello della Chiesa. E le parole di Papa Francesco richiamate da Pillon? Su quelle il docente della Gregoriana ha preferito glissare. Perché siamo in una società pluralista e tutto, sembra, deve esser oggetto di confronto. Perfino, a quanto pare, quel «non uccidere» che Dio infilò tra i Dieci comandamenti. Solo perché allora il mondo era diverso, ovvio. Diversamente anche l’Onnipotente avrebbe precisato: «Non uccidere, se il pluralismo te lo permette».
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Il cardinale Robert Sarah (Ansa)
La prefazione del cardinal Sarah al libro di Mosebach dove si raccontano le storie dei 21 copti uccisi dall’Isis nel 2015.
Pubblichiamo alcuni stralci della prefazione del cardinale Robert Sarah al volume I 21. Viaggio nella terra dei martiri copti di Martin Mosebach (Cantagalli, 264 pagine, 22 euro). Si tratta di una approfondita inchiesta del giornalista e studioso tedesco Martin Mosebach che si è recato in Egitto per parlare con i familiari dei 21 copti uccisi dall’Isis nel febbraio 2015. Decapitati su una spiaggia a Sirte (Libia), i 21 uomini non rinnegarono la propria fede ed è per questo motivo che furono subito riconosciuti come martiri. Già nel 2015 il patriarca Tawadros inserì i nomi delle 21 vittime nel Sinassario, l’equivalente orientale del martirologio romano. E il presidente egiziano Al-Sisi fece costruire una chiesa in loro onore: è la chiesa dei Martiri della fede e della patria e si trova ad El-Aour in Egitto.
Lo scrittore tedesco Martin Mosebach ci offre un libro che è allo stesso tempo toccante, esigente e di incomparabile ricchezza spirituale. Membro dell’Accademia di Berlino, insignito di uno dei più prestigiosi premi letterari del suo Paese (il Premio Georg-Büchner), l’Autore ci invita a un viaggio - o, per meglio dire, a un «pellegrinaggio» - che consiste nella scoperta della comunità cristiana egiziana dei Ventuno martiri copti, giustiziati il 15 febbraio 2015 su una spiaggia di Sirte, in Libia, da parte di alcuni miliziani dello Stato Islamico. […] Ed è con gioia e onore grande che presento l’edizione italiana di quest’opera dal titolo: I 21. Viaggio nella terra dei martiri copti, già pubblicata in tedesco, inglese, olandese, e ora anche in italiano. Lo faccio con immenso rispetto e non senza un certo timore di fronte all’indescrivibile forza d’animo di questi martiri che hanno reso testimonianza a Gesù Cristo, e hanno mescolato il proprio sangue con il Sangue divino dell’Agnello senza macchia. [...] Quando è stata pubblicata online, dai mezzi di propaganda dell’Isis, la decapitazione di questi uomini che indossavano una tuta arancione brillante, i media e i siti web sono rimasti inorriditi, e ben presto tutto il mondo è rabbrividito per l’orrore di questa barbarie senza fine. Sei giorni dopo, il 21 febbraio 2015, il Primate della Chiesa Copta Ortodossa, Tawadros II, [...] ha annunciato l’iscrizione delle ventuno vittime nel Martirologio dei santi copti. Il Presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi ha subito reso nota l’intenzione di costruire a spese dello Stato una chiesa loro dedicata ad Al-Minya. L’edificio di 4.000 metri quadrati fu inaugurato il 15 febbraio 2018 alla presenza del Primate Tawadros II e del Presidente egiziano. Vi sono ora esposte, per il culto dei fedeli, le spoglie dei martiri, dal loro ritorno in Egitto, il 14 maggio 2018. Per la maggior parte erano giovani, nati tra il 1986 e il 1991: il più anziano, Tawadros Youssef, era nato nel 1968, e il più giovane, Girgis (detto «il minore») Milad Seniut, nel 1992. Tra questi egiziani ricordiamo anche un ghanese, Matthew Ayariga, del quale non si conosce la data di nascita, né se fosse già stato battezzato o se fosse catecumeno. Come ha giustamente dichiarato Tawadros II, si può a buon diritto ritenere che questo ghanese abbia ricevuto il battesimo di sangue.
[…] Anzitutto, bisogna sapere che il termine «martire», che in greco significa «testimone» (martus), è stato completamente stravolto dai fondamentalisti islamici. Come spiega Annie Laurent, nell’Islam, il martire (chahid: testimone) è certamente colui che acconsente a sacrificare la propria vita, ma l’amore di Dio, il perdono e la gratuità sono estranei a questa realtà. Il martire islamico non muore per testimoniare il proprio credo [...]; muore, invece, nel contesto del jihad, perché l’Islam possa trionfare, o per una causa affine, quale per esempio «la liberazione della Palestina» e per «guadagnare» il paradiso. Questa morte è considerata sacra anche quando assume la forma di un attentato suicida, con l’accesso al paradiso quale ricompensa.
Si noti, inoltre, che il significato delle due parole chahid e martus esprime la differenza essenziale e diametralmente opposta tra il martirio previsto nel Corano e il martirio cristiano. La parola chahid ha un significato attivo, il che significa che il martirio è ricercato per sé stesso nell’ambito di un combattimento da portare avanti fino alla morte, e che può essere assimilato anche al suicidio, poiché l’autore dell’assassinio acconsente volentieri al sacrificio supremo, soprattutto nella caso di attentato terroristico. Dall’altra parte, il termine martus ha a prima vista un significato passivo: il martire cristiano non ricerca la morte; egli la accetta volontariamente quando si presenta questa terribile prova.
[…] Aggiungo subito, tuttavia, che non bisogna ingannarsi circa il carattere apparentemente passivo del martirio cristiano; ho fatto uso di tale aggettivo solo per distinguerlo dalla natura aggressiva e violenta dello chahid coranico. «Attivo», il martire cristiano lo è in senso pieno: non è affatto seguace di quello che nel XVII secolo verrà chiamato «quietismo», anzi, egli lotta in mezzo alle prove. Si tratta, però, di un altro tipo di combattimento, di natura spirituale, il combattimento della fede, molto aspro, decisivo e dal quale dipende la salvezza della propria anima; un combattimento che non è altro che quello di Cristo sulla Croce. È una lotta spietata contro le forze del male, cioè contro Satana, che va in cerca della sua preda «come leone ruggente» (cfr. 1Pt 5,8), contro la concupiscenza della carne, e anche contro la nostra tendenza - naturale, dopo il peccato originale - a ritrarci con paura di fronte alla sofferenza, in particolare di fronte alla sofferenza che giudichiamo umanamente ingiusta, dovuta ai tormenti del martirio e della morte corporale. Eppure, tutti i martiri, dalla fragile santa Blandina, data in pasto alle belve nell’anfiteatro delle Tre Gallie a Lione, a san Massimiliano Kolbe, nel bunker della fame di Auschwitz, hanno dato prova di un coraggio straordinario, di una forza che superava ogni umana comprensione e provocava stupore, persino l’ammirazione da parte dei loro carnefici... che essi hanno saputo perdonare con sincerità di cuore, come ha fatto Gesù in cima alla Croce gloriosa: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno» (cfr. Lc 23,34).
[…] Il martire cristiano muore perdonando il proprio carnefice, a imitazione e in unione a Cristo sulla Croce. Se ne può trovare un esempio nelle parole di Mons. Angaelos, vescovo dei copti ortodossi del Regno Unito, che subito dopo la loro uccisione ha dichiarato di essere «pronto» a perdonare i terroristi, anche se ad alcuni la cosa poteva sembrare «incredibile»: «Non perdoniamo l’azione, che è atroce. Ma perdoniamo veramente gli assassini dal profondo del nostro cuore. Altrimenti, saremmo consumati dalla rabbia e dall’odio e alimenteremmo una spirale di violenza che in questo mondo non deve esistere».
Infine, ecco l’ultima caratteristica del martirio cristiano: non va ricercato per sé stesso, perché in un certo senso ciò sarebbe come provocare Dio per ottenere il premio del paradiso e fare di Lui ciò Egli non è, vale a dire una sorta di idolo pagano con il quale mercanteggiare per conseguire determinati vantaggi: successo, potere, ricchezza e... salvezza eterna; e non, invece, lasciare che sia come Egli è, ossia un Padre molto amorevole, Sorgente traboccante, infinita e perfetta d’Amore, che sgorga dal Cuore del suo amato Figlio crocifisso, nello Spirito Santo, che ci fa entrare, vivere e comunicare con l’Amore stesso di Dio. Il martirio implica, pertanto, una totale gratuità.
[…] A mo’ di conclusione, vorrei citare la madre dei due fratelli martiri Samuel e Beshoy: «Sono madre di martiri, e sono orgogliosa di loro. In Cielo intercedono per me e per loro padre». E aggiunge, inoltre, che prega per i seguaci dello Stato islamico e che chiede a Dio «che li illumini e apra i loro occhi alla verità e al bene».
Sì, questo famoso apoftegma di Tertulliano è proprio vero: «Sanguis Martyrum, semen Christianorum»: «Il sangue dei martiri è il seme dei cristiani».
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