
L’amministrazione statunitense ha chiesto all’Unione europea di eliminare alcune delle sue normative ambientali più recenti, minacciando di far saltare l’accordo commerciale transatlantico raggiunto lo scorso luglio. Secondo un documento ufficiale visionato dal Financial Times in questi giorni, Washington vuole che le aziende americane siano esentate dall’obbligo di elaborare piani di transizione climatica e di reportistica sulla filiera, come previsto dalle direttive europee Csrd e Csddd. La rivendicazione degli Usa è piuttosto netta: o Bruxelles smantella le sue regole o l’accordo salta. Non sembrano esserci molti spazi per una mediazione e il rischio per Bruxelles è di ritrovarsi con dazi americani al 50% o forse più, chissà: con Donald Trump non si sa mai. La richiesta, trasmessa alla Commissione europea nei giorni scorsi, fa parte di una strategia tesa ad abbattere il deficit commerciale americano nei confronti dell’Unione. Trump considera le normative europee una barriera all’ingresso nel mercato europeo, cosa che contribuisce allo squilibrio nella bilancia commerciale. Nel 2024 lo sbilancio commerciale Usa nei confronti dell’Unione europea è stato di 236 miliardi di dollari, con un export che ha superato i 600 miliardi di dollari.
Oltre alle norme sulla rendicontazione e la due diligence, gli Stati Uniti hanno già chiesto modifiche sostanziali al Digital markets act e al Digital services act, ritenuti penalizzanti per le grandi aziende tecnologiche americane. A queste si aggiunge il Cbam, il meccanismo europeo che impone una tassa sulle importazioni ad alta intensità di carbonio, che a Washington non piace. L’accordo provvisorio in essere tra Ursula von der Leyen e Donald Trump prevede un dazio generalizzato del 15% sulle merci europee. Ma a quanto pare ci sono delle condizioni a contorno non proprio secondarie. Sulla sponda europea le richieste statunitensi sono considerate «massimaliste» e «unilaterali». I negoziatori di Bruxelles temono che un ritorno dei dazi sia insostenibile per l’economia europea, che, come sappiamo, è votata all’export in ossequio al mercantilismo tedesco che domina l’Europa. Allo stesso tempo, accondiscendere alle richieste americane significa mandare a monte buona parte dell’impianto normativo su cui l’Unione ha basato le politiche degli ultimi sei anni. Ieri a Bruxelles si sono riuniti nel Coreper gli ambasciatori degli Stati membri presso l’Ue per discutere del tema.
Dietro le richieste americane c’è un giudizio negativo dell’attitudine all’export dell’Ue. Il deficit commerciale americano nei confronti dei paesi europei è una fonte di squilibrio macroeconomico cui ora gli Usa vogliono porre rimedio. Anche se molti tra economisti e politici si affrettano a condannare i dazi e a prefigurare sciagure, il problema degli squilibri nei commerci internazionali è reale e concreto, e riguarda in special modo l’Unione europea e la Cina. Washington sostiene che le regole Ue danneggiano le imprese statunitensi, ma in realtà anche molte aziende europee lamentano costi di compliance elevati e difficoltà operative. La stessa Ue ha dovuto sospendere il regolamento sulla deforestazione, di fronte alla impossibilità di applicazione. Il problema di queste normative è che vanno a regolare anche le aziende (e persino le amministrazioni pubbliche) che si trovano in altri paesi fuori dall’Ue. Sono cioè, a tutti gli effetti, una estensione di giurisdizione oltre i confini della Ue. Vi è un chiaro difetto di legittimità e di competenza, in tutto questo. Ne risulta che gran parte del corpus normativo Ue rappresenta una muraglia protezionista, alla faccia dei proclami sul libero scambio.
Se l’Ue decidesse di rinunciare a queste normative per salvare l’accordo con gli Usa sarebbe un harakiri politico di portata storica. Una scappatoia potrebbe stare nella concessione agli Usa di uno status privilegiato che esenti le aziende americane da alcuni obblighi normativi. Tuttavia, tale soluzione solleverebbe problemi di equità e costringerebbe Bruxelles a estendere le esenzioni anche alle imprese europee, minando la ragione stessa dell’intero impianto regolatorio.
La speranza di un’intesa «come se nulla fosse» appare irrealistica. Gli Stati Uniti non sembrano interessati a un compromesso, ma pretendono concessioni. L’Ue in questa trattativa è parte debole, perché ansiosa di mantenere l’accesso ad un mercato fondamentale come quello americano. Questo nella certezza che l’Ue non farà la cosa giusta, ovvero sostenere la domanda interna per riequilibrare la bilancia commerciale senza annientare le proprie aziende.
Nel frattempo, Bruxelles ha annunciato a sua volta una misura protezionistica sull’acciaio. L’Ue dimezzerà la soglia di import esente da dazi e raddoppierà i dazi per i volumi sopra la soglia. I dazi, quindi, saranno del 50% su tutte le importazioni di acciaio eccedenti una quota annuale stabilita per paese e per tipo di prodotto.
La decisione, a lungo invocata dal settore siderurgico europeo in grave crisi, allinea la politica commerciale dell’Ue a quella statunitense, che già applica dazi simili su acciaio e alluminio. Secondo il commissario europeo per l’Industria, Stephane Sejourne, si tratta di una clausola «senza precedenti» che lascerà esente da dazi solo il 10% dell’acciaio utilizzato nel mercato Ue.
A quanto pare, dunque, i dazi sono una cosa brutta solo finché non li impone l’Ue. Parafrasando il celebre aforisma di Giulio Andreotti, i dazi logorano chi non li mette.






