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2022-08-25
Tutti i lati oscuri dei «cacciatori di bufale»
Mark Zuckerberg (Jakub Porzycki/NurPhoto via Getty Images)
Chi controlla il controllore? Se la faccenda si trascina dai tempi di Giovenale, ed è rimasta irrisolta, i tentativi di verificare l’informazione pubblica e «sociale», oggi, attraverso i cosiddetti fact checker, nel migliore dei casi fanno sorridere. Nel peggiore, quello che stiamo vivendo oggi sotto pandemia, rasentano l’impudenza. Accade che buona parte dell’informazione (a partire da quella sul Covid) passi attraverso i social network, in particolare Facebook, e che questi si siano autoconferiti l’incarico di epurare ciò che non risponde alle «policies» del social.
Vinay Prasad, professore associato di epidemiologia e biostatistica presso l’università della California, ha dedicato al tema uno studio, pubblicato pochi giorni fa sulla rivista peer reviewed Digital Health, specializzata in assistenza sanitaria nel mondo digitale. La ricerca si è concentrata su Healthfeedback.org, una delle tante organizzazioni che esaminano articoli sui media per conto di Facebook. Lo studio ha stabilito che gli attuali processi di verifica dei fatti sembrano essere fortemente associati a revisori selezionati in base al numero di follower su Twitter: i fact checker sono nella maggioranza dei casi utenti Twitter con numerosi seguaci, che a volte dichiarano ostilità nei confronti degli argomenti che devono verificare già prima di effettuare la verifica. Controllori governati dal pregiudizio, insomma, al punto che l’autore invoca a gran voce «maggiore trasparenza nel processo che determina se un contenuto è ’disinformazione’ o no». Nella fattispecie, sostiene Prasad, oltre che sulla base del seguito su Twitter, i revisori sembrano essere selezionati in base a punti di vista a priori che raggiungono un vasto pubblico. Non è chiaro come vengano selezionati gli articoli per la revisione e come vengano scelti i revisori poiché il processo di selezione dei revisori non è specificato nel sito, né negli stessi articoli di debunking. Una pesantissima critica alle censure pandemiche è arrivata, lo scorso 3 agosto, anche da Martin Kulldorff, epidemiologo ad Harvard: «Ho citato in giudizio per violazione del primo emendamento il governo e il presidente Joe Biden, il Cdc e Anthony Fauci, in collusione con Twitter, Facebook, Linkedin e Youtube nell’aver censurato la nostra libertà di parola». Kulldorff, che firma il documento insieme con altri scienziati tra cui l’epidemiologo Jay Batthacharya, cita espressamente debunkers e fact checker.
Anche in Italia il fact checking opera arbitrariamente: quando, il 17 settembre 2021 l’advisory committee di Fda sui vaccini decise, dopo una riunione fiume di 8 ore, di bloccare la somministrazione delle terze dosi con 16 (contro 2) espressioni contrarie, chi documentò quella riunione fu sospeso da Facebook. Anche adesso, molti utenti vengono bloccati perfino quando condividono articoli pubblicati su riviste scientifiche prestigiose come Bmj. Il fact checking è ora concentrato sulle elezioni. La prima a subire la cancellazione della pagina Facebook è stata l’europarlamentare Francesca Donato, il giorno dopo il suo voto contrario alle sanzioni alla Russia. Più recentemente, i fact checker hanno calato la mannaia su un utente colpevole di aver condiviso un post in cui si annunciava lo sciopero del 9 e 10 settembre dei sindacati Fisi (Pa, sanità e scuola), proclamato contro l’obbligo vaccinale: anche il diritto di sciopero è nel mirino?
Come funzionino i blocchi, è noto: le piattaforme dichiarano che la prima scrematura è fatta da un algoritmo (quello che censura i nudi artistici come Le Déjeuner sur l’herbe del pittore Manet perché si intravede un seno), ma la selezione è eseguita, ovviamente, da persone in carne e ossa. Per Facebook, centinaia di dipendenti divisi tra India, Irlanda, Texas e California. Curiosamente, tra le aree di specializzazione non ce n’è una dedicata alle cosiddette fake news: le squadre si occupano di hate speech, hacker, pornografia e sicurezza. In Italia, così come in tanti altri Paesi, nessuno si occupa delle segnalazioni, che vengono date in gestione a società esterne (nel caso italiano, Open di Enrico Mentana). Il codice lessicale, che ormai abbiamo imparato a riconoscere («No! Non è vero che Mario Rossi ha i capelli castani! Li ha marroni!») è lo stesso ovunque, l’attenzione del fact checker si concentra su un dettaglio e su questo sviluppa il debunking.
Gli acchiappa fakenews si prendono molto sul serio, al punto che qualche settimana fa a Oslo si è tenuta la conferenza dei fact checker «indipendenti» di tutto il mondo, organizzata da un’associazione di media dem americani. Nessuno ha parlato delle grandi fake che hanno spostato decine di milioni di voti, come quella che ha negato l’esistenza del laptop del figlio del presidente Joe Biden, riconosciuta dopo 18 mesi perfino dal New York Times. Nessun cenno neanche sulla grave censura operata da Twitter contro il famoso epidemiologo di Oxford Carl Henegan, «colpevole» di aver pubblicato uno studio che suggeriva che il conteggio dei decessi Covid era probabilmente «esagerato». Il convegno si è concluso con una delibera, chiara a tutti: combattere chi non si allinea.
Guerra social: Facebook impazzisce e Twitter gongola per l’incidente
«Su Facebook mi hanno fatto gli auguri di compleanno alcuni sconosciuti, peccato che non fosse il mio compleanno», scriveva divertito un utente su Twitter, mentre tra le pagine dell’uccellino cinguettante guadagnavano terreno gli hashtag #facebookdown e #facebookhacked, a testimonianza di un malfunzionamento che attanagliava ieri mattina il social network di Mark Zuckerberg. La battaglia prendeva forma: Twitter si faceva beffe di Facebook, dileggiandone una falla di sistema attraverso i suoi iscritti. È quanto accaduto ieri e, in effetti, i contorni spassosi non mancavano: verso le 8.30 di mercoledì 24 agosto, diversi profili Facebook segnalavano la comparsa sulle loro bacheche di immagini e post di persone sconosciute, non incluse nella personale rete di amicizie o di frequentazioni virtuali, addirittura aggiornamenti di pagine vip, poco importa se da loro seguiti o meno. Da Cristiano Ronaldo a Shakira, passando per Rihanna. Non solo. Molte persone si sono ritrovate con una messe spropositata di auguri di felice compleanno da parte di personaggi misteriosi, inviti a eventi, messaggi su argomenti inediti.
Il sito web specializzato Webdetector.com, in breve tempo, ha registrato migliaia di segnalazioni di questo tipo e numerosi utenti di Twitter, a loro volta iscritti pure su Facebook, paventavano il rischio di una violazione della privacy delle loro pagine dovuta a un attacco di pirati informatici. In giornata è arrivata la smentita: nessun attacco hacker a Facebook, era l’algoritmo - l’insieme di procedure matematiche in grado di mostrare all’utenza pagine e risultati sulla base delle tendenze personali e delle azioni compiute - a essere impazzito. Il motivo? Pare sia da ricercare in una modifica di configurazioni da parte dei tecnici di Meta, il marchio capeggiato da Zuckerberg. «Una modifica alla nostra configurazione ha provocato ad alcune persone problemi con le pagine del loro profilo Facebook. Abbiamo risolto il malfunzionamento il più rapidamente possibile e ci scusiamo per gli eventuali disagi», ha dichiarato un portavoce della società.
Twitter probabilmente avrà fatto salti di gioia per l’improvvisa impennata di traffico tutta a suo vantaggio. «Facebook non funziona? Seguici su Twitter», si prodigavano a scrivere numerose pagine, anche di partiti politici impegnati nel diffondere messaggi pre elettorali. Del resto, la disfida tra i due social network è entrata nel vivo soprattutto da quando Elon Musk, patron di Tesla, aveva annunciato di voler acquisire il marchio con l’uccellino su sfondo azzurro e di volerne cambiare le regole, lasciando maggior libertà d’espressione agli utenti, senza sottoporli alle strette censure ideologiche stabilite dall’universo Zuckerberg e in generale dal mondo dei social. Per ora Musk detiene il 9,2% delle azioni, ma dopo aver avanzato un’offerta da 44 miliardi di dollari per acquisire il pacchetto completo si è defilato, e a dirimere la vicenda ci penserà la Corte della cancelleria del Delaware il 17 ottobre. Il motivo della marcia indietro di Musk è legato, pare, alla discrepanza tra il numero di utenti attivi sul social network e il numero dichiarato ufficialmente. Addirittura, il fondatore di Tesla avrebbe citato in giudizio Jack Dorsey, ex ad di Twitter, allo scopo di acquisire maggiori informazioni sulle cifre dell’azienda, sulle metriche utilizzate per il conteggio dei profili, e sulle misure di sicurezza adottate per proteggere la privacy degli iscritti. Insomma, se Atene Facebook piange, Sparta Twitter ride, ma non troppo.
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Uno studio smonta le operazioni di fact checking lanciate da Mark Zuckerberg: presunti esperti scelti a priori in base ai follower e non alle competenze sul tema e già schierati pubblicamente. Prof di Harvard fa causa a Joe Biden: «Negata la libertà di espressione».Guerra social: Facebook impazzisce e Twitter gongola per l’incidente. Malfunzionamento della bacheca. Sulla piattaforma rivale impazza un hashtag ad hoc.Lo speciale comprende due articoli.Chi controlla il controllore? Se la faccenda si trascina dai tempi di Giovenale, ed è rimasta irrisolta, i tentativi di verificare l’informazione pubblica e «sociale», oggi, attraverso i cosiddetti fact checker, nel migliore dei casi fanno sorridere. Nel peggiore, quello che stiamo vivendo oggi sotto pandemia, rasentano l’impudenza. Accade che buona parte dell’informazione (a partire da quella sul Covid) passi attraverso i social network, in particolare Facebook, e che questi si siano autoconferiti l’incarico di epurare ciò che non risponde alle «policies» del social. Vinay Prasad, professore associato di epidemiologia e biostatistica presso l’università della California, ha dedicato al tema uno studio, pubblicato pochi giorni fa sulla rivista peer reviewed Digital Health, specializzata in assistenza sanitaria nel mondo digitale. La ricerca si è concentrata su Healthfeedback.org, una delle tante organizzazioni che esaminano articoli sui media per conto di Facebook. Lo studio ha stabilito che gli attuali processi di verifica dei fatti sembrano essere fortemente associati a revisori selezionati in base al numero di follower su Twitter: i fact checker sono nella maggioranza dei casi utenti Twitter con numerosi seguaci, che a volte dichiarano ostilità nei confronti degli argomenti che devono verificare già prima di effettuare la verifica. Controllori governati dal pregiudizio, insomma, al punto che l’autore invoca a gran voce «maggiore trasparenza nel processo che determina se un contenuto è ’disinformazione’ o no». Nella fattispecie, sostiene Prasad, oltre che sulla base del seguito su Twitter, i revisori sembrano essere selezionati in base a punti di vista a priori che raggiungono un vasto pubblico. Non è chiaro come vengano selezionati gli articoli per la revisione e come vengano scelti i revisori poiché il processo di selezione dei revisori non è specificato nel sito, né negli stessi articoli di debunking. Una pesantissima critica alle censure pandemiche è arrivata, lo scorso 3 agosto, anche da Martin Kulldorff, epidemiologo ad Harvard: «Ho citato in giudizio per violazione del primo emendamento il governo e il presidente Joe Biden, il Cdc e Anthony Fauci, in collusione con Twitter, Facebook, Linkedin e Youtube nell’aver censurato la nostra libertà di parola». Kulldorff, che firma il documento insieme con altri scienziati tra cui l’epidemiologo Jay Batthacharya, cita espressamente debunkers e fact checker.Anche in Italia il fact checking opera arbitrariamente: quando, il 17 settembre 2021 l’advisory committee di Fda sui vaccini decise, dopo una riunione fiume di 8 ore, di bloccare la somministrazione delle terze dosi con 16 (contro 2) espressioni contrarie, chi documentò quella riunione fu sospeso da Facebook. Anche adesso, molti utenti vengono bloccati perfino quando condividono articoli pubblicati su riviste scientifiche prestigiose come Bmj. Il fact checking è ora concentrato sulle elezioni. La prima a subire la cancellazione della pagina Facebook è stata l’europarlamentare Francesca Donato, il giorno dopo il suo voto contrario alle sanzioni alla Russia. Più recentemente, i fact checker hanno calato la mannaia su un utente colpevole di aver condiviso un post in cui si annunciava lo sciopero del 9 e 10 settembre dei sindacati Fisi (Pa, sanità e scuola), proclamato contro l’obbligo vaccinale: anche il diritto di sciopero è nel mirino? Come funzionino i blocchi, è noto: le piattaforme dichiarano che la prima scrematura è fatta da un algoritmo (quello che censura i nudi artistici come Le Déjeuner sur l’herbe del pittore Manet perché si intravede un seno), ma la selezione è eseguita, ovviamente, da persone in carne e ossa. Per Facebook, centinaia di dipendenti divisi tra India, Irlanda, Texas e California. Curiosamente, tra le aree di specializzazione non ce n’è una dedicata alle cosiddette fake news: le squadre si occupano di hate speech, hacker, pornografia e sicurezza. In Italia, così come in tanti altri Paesi, nessuno si occupa delle segnalazioni, che vengono date in gestione a società esterne (nel caso italiano, Open di Enrico Mentana). Il codice lessicale, che ormai abbiamo imparato a riconoscere («No! Non è vero che Mario Rossi ha i capelli castani! Li ha marroni!») è lo stesso ovunque, l’attenzione del fact checker si concentra su un dettaglio e su questo sviluppa il debunking.Gli acchiappa fakenews si prendono molto sul serio, al punto che qualche settimana fa a Oslo si è tenuta la conferenza dei fact checker «indipendenti» di tutto il mondo, organizzata da un’associazione di media dem americani. Nessuno ha parlato delle grandi fake che hanno spostato decine di milioni di voti, come quella che ha negato l’esistenza del laptop del figlio del presidente Joe Biden, riconosciuta dopo 18 mesi perfino dal New York Times. Nessun cenno neanche sulla grave censura operata da Twitter contro il famoso epidemiologo di Oxford Carl Henegan, «colpevole» di aver pubblicato uno studio che suggeriva che il conteggio dei decessi Covid era probabilmente «esagerato». Il convegno si è concluso con una delibera, chiara a tutti: combattere chi non si allinea. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/tutti-i-lati-oscuri-dei-cacciatori-di-bufale-2657935598.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="guerra-social-facebook-impazzisce-e-twitter-gongola-per-lincidente" data-post-id="2657935598" data-published-at="1661371308" data-use-pagination="False"> Guerra social: Facebook impazzisce e Twitter gongola per l’incidente «Su Facebook mi hanno fatto gli auguri di compleanno alcuni sconosciuti, peccato che non fosse il mio compleanno», scriveva divertito un utente su Twitter, mentre tra le pagine dell’uccellino cinguettante guadagnavano terreno gli hashtag #facebookdown e #facebookhacked, a testimonianza di un malfunzionamento che attanagliava ieri mattina il social network di Mark Zuckerberg. La battaglia prendeva forma: Twitter si faceva beffe di Facebook, dileggiandone una falla di sistema attraverso i suoi iscritti. È quanto accaduto ieri e, in effetti, i contorni spassosi non mancavano: verso le 8.30 di mercoledì 24 agosto, diversi profili Facebook segnalavano la comparsa sulle loro bacheche di immagini e post di persone sconosciute, non incluse nella personale rete di amicizie o di frequentazioni virtuali, addirittura aggiornamenti di pagine vip, poco importa se da loro seguiti o meno. Da Cristiano Ronaldo a Shakira, passando per Rihanna. Non solo. Molte persone si sono ritrovate con una messe spropositata di auguri di felice compleanno da parte di personaggi misteriosi, inviti a eventi, messaggi su argomenti inediti. Il sito web specializzato Webdetector.com, in breve tempo, ha registrato migliaia di segnalazioni di questo tipo e numerosi utenti di Twitter, a loro volta iscritti pure su Facebook, paventavano il rischio di una violazione della privacy delle loro pagine dovuta a un attacco di pirati informatici. In giornata è arrivata la smentita: nessun attacco hacker a Facebook, era l’algoritmo - l’insieme di procedure matematiche in grado di mostrare all’utenza pagine e risultati sulla base delle tendenze personali e delle azioni compiute - a essere impazzito. Il motivo? Pare sia da ricercare in una modifica di configurazioni da parte dei tecnici di Meta, il marchio capeggiato da Zuckerberg. «Una modifica alla nostra configurazione ha provocato ad alcune persone problemi con le pagine del loro profilo Facebook. Abbiamo risolto il malfunzionamento il più rapidamente possibile e ci scusiamo per gli eventuali disagi», ha dichiarato un portavoce della società. Twitter probabilmente avrà fatto salti di gioia per l’improvvisa impennata di traffico tutta a suo vantaggio. «Facebook non funziona? Seguici su Twitter», si prodigavano a scrivere numerose pagine, anche di partiti politici impegnati nel diffondere messaggi pre elettorali. Del resto, la disfida tra i due social network è entrata nel vivo soprattutto da quando Elon Musk, patron di Tesla, aveva annunciato di voler acquisire il marchio con l’uccellino su sfondo azzurro e di volerne cambiare le regole, lasciando maggior libertà d’espressione agli utenti, senza sottoporli alle strette censure ideologiche stabilite dall’universo Zuckerberg e in generale dal mondo dei social. Per ora Musk detiene il 9,2% delle azioni, ma dopo aver avanzato un’offerta da 44 miliardi di dollari per acquisire il pacchetto completo si è defilato, e a dirimere la vicenda ci penserà la Corte della cancelleria del Delaware il 17 ottobre. Il motivo della marcia indietro di Musk è legato, pare, alla discrepanza tra il numero di utenti attivi sul social network e il numero dichiarato ufficialmente. Addirittura, il fondatore di Tesla avrebbe citato in giudizio Jack Dorsey, ex ad di Twitter, allo scopo di acquisire maggiori informazioni sulle cifre dell’azienda, sulle metriche utilizzate per il conteggio dei profili, e sulle misure di sicurezza adottate per proteggere la privacy degli iscritti. Insomma, se Atene Facebook piange, Sparta Twitter ride, ma non troppo.
Mohammad Shahin (Ansa)
Naturalmente non stupisce che la Corte d’Appello sia di manica larga con un imam che teorizza che l’assassinio di 1.200 persone e il rapimento di altre 250 non sia violenza. In fondo la sentenza si inserisce in una tendenza che nei tribunali italiani gode di una certa popolarità. Non furono ritenute incompatibili con il trattenimento nel Cpr in Albania anche decine di extracomunitari con la fedina penale lunga una spanna? Nonostante nel casellario giudiziale figurassero precedenti per reati anche gravi come aggressioni e perfino un tentato omicidio, i migranti furono prontamente rimpatriati e ovviamente lasciati liberi di scorrazzare per il Paese e di commettere altri crimini. Sia mai che qualcuno venga trattenuto e successivamente espulso.
Del resto, recentemente un altro magistrato, questa volta di Bologna, ha detto al Manifesto che le recenti disposizioni europee in materia di Paesi sicuri sono da ritenersi incostituzionali. Perché ovviamente per alcune toghe il diritto è à la carte, cioè si sceglie da un menù quello che più gusta. Se bisogna opporre un diniego alla legge varata dal Parlamento ci si appella alla giurisprudenza europea, che va da sé è preminente rispetto a quella nazionale. Ma se poi una direttiva Ue o del Consiglio europeo non piace si fa il contrario e ci si appella al diritto italiano, che in questo caso torna prevalente. Insomma, comunque vada il migrante ha sempre ragione e deve essere ritenuto discriminato e dunque coccolato e tutelato. Se un italiano inneggia al fascismo deve essere messo in galera, se un imam si dichiara d’accordo con una strage, non considerandola violenza ma resistenza invece scatta la libertà di espressione, quella stessa espressione che gli autori del massacro di Charlie Hebdo anni fa negarono ai vignettisti del settimanale francese, colpevoli di aver disegnato immagini sarcastiche sull’islam.
Purtroppo, la tendenza a giustificare tutto e dare addosso a chi denuncia i pericoli legati a un’immigrazione indiscriminata ormai dilaga. Ieri sulla prima pagina di Repubblica campeggiava uno studio in cui la questione che lega gli stranieri al crescente clima di insicurezza era addebitata ai media. Colpa di giornali e tv se si parla di migranti. «I picchi di informazione e audience sul pericolo stranieri avvengono nei periodi elettorali», tiene a precisare il quotidiano che la famiglia Agnelli ha messo in vendita. In realtà i picchi coincidono sempre con fatti di cronaca nera. Stragi, rapine, stupri: quei fatti che né i giudici, né alcuni giornali vogliono vedere.
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Sergio Mattarella (Ansa)
Dite che in tutto questo c’è qualcosa che non funziona? Forse non avete tutti i torti. Però è esattamente quello che è successo. Alla XVIII Conferenza delle ambasciatrici e degli ambasciatori, Mattarella si è lasciato possedere dallo spirito di Kaja Kallas e ha impugnato lo spadone: «Permane l’aggressione russa ai danni dell’Ucraina», ha detto, «con vittime e immani distruzioni, e con l’aberrante intendimento, malgrado gli sforzi negoziali in atto, di infrangere il principio del rifiuto di ridefinire con la forza gli equilibri e i confini in Europa. Infrangere questo principio è un’azione ritenuta irresponsabile e inammissibile già oltre cinquanta anni addietro nella Conferenza di Helsinki sulla cooperazione e sicurezza nel continente». Quindi anche il bombardamento di Belgrado era già un’azione «ritenuta irresponsabile e inammissibile»...
Ma il particolare non ha turbato l’uomo del Colle, che ha proseguito bellicoso: «Appare, a dir poco, singolare che, mentre si affacciano, in ambito internazionale, esperienze dirette a unire Stati e a coordinarne le aspirazioni e le attività, si assista a una disordinata e ingiustificata aggressione nei confronti dell’Unione europea, alterando la verità e presentandola, anziché come una delle esperienze storiche di successo per la democrazia e i diritti dei popoli, sviluppatasi anche con la condivisione e l’apprezzamento dell’intero Occidente, come una organizzazione oppressiva se non addirittura nemica della libertà». Oplà: sistemati anche i nemici della meravigliosa e infallibile Unione europea «apprezzata dall’intero Occidente». Intero. E pazienza se anche alcuni scudieri del sovrano del Quirinale, segnatamente Enrico Letta e Mario Draghi, si sono recentemente azzardati a criticare anche aspramente l’architettura parasovietica allestita a Bruxelles. Per Mattarella è l’ora delle decisioni irrevocabili: «È evidente che è in atto un’operazione, diretta contro il campo occidentale, che vorrebbe allontanare le democrazie dai propri valori, separando i destini delle diverse nazioni. Non è possibile distrarsi e non sono consentiti errori».
Ecco, non sono consentiti errori. E allora perché, proprio mentre si tratta a Berlino, il presidente della Repubblica compie un’invasione di campo così clamorosa? Come mai è tanto ansioso di metterci in rotta di collisione con la Russia da superare in oltranzismo i Volenterosi e persino lo stesso Zelensky, ormai pragmaticamente orientato a discutere per evitare la catastrofe finale al suo popolo stremato? Che cosa hanno in testa Mattarella e il suo consigliere Francesco Saverio Garofani, che siede ancora con lui (e con Giorgia Meloni) nel Consiglio supremo di Difesa malgrado le imbarazzanti frasi, rivelate dalla Verità, su «provvidenziali scossoni» per impedire alla stessa leader di Fratelli d’Italia di rivincere le elezioni e, orrore, magari insediare qualcuno non di sinistra sul Colle più alto di Roma?
Il Quirinale, con la docile stampa al seguito, si è affrettato a far calare una cappa di silenzio su quella voce dal sen fuggita che rivelava desideri e trame di chi sussurra all’orecchio di Mattarella. Ma ora è il capo dello Stato in persona a uscire allo scoperto. È lui a dare sulla voce al premier, che pochi giorni fa, accogliendolo a Roma, ha parlato a Zelensky della necessità di fare «dolorose concessioni». È lui a dare una linea alternativa (anche al sé stesso più giovane) in politica estera, esondando dalle sue funzioni. Ennesima dimostrazione che l’opposizione vera a questo governo si fa sul Colle. E che forse Garofani non esprimeva solo considerazioni personali.
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Il titolare del supermercato Conad City, che si trova a ridosso del centro storico della città, dopo l’ennesimo episodio di violenza avvenuto all’interno del suo negozio, ha deciso di dotare le dipendenti, e in particolare le cassiere, di spray al peperoncino da tenere a portata di mano durante il turno di lavoro.
Pochi giorni fa, infatti, a metà mattinata, due ubriachi sono entrati con cattive intenzioni e mentre uno si dirigeva verso il reparto alcolici, l’altro si è avvicinato ai banchi dell’ortofrutta e, afferrato un grappolo d’uva, si è messo a mangiare con gusto, cerando di farsi consegnare denaro dai presenti. Invitati ad allontanarsi, i due, hanno reagito con violenza minacciando il titolare del negozio e spaventando il resto del personale, costretto a rifugiarsi nel box informazioni per la paura di essere assalito. Decisivo l’intervento della figlia del proprietario che, vista la situazione di pericolo, con un impeto di coraggio ha sfoderato lo spray al peperoncino e messo in fuga i due. Da lì l’idea di dotare tutte le cassiere del presidio deterrente: «Le cassiere sono giovani e hanno paura» ha dichiarato il titolare alla tv locale, ricordando altri tre episodi simili avvenuti nel giro di un solo mese, uno dei quali costato la frattura di una mano ad un dipendente che cercava di difendere una collega.
Recentemente Il Sole 24 Ore ha posizionato la Provincia di Treviso al primo posto in Italia per numero di minori coinvolti in rapine e aggressioni perché, in città e nel suo comprensorio, il 9,5% delle persone denunciate o arrestate per atti violenti è risultato essere un under 18 (il dato nazionale si ferma al 5%). E insieme ai dati anche le cronache recenti confermano il trend.
A meno di un chilometro di distanza dal supermercato con le cassiere costrette ad «armarsi», dalla parte opposta del centro cittadino, una settimana fa, in una serata di movida, dieci maranza hanno accerchiato e brutalmente pestato quattro giovani i trevigiani, colpevoli solo di aver risposto per le rime alle offese pronunciate dalla gang, con l’intento di provocare. In risposta allo scambio colorito di epiteti uno degli stranieri ha colpito uno dei rivali e, per tentare di far rientrare la situazione, un amico è corso a difenderlo. A quel punto, però, il gruppo di maranza si è accanito su di lui colpendolo al volto, rompendogli mandibola e orbita, e ferendo gli altri con calci e colpi sferrati con il tirapugni. In risposta all’episodio, il comitato Prima i Trevigiani, in sinergia con Azione Studentesca, si è recato nei luoghi dell’aggressione, affiggendo uno striscione con su scritto «Baby gang e maranza, è finita la tolleranza». «Siamo stanchi di associare la nostra generazione a questi atti di teppismo e criminalità. Treviso ha dato prova di una lunga pazienza, ma ora siamo al limite. Chiediamo fermezza immediata, più controlli e l'applicazione di sanzioni esemplari per ripristinare il diritto alla sicurezza e alla serenità di tutti i trevigiani. La tolleranza verso chi semina il panico è ufficialmente finita», ha dichiarato Federico Piasentin, referente giovani del Comitato. A fargli eco il presidente, Leonardo Capion, che ha spiegato: «La violenza nella nostra città, messa in atto da parte di queste bande, va avanti da tempo, anche se in questo periodo è diventata ancora più frequente e comincia ad essere sotto i riflettori. Come Comitato raccogliamo un numero sempre più alto di segnalazioni e di adesioni dai cittadini stanchi della paura di subire assalti e di non poter vivere liberamente le strade e i luoghi pubblici e proseguiremo con le passeggiate che già da tempo organizziamo per la città come forma di deterrenza».
Per Capion «il problema principale è che la giustizia è troppo lenta nel fare il suo corso e che i violenti sono molto spesso minorenni verso cui le pene sono tutt’altro che severe».
In effetti proprio a distanza di un anno dalla morte di Favaretto, il giovane sgozzato con un vetro il 12 dicembre 2024 durante una rissa, è arrivata, per quattro dei sei ragazzi che lo aggredirono, un maxi sconto di pena. Due ragazzi e due ragazze che presero parte al pestaggio, rinviati a giudizio per omicidio volontario aggravato dall’intenzione di effettuare una rapina e di rapina in concorso, hanno chiesto il rito abbreviato e ottenuto la messa alla prova. Non finiranno in carcere ma se la caveranno dedicandosi ai lavori sociali. E nemmeno lavoreranno gratis: per le loro mansioni saranno retribuiti, in modo da poter - secondo i giudici - risarcire la mamma di Francesco nell’ottica di una «giustizia riparativa».
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Se per i Maya erano oggetto di venerazione quasi religiosa, tanto era il loro riconosciuto valore non solo economico, per gli europei coltivare il cacao era troppo complesso e, in seguito, ci si «accontentò» di mangiarne le fave importate in forma di cioccolata. L’Europa iniziò a conoscere per bene la cioccolata in tazza dopo il 1517. In quell’anno il conquistatore spagnolo Hernàn Cortés era sbarcato anch’egli sull’attuale Messico e l’imperatore azteco Montezuma II gli aveva fatto conoscere la «chocolatl», il trito di fave di cacao e mais cotto con acqua e miele che l’imperatore beveva come afrodisiaco. Quando Cortés, morto Montezuma II e conquistato l’impero azteco, divenne governatore, esportò stabilmente la cioccolata presso la corte spagnola di Carlo V. Da lì, la squisita bevanda divenne in breve tempo una specie di ambrosia dei nobili poiché consumarla voleva dire acquisire un vero e proprio status symbol: solo il nobile poteva bere l’esotica e buonissima cioccolata quando voleva. Pensate che Carlo V la mandava come regalo di nozze quando un familiare sposava un nobile di altra nazione e, addirittura, questo farne dono fu il primo modo di diffusione della cioccolata nel resto d’Europa. Inoltre, un po’ come un vero chef, Carlo V non dava la sua ricetta e perciò si svilupparono diverse varianti. E perfino diversi luoghi dedicati dove trovarla per berla, quando era diventata accessibile anche ai borghesi. A Londra, nel 1657 nacque la prima Chocolate house, sulla scia delle Coffee house, e poi in tutta la Gran Bretagna si diffusero tante altre chocolate house, oggi in Italia le chiameremmo cioccolaterie, luoghi nei quali bere la cioccolata e intrattenersi. Dai Maya a noi la cioccolata calda ha fatto tanta strada in ogni senso. Un po’ come la pizza o la pasta, la cioccolata calda è diventata un’icona pop che più passa il tempo più espande la sua costellazione di innovazioni che insieme la confermano e la mutano.
La cioccolateria contemporanea ci ha dato innanzitutto la cioccolata calda fatta con cioccolato diverso da quello al latte o fondente: c’è la cioccolata calda bianca fatta con cioccolato bianco, che a sua volta può essere aromatizzata e quindi possiamo trovare anche la cioccolata calda di colore verde e al sapore di pistacchio, per esempio. E c’è la cioccolata calda rosa realizzata col cioccolato ruby, un cioccolato fatto con fave di cacao provenienti da Ecuador, Costa d’Avorio e Brasile che contengono naturalmente pigmenti rosa. La cioccolata si può preparare sia con il cioccolato tritato, in questo casa potrà essere al latte, fondente, bianca oppure ruby, sia con il cacao. Al di là del tipo di materia prima usata, la cioccolata calda si può poi ormai declinare in mille modi, non solo nel laboratorio della propria cucina, dove basta aggiungere una spolverizzata di cacao oppure di cannella in cima, sia che ci sia panna, sia che non ci sia. O di peperoncino oppure, perché no?, di pepe. I cafè nei quali si beve cioccolata calda hanno i propri mix oppure offrono il menu completo dei mix pensati da produttori artigianali o industriali di preparati per cioccolate in busta. Il marchio apripista in questa direzione fu Eraclea, fondato a Milano circa 50 anni fa e passato dal 2010 al gruppo Lavazza. Quel preparato in busta che decenni or sono era pioneristico oggi è diventato un genere di prodotti e molti fanno il proprio, dalla storica pasticceria Marchesi di Milano al pasticcere torinese Guido Gobino passando per Antonino Cannavacciuolo e le sue choco bomb, versione solida e sferica del preparato, e il Ciobar, l’offerta per preparare una squisita cioccolata in tazza a casa seguendo semplicemente le istruzioni sulla confezione degli ingredienti predosati è vastissima e spazia fin dove si può spaziare. Cioccolata con tocco crunchy? Basta aggiungere granella di nocciole, di pistacchi, perfino bacche di Goji. Cioccolata salata (parzialmente)? Nessun problema, c’è la cioccolata con caramello salato. Cioccolata vegana (recentemente anche la gelateria Grom, artefice di una cioccolata in tazza super cremosa, ha modificato la ricetta per renderla vegana)? Ancora nessun impedimento, basta sostituire il latte con bevanda vegetale. La più sorprendente è sicuramente quella che sembra la negazione della cioccolata calda: la cioccolata fredda. In realtà, si tratta di una versione che destagionalizza la cioccolata calda, disponibile in concomitanza con l’arrivo del freddo per tutta la stagione autunnale e invernale, fino alla primavera. La cioccolata fredda si oppone a questa stagionalità e rendendola estiva attua l’estensione della cioccolata calda a tutto l’anno, naturalmente però raffreddandola. Si prepara con gli stessi ingredienti, ma poi si fa freddare in frigo e si gusta quando fa caldo per rinfrescarsi, non quando fa freddo per riscaldarsi. A proposito di riscaldarsi, sapevate che in montagna è prassi bere una cioccolata calda per contrastare il clima chiaramente molto freddo e riprendere energia dopo una giornata di sci alpino? Deriva da questo l’idea che l’ora della cioccolata calda sia le 16:30, in (giocosa) differenziazione rispetto alle 17, l’ora del tè.
La cioccolata calda è considerata un comfort food e insieme un peccato di gola. Conosciamone meglio le caratteristiche e come trarne il massimo beneficio per la nostra salute ed il nostro benessere.
In 100 ml di cioccolata calda preparata con cioccolato, latte intero, zucchero, un po’ di addensante (qualunque farina oppure amido o fecola) troviamo circa 90 calorie, per il 60% derivanti da carboidrati, per il 25% da grassi e per il 15% da proteine. Fate attenzione perché spesso le tazze sono da 200 ml, quindi considerate 180 calorie. Inoltre, più la cioccolata è densa, più è calorica. Per diminuire i carboidrati si può eliminare lo zucchero, per diminuire un po’ di proteine e di grassi si può usare l’acqua al posto del latte, per diminuire tutto, grassi, proteine e carboidrati, si può usare il cacao magro al posto della cioccolata. Un cucchiaio raso di panna montata aggiunge circa 20 calorie. Durante la stagione fredda, caratterizzata anche dalla diminuzione delle ore di luce, la cioccolata calda è sicuramente un momento di piacere gastronomico, ma anche una spinta energetica per il nostro organismo e per il nostro umore. I flavonoidi hanno effetto antiossidante che aiuta anche la salute del sistema cardiocircolatorio. Grazie a triptofano, feniletilamina e teobromina di cacao o cioccolato, che stimolano la produzione di neurotrasmettitori come la serotonina (il cosiddetto ormone della felicità) e le endorfine (che riducono dolore e stress), una cioccolata in tazza solleva il nostro umore, funge da antistress e ci dona serenità anche nei giorni no. Migliorano anche la memoria e la concentrazione e aumenta un pochino il livello di alcuni sali minerali (potassio, rame, magnesio e ferro). Inoltre, abbiamo sollievo se abbiamo la gola secca e ci scaldiamo: la bevanda, infatti, scalda la bocca, la trachea, lo stomaco e quindi il nucleo centrale del nostro organismo, la parte interna costituita dal busto, che protegge gli organi e che in inverno va protetta dal freddo per mantenere la sua temperatura ottimale di circa 37 gradi centigradi. Inoltre, la cioccolata calda ci dà l’energia che serve al nostro organismo per attuare le sue pratiche anti freddo. Funziona così: il nostro guscio periferico (capo, arti, pelle, muscoli, grasso) cerca di minimizzare la dispersione termica dovuta al fatto che la temperatura esterna è molto bassa tramite la vasocostrizione che diminuisce il flusso sanguigno. Il calore che serve a mantenere il nostro nucleo centrale a 37 gradi (pena malanni o malesseri anche letali se la temperatura scende di troppo) viene prodotto nel nucleo centrale attraverso il metabolismo, che trasforma il cibo in kilocalorie e si trasferisce verso il guscio. Quando fa freddo, il corpo riduce questo trasferimento per conservare il calore centrale, a scapito della temperatura periferica. Tutto questo è un lavoro continuo del nostro organismo, di cui non ci accorgiamo e che richiede molte kilocalorie. Le pratiche che il nostro organismo mette in atto per riscaldarci in inverno ci richiedono e ci fanno consumare molte più calorie di quelle che esso mette in atto per disperdere il calore in estate, perciò mangiamo di più in inverno, perché consumiamo più kilocalorie per mantenere la nostra temperatura interna a circa 37 gradi di quante ne consumiamo in estate per non farla aumentare troppo oltre i 37 gradi. Non bisogna certamente esagerare nel bere cioccolata calda, soprattutto pensando ai grassi (per riscaldarsi va bene anche un tè caldo senza zucchero), ma concedersi una cioccolata di tanto in tanto non può che fare bene. Ultimi consigli. Se avete mal di gola o in generale siete raffreddati, aggiungete in cima alla vostra cioccolata calda polvere di peperoncino, di cannella, di curry, di curcuma. Se avete problemi digestivi, polvere di té verde, di té matcha o di semi di finocchio.
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