2025-02-13
Negoziati immediati tra Trump e Putin. Il Pentagono avvisa: Kiev mai nella Nato
Donald Trump e Vladimir Putin in un vertice del 2018 (Getty Images)
Patto fra i due leader sull’inizio dei colloqui di pace: «Visiteremo i rispettivi Paesi». Hegseth: «Non torneremo ai confini pre 2014».Il grande sconfitto della guerra russo-ucraina è senz’altro Volodymyr Zelensky. E lui lo sa molto bene. Tant’è che l’ex comico ha infine dovuto aprire alle trattative di pace, proponendo alla Russia uno scambio di territori. Il «niet» del Cremlino - prevedibilissimo - è arrivato ieri: «Questo è impossibile», ha dichiarato Dmytry Peskov, il portavoce di Vladimir Putin. «La Russia», ha proseguito, «non ha mai discusso e non discuterà mai il tema dello scambio del suo territorio. Naturalmente le forze ucraine saranno annientate e tutti coloro che non saranno distrutti verranno espulsi», ha precisato Peskov facendo riferimento alle zone occupate dalle truppe di Kiev nella regione di Kursk. Se Mosca è stata dura, anche Washington non è stata tenera. E ha fatto fare a Zelensky un bel bagno di realtà. A prendere la parola è stato Pete Hegseth, il nuovo capo del Pentagono, che ieri ha aperto così la riunione dei ministri della Difesa della Nato: «Potremo porre fine a questa devastante guerra e stabilire una pace duratura solo combinando la forza degli alleati con una valutazione realistica del campo di battaglia. Vogliamo, come voi, un’Ucraina sovrana e prospera. Tuttavia, dobbiamo iniziare riconoscendo che il ritorno ai confini dell’Ucraina precedenti al 2014 è un obiettivo irrealistico. Perseguire questo obiettivo illusorio non farà altro che prolungare la guerra e causare ulteriori sofferenze». Inoltre, ha precisato il segretario alla Difesa americano, «gli Stati Uniti non credono che l’adesione alla Nato per l’Ucraina sia un risultato realistico di una soluzione negoziata». Anche perché, ha spiegato Hegseth, l’obiettivo di Trump è «porre fine a questa guerra attraverso la diplomazia, portando sia la Russia che l’Ucraina al tavolo delle trattative». Ma a quel tavolo, appunto, dovranno essere discusse solo ipotesi percorribili.Per quanto riguarda la salvaguardia di un’eventuale pace, invece, Hegseth ha ribadito che non saranno inviate truppe americane in Ucraina: «Robuste garanzie di sicurezza», ha detto, «devono essere date per far sì che non inizi ancora una guerra, ma devono essere assicurate da truppe europee e non europee e, se ci sarà una missione di peacekeeping, non deve essere una missione Nato e non ci deve essere la copertura dell’articolo 5». Ossia l’articolo che vincola tutti i Paesi dell’Alleanza atlantica a intervenire in caso di attacco armato contro uno Stato membro. Fattispecie che, per l’appunto, non riguarderebbe l’Ucraina.Alla fine, lo stesso Zelensky ha dovuto prendere atto della posizione di Washington. In un’intervista all’Economist, il presidente ucraino ha quindi parlato di piano B: se la Nato non accetta l’Ucraina, sarà la stessa Ucraina a «costruire la Nato sul suo territorio». Il che significa «raddoppiare» il suo esercito «per essere allo stesso livello di quello russo». Nella mente di Zelensky, insomma, gli Stati Uniti dovrebbero fornirgli quelle garanzie di sicurezza che, però, dovrebbero essere finanziate soprattutto dall’Europa: «Missili, missili a lunga gittata e Patriot. Questo è il piano B», ha puntualizzato il presidente ucraino. Tanto, si sa, paga Pantalone. Che in questa situazione l’Europa fosse solo una mucca da mungere, del resto, lo si era capito da tempo. Ma a Bruxelles ancora vogliono illudersi di contare qualcosa. Ci ha provato, tra gli altri, pure Kaja Kallas, alto rappresentante Ue per gli Affari esteri, che ieri ha incontrato JD Vance. Nel corso «dell’ottimo incontro» con il vicepresidente americano, ha detto la Kallas, «ho sollevato il tema della difesa ma anche, ovviamente, dell’Ucraina, sottolineando che l’Europa deve essere presente al tavolo dei negoziati». Di diverso avviso è invece Sergei Lavrov. Il ministro degli Esteri russo, infatti, ha riposto indirettamente alla Kallas sminuendo così l’autorevolezza dei funzionari europei: «Si sono resi conto di quale sia la loro posizione nella gerarchia del mondo in cui si sono relegati. Non sarà facile uscirne». Nel frattempo, proseguono senza sosta i contatti tra Mosca e Washington per preparare le trattative di pace. Ieri, in particolare, è stata una giornata molto movimentata. Innanzitutto ha fatto ritorno negli Stati Uniti Marc Fogel, un insegnante detenuto in Russia dal 2021 per traffico di droga. Il cittadino americano è stato prelevato a Mosca da Steve Witkoff, inviato speciale di Trump. Nella capitale russa, come riportato da Fox News, Witkoff ha anche avuto un lungo colloquio con Putin, durato oltre tre ore. Da parte loro, gli Stati Uniti hanno rilasciato Alexander Vinnik, un imprenditore russo condannato per riciclaggio.A coronamento di queste mosse di distensione, Trump e Putin si sono sentiti direttamente al telefono, in una chiamata di circa un’ora e mezza. Sul suo social Truth, Trump ha annunciato che lui e Putin hanno «concordato di lavorare insieme, molto da vicino, anche visitando le rispettive nazioni. Abbiamo anche concordato di far iniziare immediatamente i negoziati sull’Ucraina ai nostri rispettivi team e cominceremo chiamando il presidente ucraino Zelensky per informarlo della conversazione». I negoziati, ha assicurato il presidente americano, «avranno successo, ne sono fermamente convinto». Da parte sua, anche il Cremlino ha confermato che i due leader sono intenzionati a raggiungere una «soluzione di lungo termine» in Ucraina attraverso trattative diplomatiche. Zelensky, che come riporta l’Economist «teme di essere tagliato fuori dai negoziati», ha confermato il colloquio con The Donald: «Nessuno desidera la pace più dell’Ucraina. Insieme agli Stati Uniti, stiamo tracciando i nostri prossimi passi per fermare l’aggressione russa e garantire una pace duratura e affidabile. Come ha detto il presidente Trump, facciamolo». E ancora: «Abbiamo concordato di mantenere ulteriori contatti e di pianificare i prossimi incontri». Ma Francia, Germania e Spagna ribadiscono la posizione Ue: «Non ci può essere un accordo per la pace in Ucraina senza la partecipazione di Kiev e dell’Europa».
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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