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2022-04-21
Tutte le sponde dei Benetton nell’esecutivo
Enrico Giovannini (Imagoeconomica)
Certo non è come ai bei vecchi tempi, quando le porte tra i cda delle società dei Benetton e i centri del potere politico, più che girevoli, erano assenti. Però, a mettere in fila gli eventi succedutisi dopo la tragedia del ponte Morandi, una cosa è certa: i magliai di Ponzano veneto possono ancora contare su un gruppo di politici o grand commis molto sensibili ai loro desiderata e, in generale, a quelli dei concessionari autostradali. La storia degli ultimi anni è a dir poco beffarda, se si pensa alla famosa «caducazione» invocata dall’allora premier Giuseppe Conte dopo il crollo del Polcevera rispetto alle concessioni autostradali di Aspi, terminata a tarallucci e vino con miliardi cash nelle tasche dei Benetton e ora culminata con un ricco rimborso di un miliardo per i mancati introiti durante la pandemia. O all’altrettanto surreale, per non dire onirica, vicenda delle proroghe della concessione della Brescia-Padova, avallata poco più di una paio di anni fa dalla ministra dem Paola De Micheli e perpetuata dall’attuale titolare delle Infrastrutture Enrico Giovannini.
Si tratta, però, di una storia che viene da lontano, e siccome è cosa ben nota che nelle dinamiche di potere del nostro Paese poco si crea e pochissimo si distrugge, se ne deduce facilmente l’impossibilità per la famiglia Benetton di interfacciarsi con un establishment ostile. Ora, senza bisogno di partire ab ovo, si può tra gli altri ricordare Paolo Costa, titolare dell’allora dicastero dei Lavori pubblici, alla metà degli anni Novanta nel primo governo presieduto da Romano Prodi, che qualche anno dopo fu chiamato dallo stesso professore a guidare il cda di Spea engineering, società del gruppo Atlantia. La defenestrazione di Prodi a opera di Massimo D’Alema, per usare un eufemismo, non determinò un rallentamento degli affari della famiglia di Ponzano Veneto, al contrario creò le basi, con la storia dei «Capitani coraggiosi», della svendita agli amici degli amici degli asset statali più preziosi tra cui, appunto le autostrade.
Se vogliamo indugiare nell’esplorazione dei settori dalemiani e del loro rapporto storico con i Benetton, potremmo senz'altro citare Claudio De Vincenti, ex ministro ed ex sottosegretario a Palazzo Chigi, affacciatosi anni fa sulla scena politica in qualità di consulente economico del leader del Pds, finito alla testa di Aeroporti di Roma, società controllata da Atlantia. Come visto per Prodi, anche il ramo cattolico della sinistra italiana non ha lesinato sponde politiche nel corso degli anni, e alcune cointeressenze o collaborazioni del passato non possono non risultare utili oggi. L’attuale segretario del Pd Enrico Letta tra il 2005 e il 2013 ha avuto tra i maggior sponsor del suo think tank Vedrò proprio la famiglia Benetton, prima di entrare, tre anni dopo, nel consiglio di amministrazione di Abertis, uscendone al momento dell’acquisizione da parte di Atlantia ma ben dopo la scalata alla A4 Brescia-Padova, portata a termine nel 2017 dal gruppo spagnolo, con l’85% del pacchetto azionario.
Erano quelli che si possono definire per i Benetton gli anni d’oro, con volti amici nelle posizioni chiave dell’esecutivo e della macchina burocratica, coltivate a dovere grazie a una politica molto generosa di finanziamenti e donazioni a forze politiche e fondazioni a loro riferibili: sempre per fare un esempio, nel solo 2006 le risorse stanziate dalla famiglia per finanziare la politica ammontarono a 1,1 milioni di euro. Anni di vacche grasse, grandi profitti e spese per investimenti e manutenzione ridotte all’osso, sfociati nel disastro del 14 agosto 2018 e nei 43 morti, cui fece seguito la levata di scudi di Conte e del M5s per la revoca della concessione, risoltasi con un esito tra i più vantaggiosi che si potessero immaginare, come ampiamente documentato dal nostro giornale anche negli ultimi giorni.
Ma anche nel pieno della tempesta, i proprietari di Atlantia, apparentemente messi all’indice, non sono rimasti in balia dei flutti: il più scettico sulla revoca si era mostrato Matteo Renzi, che caldeggiò la strada del maxi indennizzo e che qualche mese dopo l’uscita da Autostrade percepì un onorario di 19.000 euro dalla 21 investimenti sgr di Alessandro Benetton per uno speech al meeting Eccellenze Made in Italy. E anche Alessandro Rivera, direttore generale del Tesoro, ha uno storico rapporto di dialogo con i Benetton.
Una volta passata la tempesta e cambiato il clima politico, deve aver fatto piacere constatare alla dinastia veneta che le cose, a Porta Pia, non sono cambiate di molto dall’età aurea, se è vero che alla corte di Giovannini, come capo di gabinetto, c’è ancora Alberto Stancanelli (già in carica con la De Micheli) e come capo dipartimento dei trasporti da un anno c’è Mauro Bonaretti, ex capo di gabinetto di Graziano Delrio, noto agli addetti ai lavori per avere sempre assunto decisioni gradite ai concessionari di autostrade, tra cui quella della proroga della Brescia-Padova.
Fondazione Crt al fianco di Ponzano
Proseguono i movimenti per il riassetto dell’impero dei Benetton e per l’Opa lanciata dalla famiglia di Ponzano Veneto su Atlantia per fermare la cordata ostile formata dai fondi Gip e Brookfield, alleate della Acs di Florentino Pérez, socio della stessa Atlantia nel gruppo spagnolo Abertis. La Fondazione Crt, guidata dal presidente Giovanni Quaglia, dopo aver annunciato nei giorni scorsi che avrebbe aderito all’offerta pubblica di acquisto promossa da Edizione e Blackstone per il totale della propria partecipazione, pari al 4,54%, ieri ha diffuso i dettagli dell’operazione. In particolare, una quota pari al 3% del capitale sociale sarà reinvestita in Holdco (Schemaquarantadue spa), mentre il rimanente 1,54% sarà monetizzato.
Per lanciare l’Opa su Atlantia i Benetton e il fondo Blackstone hanno costituito due società ad hoc: Schemaquarantatrè, la prima, che lancia l’Opa (detta Bidco), interamente controllata da Schemaquarantadue, la seconda, una holding (Holdco) controllata al 65% da Sintonia (la subholding di Edizione, che conserva le partecipazioni finanziarie della famiglia Benetton) e al 35% da Blackstone (attraverso due accomandite lussemburghesi, Bip-V hogan che attualmente detiene il 5,25% e Bip hogan che ha il 29,75%).
Dopo il via libera del cda di Fondazione Crt all’adesione immediata all’Opa con sottoscrizione di azioni Holdco per l’ammontare di propria competenza, corrispondente allo 0,76% del capitale sociale di Atlantia (143,8 milioni di euro in base al prezzo dell’Opa), ieri il consiglio di indirizzo ha votato all’unanimità l’ulteriore adesione per il 3,78% della partecipazione (718 milioni di euro), con reinvestimento del 2,24% in Holdco e monetizzazione del restante 1,54%. L’adesione all’offerta potrebbe essere nettata dello 0,15% alla luce dei contratti opzionali in essere.
Per quel che riguarda il futuro della nuova società post Opa, avrà un cda di nove membri, sei di espressione dei Benetton e tre di Blackstone, che potrebbe salire a dieci con un membro di Fondazione Crt nel caso l’ente reinvesta almeno fino al 3% nel capitale di Atlantia. Presidente, vice presidente e ad saranno designati da Ponzano Veneto, il cfo dal fondo americano. Ci sarà un periodo di lock up di cinque anni al termine del quale sarà possibile richiedere l’avvio del processo di Ipo, come rivela il contenuto del patto parasociale tra Sintonia e Blackstone.
Ieri, inoltre, novità anche sul fronte della cessione di Aspi: il consiglio di Cassa depositi e prestiti ha approvato la lista di membri del cda di Autostrade per l’Italia in vista del closing dell’operazione di acquisizione da 8 miliardi, previsto per il prossimo 5 maggio, in base ai patti parasociali con i fondi Blackstone e Macquarie. Nel dettaglio, Elisabetta Oliveri è stata nominata presidente al posto di Giuliano Mari, mentre Roberto Tomasi è stato confermato amministratore delegato. Tomasi, già direttore generale del gruppo, era stato scelto dalla famiglia Benetton per sostituire Giovanni Castellucci nel gennaio 2019. La lista è inoltre composta da Massimo Romano, Francesca Pace, Roberta Battaglia e Fabio Massoli.
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Da sempre la famiglia gode di buoni rapporti con il Tesoro e i politici dem, tanto da finanziare la fondazione di Enrico Letta e «assumere» Matteo Renzi come oratore. Al ministero dei Trasporti, Enrico Giovannini ha confermato in ruoli chiave gli uomini di Graziano Delrio e Paola De Micheli.Fondazione Crt al fianco di Ponzano. Il cda aderisce alla cordata dei Benetton, che sceglieranno ad e presidente Cdp nomina i nuovi vertici di Aspi: Roberto Tomasi confermato amministratore delegato. Lo speciale comprende due articoli.Certo non è come ai bei vecchi tempi, quando le porte tra i cda delle società dei Benetton e i centri del potere politico, più che girevoli, erano assenti. Però, a mettere in fila gli eventi succedutisi dopo la tragedia del ponte Morandi, una cosa è certa: i magliai di Ponzano veneto possono ancora contare su un gruppo di politici o grand commis molto sensibili ai loro desiderata e, in generale, a quelli dei concessionari autostradali. La storia degli ultimi anni è a dir poco beffarda, se si pensa alla famosa «caducazione» invocata dall’allora premier Giuseppe Conte dopo il crollo del Polcevera rispetto alle concessioni autostradali di Aspi, terminata a tarallucci e vino con miliardi cash nelle tasche dei Benetton e ora culminata con un ricco rimborso di un miliardo per i mancati introiti durante la pandemia. O all’altrettanto surreale, per non dire onirica, vicenda delle proroghe della concessione della Brescia-Padova, avallata poco più di una paio di anni fa dalla ministra dem Paola De Micheli e perpetuata dall’attuale titolare delle Infrastrutture Enrico Giovannini.Si tratta, però, di una storia che viene da lontano, e siccome è cosa ben nota che nelle dinamiche di potere del nostro Paese poco si crea e pochissimo si distrugge, se ne deduce facilmente l’impossibilità per la famiglia Benetton di interfacciarsi con un establishment ostile. Ora, senza bisogno di partire ab ovo, si può tra gli altri ricordare Paolo Costa, titolare dell’allora dicastero dei Lavori pubblici, alla metà degli anni Novanta nel primo governo presieduto da Romano Prodi, che qualche anno dopo fu chiamato dallo stesso professore a guidare il cda di Spea engineering, società del gruppo Atlantia. La defenestrazione di Prodi a opera di Massimo D’Alema, per usare un eufemismo, non determinò un rallentamento degli affari della famiglia di Ponzano Veneto, al contrario creò le basi, con la storia dei «Capitani coraggiosi», della svendita agli amici degli amici degli asset statali più preziosi tra cui, appunto le autostrade. Se vogliamo indugiare nell’esplorazione dei settori dalemiani e del loro rapporto storico con i Benetton, potremmo senz'altro citare Claudio De Vincenti, ex ministro ed ex sottosegretario a Palazzo Chigi, affacciatosi anni fa sulla scena politica in qualità di consulente economico del leader del Pds, finito alla testa di Aeroporti di Roma, società controllata da Atlantia. Come visto per Prodi, anche il ramo cattolico della sinistra italiana non ha lesinato sponde politiche nel corso degli anni, e alcune cointeressenze o collaborazioni del passato non possono non risultare utili oggi. L’attuale segretario del Pd Enrico Letta tra il 2005 e il 2013 ha avuto tra i maggior sponsor del suo think tank Vedrò proprio la famiglia Benetton, prima di entrare, tre anni dopo, nel consiglio di amministrazione di Abertis, uscendone al momento dell’acquisizione da parte di Atlantia ma ben dopo la scalata alla A4 Brescia-Padova, portata a termine nel 2017 dal gruppo spagnolo, con l’85% del pacchetto azionario. Erano quelli che si possono definire per i Benetton gli anni d’oro, con volti amici nelle posizioni chiave dell’esecutivo e della macchina burocratica, coltivate a dovere grazie a una politica molto generosa di finanziamenti e donazioni a forze politiche e fondazioni a loro riferibili: sempre per fare un esempio, nel solo 2006 le risorse stanziate dalla famiglia per finanziare la politica ammontarono a 1,1 milioni di euro. Anni di vacche grasse, grandi profitti e spese per investimenti e manutenzione ridotte all’osso, sfociati nel disastro del 14 agosto 2018 e nei 43 morti, cui fece seguito la levata di scudi di Conte e del M5s per la revoca della concessione, risoltasi con un esito tra i più vantaggiosi che si potessero immaginare, come ampiamente documentato dal nostro giornale anche negli ultimi giorni. Ma anche nel pieno della tempesta, i proprietari di Atlantia, apparentemente messi all’indice, non sono rimasti in balia dei flutti: il più scettico sulla revoca si era mostrato Matteo Renzi, che caldeggiò la strada del maxi indennizzo e che qualche mese dopo l’uscita da Autostrade percepì un onorario di 19.000 euro dalla 21 investimenti sgr di Alessandro Benetton per uno speech al meeting Eccellenze Made in Italy. E anche Alessandro Rivera, direttore generale del Tesoro, ha uno storico rapporto di dialogo con i Benetton.Una volta passata la tempesta e cambiato il clima politico, deve aver fatto piacere constatare alla dinastia veneta che le cose, a Porta Pia, non sono cambiate di molto dall’età aurea, se è vero che alla corte di Giovannini, come capo di gabinetto, c’è ancora Alberto Stancanelli (già in carica con la De Micheli) e come capo dipartimento dei trasporti da un anno c’è Mauro Bonaretti, ex capo di gabinetto di Graziano Delrio, noto agli addetti ai lavori per avere sempre assunto decisioni gradite ai concessionari di autostrade, tra cui quella della proroga della Brescia-Padova. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/tutte-le-sponde-dei-benetton-nellesecutivo-2657186594.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="fondazione-crt-al-fianco-di-ponzano" data-post-id="2657186594" data-published-at="1650482035" data-use-pagination="False"> Fondazione Crt al fianco di Ponzano Proseguono i movimenti per il riassetto dell’impero dei Benetton e per l’Opa lanciata dalla famiglia di Ponzano Veneto su Atlantia per fermare la cordata ostile formata dai fondi Gip e Brookfield, alleate della Acs di Florentino Pérez, socio della stessa Atlantia nel gruppo spagnolo Abertis. La Fondazione Crt, guidata dal presidente Giovanni Quaglia, dopo aver annunciato nei giorni scorsi che avrebbe aderito all’offerta pubblica di acquisto promossa da Edizione e Blackstone per il totale della propria partecipazione, pari al 4,54%, ieri ha diffuso i dettagli dell’operazione. In particolare, una quota pari al 3% del capitale sociale sarà reinvestita in Holdco (Schemaquarantadue spa), mentre il rimanente 1,54% sarà monetizzato. Per lanciare l’Opa su Atlantia i Benetton e il fondo Blackstone hanno costituito due società ad hoc: Schemaquarantatrè, la prima, che lancia l’Opa (detta Bidco), interamente controllata da Schemaquarantadue, la seconda, una holding (Holdco) controllata al 65% da Sintonia (la subholding di Edizione, che conserva le partecipazioni finanziarie della famiglia Benetton) e al 35% da Blackstone (attraverso due accomandite lussemburghesi, Bip-V hogan che attualmente detiene il 5,25% e Bip hogan che ha il 29,75%). Dopo il via libera del cda di Fondazione Crt all’adesione immediata all’Opa con sottoscrizione di azioni Holdco per l’ammontare di propria competenza, corrispondente allo 0,76% del capitale sociale di Atlantia (143,8 milioni di euro in base al prezzo dell’Opa), ieri il consiglio di indirizzo ha votato all’unanimità l’ulteriore adesione per il 3,78% della partecipazione (718 milioni di euro), con reinvestimento del 2,24% in Holdco e monetizzazione del restante 1,54%. L’adesione all’offerta potrebbe essere nettata dello 0,15% alla luce dei contratti opzionali in essere. Per quel che riguarda il futuro della nuova società post Opa, avrà un cda di nove membri, sei di espressione dei Benetton e tre di Blackstone, che potrebbe salire a dieci con un membro di Fondazione Crt nel caso l’ente reinvesta almeno fino al 3% nel capitale di Atlantia. Presidente, vice presidente e ad saranno designati da Ponzano Veneto, il cfo dal fondo americano. Ci sarà un periodo di lock up di cinque anni al termine del quale sarà possibile richiedere l’avvio del processo di Ipo, come rivela il contenuto del patto parasociale tra Sintonia e Blackstone. Ieri, inoltre, novità anche sul fronte della cessione di Aspi: il consiglio di Cassa depositi e prestiti ha approvato la lista di membri del cda di Autostrade per l’Italia in vista del closing dell’operazione di acquisizione da 8 miliardi, previsto per il prossimo 5 maggio, in base ai patti parasociali con i fondi Blackstone e Macquarie. Nel dettaglio, Elisabetta Oliveri è stata nominata presidente al posto di Giuliano Mari, mentre Roberto Tomasi è stato confermato amministratore delegato. Tomasi, già direttore generale del gruppo, era stato scelto dalla famiglia Benetton per sostituire Giovanni Castellucci nel gennaio 2019. La lista è inoltre composta da Massimo Romano, Francesca Pace, Roberta Battaglia e Fabio Massoli.
Pier Silvio Berlusconi (Getty Images)
Forza Italia, poi, è un altro argomento centrale ed è anche l’occasione per ribadire un concetto che negli ultimi mesi aveva già espresso: «Il mio pensiero non cambia, c’è la necessità di un rinnovamento nella classe dirigente del partito». Esprime gratitudine per il lavoro svolto dal segretario nazionale, Antonio Tajani, e da tutta la squadra di Forza Italia che «ha tenuto in piedi il partito dopo la scomparsa di mio padre, cosa tutt’altro che facile». Ma confessa che per il futuro del partito «servirebbero facce nuove, idee nuove e un programma rinnovato, che non metta in discussione i valori fondanti di Forza Italia, che sono i valori fondanti del pensiero e dell'agire politico di Silvio Berlusconi, ma valori che devono essere portati a ciò che è oggi la realtà». E fa una premessa insolita: «Non mi occupo di politica, ma chi fa l’imprenditore non può essere distante dalla politica. Che io e Marina ci si appassioni al destino di Forza Italia, siamo onesti, è naturale. Tra i lasciti di mio padre tra i più grandi, se non il più grande, c’è Forza Italia». Tajani è d’accordo e legge nelle parole di Berlusconi «sollecitazioni positive, in perfetta sintonia sulla necessità del rinnovamento e di guardare al futuro, che poi è quello che stiamo già facendo».
In qualità di esperto di comunicazione, l’ad di Mediaset, traccia anche il punto della situazione sullo stato di salute dell’editoria italiana, toccando i tasti dolenti delle paventate vendite di Stampa e Repubblica, appartenenti al gruppo Gedi. La trattativa tra Gedi e il gruppo greco AntennaUno, guidato dall’armatore Theodore Kyriakou, scatena l’agitazione dei giornalisti. «Il libero mercato è sovrano, ma è un dispiacere vedere un prodotto italiano andare in mano straniera». Pier Silvio Berlusconi elogia, invece, Corriere della Sera e Gazzetta dello Sport: «Cairo è un editore puro, ormai l’unico in Italia, e ha fatto un lavoro eccellente: Corriere e Gazzetta hanno un’anima coerente con la loro storia».
Una stoccata sulla patrimoniale: «Non la ritengo sbagliata, ma la parola patrimoniale, secondo me, non va bene. Così com’era sbagliatissima l’espressione “extra profitti”, cosa vuol dire extra? Non vuol dire niente e mi sembra onestamente fuori posto che in certi momenti storici dell’economia di particolare fragilità, ci possano essere delle imposte una tantum che vengono legate a livello di profitto delle aziende».
Un tema di stretta attualità, specialmente dopo le dichiarazioni di Donald Trump, è il ruolo dell’Europa nel mondo. «Di sicuro ciò che è stato fatto fino a oggi non è sufficiente, ma l’Europa deve riuscire a esistere, ad agire e a difendersi. Di questo sono certo. Prima di tutto da cittadino italiano ed europeo e ancor di più da imprenditore italiano ed europeo».
Quanto al controllo del gruppo televisivo tedesco ProSieben, Pier Silvio Berlusconi assicura che «in Germania faremo il possibile per mantenere l’occupazione del gruppo così com’è, al momento non c’è nessun piano di licenziamento». Ora Mfe guarda alla Francia? «Lì ci sono realtà consolidate private come Tf1 e M6: entrare in Francia sarebbe un sogno, ma al momento non vedo spiragli».
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Il primo ministro bulgaro Rosen Zhelyazkov (Ansa)
Il governo svolgerà le sue funzioni fino all’elezione del nuovo consiglio dei ministri. «Sentiamo la voce dei cittadini che protestano […] Giovani e anziani, persone di diverse etnie, di diverse religioni, hanno votato per le dimissioni», ha dichiarato Zhelyazkov. Anche gli studenti si erano uniti nell’ultima protesta antigovernativa di mercoledì, a Sofia e in altre città bulgare, contro la proposta di bilancio del governo per il 2026, la prima in euro. La prima proposta senza il coordinamento con le parti sociali e la prima a prevedere un aumento delle tasse e dei contributi previdenziali.
All’insegna del motto «Non ci lasceremo ingannare. Non ci lasceremo derubare», migliaia di dimostranti «portavano lanterne come segno simbolico per mettere in luce la mafia e la corruzione nel Paese», riferiva l’emittente nazionale Bnt. Chiedevano le dimissioni dell’oligarca Delyan Peevski e dell’ex primo ministro Boyko Borissov, sanzionato dagli Stati Uniti e dal Regno Unito per presunta corruzione. Borissov mercoledì avrebbe dichiarato che i partiti della coalizione avevano concordato di rimanere al potere fino all’adesione della Bulgaria all’eurozona, il prossimo 1° gennaio.
Secondo Zhelyazkov, si trattava di una protesta «per i valori e il comportamento» e ha dichiarato che il governo è nato da una complessa coalizione tra partiti (i socialisti del Bsp e i populisti di Itn), diversi per natura politica, storia ed essenza, «ma uniti attorno all’obiettivo e al desiderio che la Bulgaria prosegua il suo percorso di sviluppo europeo». Mario Bikarski, analista senior per l’Europa presso la società di intelligence sui rischi Verisk Maplecroft, aveva affermato che le turbolenze politiche e il ritardo nel bilancio «creeranno incertezza finanziaria a partire da gennaio».
La sfiducia nel governo in realtà ha radici anche nel diffuso malcontento per l’entrata del Paese nell’eurozona, ottenuta a giugno dopo ripetuti ritardi dovuti all’instabilità politica e al mancato raggiungimento degli obiettivi di inflazione richiesti. Secondo i risultati di un sondaggio dell’Eurobarometro, i cui risultati sono stati pubblicati l’11 dicembre, il 49% dei bulgari è contrario all’euro, il 42% è favorevole e il 9% è indeciso. Guarda caso, la maggioranza degli intervistati in cinque Stati membri non appartenenti all’area dell’euro è contraria all'euro: Repubblica Ceca (67%), Danimarca (62%), Svezia (57%), Polonia (51%) e appunto Bulgaria.
Quasi la metà dei bulgari teme la perdita della sovranità nazionale, è contro la moneta unica e rimane affezionata alla propria moneta, al lev, che secondo Bloomberg rappresenta «un simbolo di stabilità» dopo la grave crisi economica di fine anni Novanta.
Se la Commissione europea ha ripetutamente messo in guardia contro le carenze dello stato di diritto in Bulgaria, affermando a luglio che il livello di indipendenza giudiziaria in quel Paese era «molto basso» e la strategia anticorruzione «limitata»; se per Transparency International è tra Paesi europei con il più alto tasso di percezione della corruzione ufficiale da parte dell’opinione pubblica, resta il fatto che i bulgari non scalpitano per entrare nell’eurozona.
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Ppalazzo Berlaymont (Getty Images)
In base allo schema ipotizzato, per quanto se ne può sapere, Bruxelles convoglierebbe le attività immobilizzate della Banca centrale russa in una linea di credito a tasso zero per l’Ucraina. L’Ue intenderebbe coprire 90 miliardi di euro del deficit di finanziamento dell’Ucraina, che è di 135 miliardi di euro, per i prossimi due anni attingendo a queste attività. A Kiev verrebbe chiesto di rimborsare il prestito solo dopo che Mosca avrà accettato di risarcire i danni causati dalla sua aggressione. Cosa che non avverrà mai. La proposta non ha precedenti nella storia moderna e solleva enormi dubbi e alcune contrarietà su aspetti di grande rilevanza.
Innanzitutto, sul tema delicato della compensazione monetaria destinata a coprire i danni o le perdite subite durante una guerra. Da che mondo è mondo, dalle imposizioni di Roma verso Cartagine dopo la prima e seconda guerra punica, alla guerra franco- prussiana fino a giungere alla Prima e Seconda guerra mondiale, sono sempre stati coloro che hanno perso le guerre che hanno dovuto pagare i debiti, e non il contrario. L’Ue su questa materia capovolge la storia.
In secondo luogo ci sono potenziali implicazioni economiche e strategiche: l’utilizzo degli asset sovrani russi per emettere il prestito di riparazione potrebbe avere effetti «a catena» in tutta l’Eurozona e provocare un esodo di investitori preoccupati da decisioni unilaterali delle autorità in futuro. Ma il punto dirimente e controverso in questo dibattito riguarda non tanto la già avvenuta immobilizzazione degli stessi, bensì l’effettiva possibilità di una confisca permanente. Nel caso degli asset di soggetti «riconducibili» al Cremlino (si pensi ad esempio agli oligarchi) inoltre, le confische rischierebbero di collidere col rispetto dei diritti di godimento di proprietà facenti parte della cornice dei diritti umani. Ancor più complicata è la confisca permanente di asset di diretta proprietà di uno Stato estero, che sono protetti dall’immunità e dal diritto internazionale. Inoltre, una delle più intuitive conseguenze di una confisca da parte dei Paesi europei sarebbe la sicura ritorsione russa. Il Cremlino ha infatti fatto sapere di avere pronta una lista di asset occidentali da aggredire a tal fine. A ogni modo, gli investimenti in Russia e riserve in rublo differiscono significativamente da Paese a Paese, e a essere particolarmente esposti sono proprio i paesi dell’Unione europea. Più che a livello di riserve delle varie banche centrali dei singoli Stati o della stessa Bce, una forte vulnerabilità risiede negli investimenti europei su suolo russo. Stando a fonti russe, su 288 miliardi di dollari la quota di asset degli Stati europei vale oltre 220 miliardi, ossia più del 75%.
Bisogna aggiungere anche che a preoccupare molti Paesi sarebbero anche le possibili conseguenze che una confisca così audace economicamente e «legalmente» avrebbe sulla stabilità dell’euro. Dando vita ad un importante precedente reputazionale, l’esproprio degli asset russi rischierebbe infatti di spingere molte banche centrali di vari Paesi stranieri a ridurre le loro riserve in euro come misura cautelare, indebolendo così la valuta dell’eurozona. È in parte un meccanismo già avviato non solo dalla Russia stessa, ma anche da paesi come Turchia o Cina, che da qualche anno stanno via via sganciandosi da valute come il dollaro e l’euro. Del resto chi si fiderebbe più dell’Europa se basta una decisione politica per sottrarre risorse finanziarie di proprietà di soggetti economici e di Stati esteri che hanno investito nel Vecchio continente? Deve averlo compreso bene la stessa Bce, condividendo le preoccupazioni emerse da più parti se ha deciso di rifiutare di fornire garanzie per il prestito di circa 140 miliardi di euro all’Ucraina, non solo perché la proposta della Commissione europea viola il suo mandato, ma si presume anche per le debolezze politiche e legali di una simile iniziativa.
Infine, una annotazione generale. Questa idea della Commissione europea fa, per così dire, uno scempio del concetto di libero mercato, introducendo una idea di capitalismo politico che si avvicina molto al cosiddetto capitalismo di Stato. Un capitalismo che si addice molto alle autocrazie che Bruxelles vorrebbe combattere. Davvero una gran bella pensata. Se invece di rischiare di pagare conseguenze che ricadrebbero sui cittadini europei, utilizzassero quel poco di sale in zucca rimasto per favorire un negoziato di pace ricostruirebbero un po’ di quella credibilità che allo stato attuale sembra decisamente smarrita.
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Ursula von der Leyen (Ansa)
Nella visione del segretario generale della Nato, gli europei saranno «il prossimo obiettivo di Mosca» entro cinque anni. Ma non solo, il conflitto potrebbe addirittura essere «della stessa portata della guerra che hanno dovuto sopportare i nostri nonni e bisnonni». E su queste basi vaghe ha quindi esortato gli alleati ad aumentare gli sforzi di Difesa per scongiurare il temuto conflitto. Poco importa quindi a Rutte se Mosca ha confermato pure ieri che non nutre «alcun piano aggressivo nei confronti dei membri della Nato o dell’Ue». Nella conferenza stampa, a fianco del cancelliere tedesco, Friedrich Merz, il segretario generale della Nato ha poi tirato le orecchie ai Paesi della Nato, colpevoli di non prendere sul serio «la minaccia russa» e di essere «silenziosamente compiacenti».
Ma chi non prende sul serio gli avvertimenti è Bruxelles in merito agli asset russi: il Comitato dei rappresentanti permanenti presso l’Ue (Coreper) ha raggiunto un accordo sulla visione rivista della proposta inerente all’articolo 122 del Trattato Ue. E ha dato il via libera alla procedura scritta che si concluderà entro le 17 di oggi. Qualora arrivasse il voto favorevole, il blocco degli asset russi sarà quindi a tempo indeterminato. Si completa così il primo step per far sì che siano utilizzati i beni russi congelati a sostegno Kiev, in vista del Consiglio Ue della prossima settimana. A commentare il risultato è stato il commissario europeo all’Economia, Valdis Dombrovskis: «È stato approvato in linea di principio un regolamento che proibisce il trasferimento» degli asset russi congelati. E ha quindi spiegato che il regolamento «dovrebbe aiutare con il prestito basato sugli asset russi» visto che «assicura che restino congelati», senza il bisogno di rinnovare il blocco all’unanimità ogni sei mesi. Anche il presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, è intervenuta in merito dicendo: «Domani (oggi, ndr) spero che sia compiuto il prima passo per l’uso degli asset russi, metterli al sicuro, poi la decisione su come usarli sarà presa al Consiglio Europeo la prossima settimana, in un voto a maggioranza qualificata». A non condividere la linea di Bruxelles sono sicuramente la Slovacchia e l’Ungheria. Il premier slovacco, Robert Fico, ha già scritto al presidente del Consiglio europeo, António Costa: «Vorrei affermare che, in occasione del prossimo Consiglio europeo, non sono in grado di sostenere alcuna soluzione alle esigenze finanziarie dell’Ucraina che preveda la copertura delle spese militari dell’Ucraina per i prossimi anni». Continuando a mettere i puntini sulle i, ha sottolineato: «La politica di pace che sostengo con coerenza mi impedisce di votare a favore del prolungamento del conflitto militare: fornire decine di miliardi di euro per le spese militari significa prolungare la guerra». «Profonda preoccupazione» è stata espressa da Budapest per «la recente tendenza» ad «aggirare le procedure di decisione all’unanimità». Anche perché l’articolo 122 non è «la base giuridica corretta» per bloccare senza scadenza gli asset russi.
Sul fronte delle trattative di pace il tempo stringe. E dopo che Kiev ha inviato la sua versione del piano a Washington, ieri pomeriggio la Coalizione dei volenterosi si è riunita virtualmente. Tra i leader che hanno preso parte, il presidente ucraino, Volodymyr Zelenskyy, il premier britannico, Keir Starmer, il presidente francese, Emmanuel Macron e il cancelliere tedesco, Friedrich Merz. Al termine del meeting, il leader di Kiev ha dichiarato: «Stiamo lavorando per assicurare che le garanzie di sicurezza includano componenti serie di deterrenza europea e siano affidabili». E ha avvisato pure Washington: «È importante che gli Stati Uniti siano con noi e sostengano questi sforzi. Nessuno è interessato a una terza invasione russa». Von der Leyen ha ripetuto che «l’obiettivo è raggiungere una pace giusta e sostenibile per l’Ucraina». Le iniziative europee, in ogni caso, per Mosca non sono efficaci. Il ministro degli Esteri russo, Serghei Lavrov, ha infatti commentato: «L’Europa sta cercando in tutti i modi di sedersi al tavolo delle trattative, ma le idee che coltiva non saranno utili ai negoziati». E ha lanciato un avvertimento già noto ai leader europei: qualora venissero schierate le forze di peacekeeping in Ucraina saranno considerate «immediatamente» gli «obiettivi legittimi» di Mosca.
L’agenda dei negoziati intanto prosegue: domani è previsto un incontro a Parigi tra i funzionari ucraini, americani, francesi, tedeschi e britannici per tentare di raggiungere un consenso sul piano di pace. Secondo quanto riferito da Axios, a rappresentare i leader europei e l’Ucraina saranno i rispettivi consiglieri per la sicurezza nazionale, ma non è ancora chiaro se per gli Stati Uniti parteciperà il segretario di Stato americano, Marco Rubio.
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