
Il presidente irrompe al tavolo dell'Opec e strappa un accordo a russi e sauditi per una riduzione da 20 milioni di barili al giorno. Un rimedio al crollo dei prezzi (sul quale soffiava la Cina) e ai danni dello shale gas di Barack Obama.Per la prima volta il gruppo dei Paesi produttori di petrolio trova un accordo degno di tale nome. Siamo di fronte a una vera inversione di tendenza che vale un taglio di circa 20 milioni di barili al giorno, un deciso riequilibrio geopolitico tra Russia, Usa e Arabia Saudita e soprattutto una enorme sberla economica per la Cina, che non potrà continuare a godere di prezzi stracciati. Per dare l'idea dell'evento basti pensare che la decisione, presa nel 2016, di limare la produzione globale di 1,2 milioni era stata celebrata come un successo storico. Adesso siamo quasi a 20 volte tanto e bisogna prendere atto che la regia dell'operazione porta dritta a Donald Trump.Il presidente Usa sembra essere riuscito a rimettere il treno dell'Opec sui binari giusti e recuperare i danni fatti dal suo predecessore, Barack Obama. Perché se la crisi attuale dei prezzi (20 dollari) è riconducibile al dramma del coronavirus, per comprendere le fratture in seno al gruppo dei produttori bisogna andare indietro al novembre del 2014. All'epoca il prezzo era già in discesa da almeno sei anni, dalla crisi del 2008, quella di Lehman Brothers e dalla scelta dell'amministrazione Obama di dare il via al fracking, l'estrazione del gas di scisto. Meno domanda e più offerta in un breve lasso di tempo hanno fatto precipitare il mercato. Così il 27 novembre del 2014, l'Arabia Saudita, giunta al suo picco minimo nei rapporti diplomatici con gli Usa, decide di confermare l'output e di far crollare ulteriormente i prezzi. Obiettivo? Contrastare la strategia di Obama e la scelta dell'ex presidente Usa di spostare l'equilibrio geopolitico dal Medioriente al Pacifico. Estrarre gas di scisto costa molto più che estrarre greggio e facendo crollare il valore Riad sperava di far cambiare idea a Obama. Il greggio in effetti continua a scendere fino al 30 novembre del 2016, quando Riad si convince e avvia un taglio con l'accordo della Russia che a quel punto crea il cartello parallelo dell'Opec Plus. L'Arabia Saudita è l'unica nazione in grado di reggere anche con un barile intorno ai 10 dollari. Gli altri Paesi del Golfo sopportano business plan tarati sui 20 dollari, ma non è così per tutti gli altri produttori, compreso Putin e il blocco sudamericano. La situazione si trascina fino a giugno del 2018, quando Russia e Arabia Saudita provano a riattivare la produzione. I prezzi crollano bruscamente e a quel punto entra in scena Trump che gioca di sponda. Inasprisce le sanzioni all'Iran fino a che lo stesso Putin, abile a muoversi tra Damasco e Teheran, comprende di non essere in grado di sopportare prezzi così bassi. Di conseguenza, dal gennaio del 2019 vengono tagliati altri 2 milioni di barili. La mossa si dimostra insufficiente e rende palese che tutte le spaccature finiscono con il favorire esclusivamente la Cina. Ed è proprio su questo che Trump inizia fare leva. E con un pizzico di fortuna viene aiutato proprio dal coronavirus. L'emergenza Covid-19 ha infatti contribuito a mettere in crisi il condominio euroasiatico. L'esportazione del virus in Iran ha praticamente riportato le lancette della storia al 1979. Il Pakistan è stato messo in ginocchio e la Russia ha dovuto fermare le attività. Trump ha fatto passare un concetto preciso: la Cina non ha informato né gli alleati né gli avversari e adesso è pronta a cavalcare la ripresa economica prima degli altri. Uno scenario che né Riad né Mosca possono accettare.In pratica, giocando con l'arma dei dazi (ha tenuto sul fornello la Cina per oltre un anno) da una parte e con quella della diplomazia (si è riavvicinato dal punto di vista militare a Riad) dall'altra, Trump è riuscito a ricostruire un blocco di nazioni che tornano a guardare all'Atlantico e alla Casa Bianca come player internazionale. Da qui il taglio importante della produzione annunciato ieri. Restano ancora dei dettagli poco chiari. Inizialmente si è parlato di 9,7 milioni di barili, poi lo stesso Trump è intervenuto dicendo che l'output sarà ridotto di addirittura 20 milioni. Sul tema ieri l'agenzia Bloomberg ha specificato che i partecipanti alla trattativa stanno probabilmente includendo i tagli fisiologici. D'altronde la stessa Goldman Sachs è stata critica, definendo l'accordo sui tagli volontari (9,7 milioni di barili) insufficiente per recuperare lo stallo dell'economia realizzatosi a febbraio e marzo. Ciò fa capire che c'è ancora molto da fare e che pure su temi così delicati Trump è abituato a fare marketing. Ciò che conta però è che il presidente Usa non è stato smentito da nessuno. «I tagli alla produzione di petrolio effettivi saranno più di 19 milioni di barili», ha affermato ieri sera ministro dell'Energia saudita, Abdulaziz bin Salman in una conference call con i giornalisti precisando che la riduzione ammonterà a 19,5 milioni di barili al giorno considerando i Paesi Opec, Opec Plus e quelli del G20. E ciò significa l'America ha fatto un passo in più nella battaglia contro Xi Jinping. Se la Cina aveva in mente di far ripartire la propria industria approfittando della quarantena dell'Occidente e del prezzo stracciato del petrolio ora dovrà rivedere i propri piani. Per il presidente Usa un successo enorme che comunque non verrà raccontato su gran parte dei media europei ed italiani. Dalla stampa di sinistra e dai cosiddetti intellettuali competenti continuerà sempre a essere descritto come una scimmia urlatrice. Evidentemente è tutt'altro.
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