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2023-04-02
In Trentino la Pasqua porta con sé il miracolo enologico del vino santo
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Garda Trentino - Valle dei Laghi - Madruzzo - Azienda Agricola Pravis (L.Rotondo). Nel riquadro Locanda al Castello - Vino Nosiola (C.Kerber)
La disputa è antica quanto il vitigno: la o il Nosiola? Ah, saperlo... Sta di fatto che lungo le vigne della valle dei Laghi, paesaggio d’incanto che risale dal Garda verso il Bondone e le Dolomiti del Brenta inanellando otto specchi di Venere che è culla della Nosiola, la declinazione è femminile e così anche nella campagna di Toblino, diventa maschile da Lavis e verso la val di Cembra. Non servirà a dirimere la disputa neppure la nuova edizione di DivinNosiola (Gardatrentino.it/eventi/divinnosiola), fino all’8 aprile, che racconta il fascino di questo vino bianco. Se vinificato «fresco» è delicato, color del sole, con sfumature di fiori bianchi al naso e al palato ha un finale ammandorlato incantevole che ne giustifica il nome. È vino identitario quanti altri mai: con i pesci di lago, con i formaggi molli, con i canederli ben sostenuti dal Trentingrana, la Nosiola porta sulla tavola il profumo di una natura elegante e piena: quella delle valli trentine, quella in particolare della valle dei Laghi. Nel bicchiere la Nosiola sembra il sole che si specchia nel Lago di Terlago, nei laghi di Lamar o nello specchio di Cavedine e nelle acque di Toblino.
Questi sono i giorni in cui la Nosiola diventa protagonista di un miracolo enologico: si fa vino santo. L’ingrediente primo è la sacralità del tempo che pare modellare questo - per dirla con Galileo Galilei - «umor del sole che si fa vino». È uno dei più rari tra i passiti italiani, certo il più definito nella sua identità, prezioso per la produzione scarsa, appena il 10% della Nosiola è destinato all’appassimento e solo i grappoli di maggior pregio e in una ristrettissima zona di produzione. Le uve di Nosiola raccolte a settembre giacciono sulle arele - sono graticci di canna - fino alla settimana della passione di Cristo. È forse l’appassimento più lungo del mondo: sei mesi abbondanti in cui le uve baciate dall’Ora, il vento caldo che sale dopo mezzogiorno dal Garda, rinfrescate dalle arie dolomitiche si disidratano per conoscere sul finire di questo tempo di riposo l’insorgere della botrytis, la muffa nobile che fa nobilissimi i vini passiti. La pressatura che si fa di solito tra il martedì e il Venerdì santo estrae da un quintale d’uva non più di 16-18 litri di mosto, che vanno in fermentazione lentissima nei caratelli di rovere. Riposa lì il vino per sei, otto, dieci anni prima di andare in bottiglia dove prima del consumo sosta ancora ad armonizzarsi non meno di un anno. Quando si risveglia nel bicchiere è quasi una liturgia di resurrezione.
Il colore è ambrato, lucente; al naso l’esplosione di sensazioni è sfumatura di pesca e albicocca, si evolve in sentori di frutta secca, di dattero, solletica i sensi con un refolo di miele cotto, di ambra. Al palato è incantevole: dolce sì, ma non stucchevole, rotondo, pieno, quasi grasso. Eppure mantiene un’invidiabile freschezza che ne allunga la degustazione e offre dei ritorni sostenuti su note ancora mielate, con leggera affumicatura. Compiutamente armonico, di grande equilibro, se ne comprende ai sensi la nobiltà, la ricchezza, la rarità. Questo giustifica un prezzo consistente, ma perfettamente equilibrato rispetto al valore che rende giustizia dello sforzo che fanno i produttori, pochi e abilissimi, per compiere il «miracolo del vino santo».
Per comprendere appieno il processo di produzione, le inflessioni di degustazione di questo gioiello dell’enologia trentina DivinNosiola offre diversi appuntamenti in quello che si può definire a buona ragione il tempio di questo passito: la Casa caveau del vino santo a Padergnone (Trento), dove fino all’8 aprile sono previsti degustazioni, concerti, incontri con i produttori. Le degustazioni consentono anche di imparare ad abbinare il vino santo con i dolci tradizionali (magnifico lo sposalizio con lo zelten), ma pure con i formaggi erborinati, con i formaggi duri, i paté di fegato e di selvaggina. Un’ulteriore esperienza è accostarsi alla grappa di vino santo. Si fa con le uve passite una volta pressate (in maniera soffice) ed è una delle acqueviti in assoluto più rare. Come lo spirito delle montagne.
Le dolcezze in vigna dei passiti trentini
La vigna del Trentino regala gioielli in bottiglia incastonati tra le montagne. Tutti conoscono il Trentodoc, lo spumante in prevalenza a base di Chardonnay ma si fa anche un ottima produzione di blanc de noir con Pinot Nero e con Pinot Meunier, che è diventato sinonimo di qualità assoluta. La collezione dei vitigni autoctoni di questo magnifico territorio è ricca e variegata: dal Teroldego al Marzemino, dal Muller Thurgau alla Nosiola per citarne e alcuni e tornare con la Nosiola al Vino Santo che è il vino dei questi giorni. Non già perché si degusta a Pasqua, anche se con i dolci che imbandiscono la festa è impeccabile, ma perché è questa la settimana di vinificazione delle uve che sono state raccolte a settembre e che dopo oltre sei mesi di appassimento vengono ammostate durante la settimana santa, da qui il nome di Vino Santo. Ci sono però nel panorama enologico del trentino altri due passiti egualmente rari. Appartengo alla famiglia dei moscati, vitigni peculiari italiani, da cui si ricavano i migliori vini dolci d’Europa. Sono il Moscato giallo e il Moscato Rosa. Tutti e tre sono ovviamente vino Doc. E’ giusto considerare sempre a proposito del Vino Santo che le uve vengono attaccate dalla Botrytis il che rende straordinario questo vino capace di rivaleggiare (e vincere) con i Sauternes francesi considerati i vini da fine pasto più versatili del mondo. Ebbene basta provare gli abbinamenti possibili del Vino Santo e degli altri suoi due cugini trentini per demolire questa presunta grandeur enologica. Il Vino Santo oltreché con i dolci tradizioni è perfetto con i formaggi erborinati e no. Cominciamo a degustarlo con un Trentingrana stravecchio, può tranquillamente sposare un Canestrato, un Monte Baldo, una Vezzena o ancora un Puzzone stravecchio, un caprino erborinato o un Fiemme stravecchio o allo zafferano. Uscendo dai confini locali perfetto l’abbinamento con l’Asiago stravecchio, il Provolone, il Gorgonzola; sono tutti formaggi che esaltano il fascino degustativo del Vino Santo che è in armonia anche con paté di fegato o di selvaggina.
Il Moscato Giallo ha una sorta di patria di elezione in Vallagarina, in Valle di Gresta, ma rare vigne si trovano in tutto il Trentino. Viene vinificato fresco e dà un vino di un giallo paglierino, agrumato, con ritorni vegetali al gusto. Va accompagnato con formaggi freschi, carni bianche, pesci come la trota, piatti vegetali. Il massimo il Moscato Giallo lo dà però nella versione dolce. Viene ottenuto facendo appassire i grappoli in pianta (di solito la vendemmia si fa a ottobre inoltrato, ma ultimamente alcuni produttori lasciano i grappoli fino alla prima neve per ottenere da moscato giallo degli ice-wine) più si fa pressatura molto soffice e una vota ammostato si lascia in fermentazione lenta. C’è chi lo fermenta direttamente in legno di terzo passaggio per arrotondarlo, ma il Moscato Gallo ha nella freschezza e nell’ immediatezza la sua più “preziosa” caratteristica. Tant’è che può essere se servito attorno ai dieci gradi anche un ottimo aperitivo. Va a nozze con tutto ciò che è frutta. Al naso offre infatti le caratteristiche aromatiche dei Moscato (sensazione muschiata, quasi ananas, leggero sostegno agrumato ed erbaceo officinale) e in bocca è gentile, mai stucchevole, fresco e croccante. Perfetto con lo strudel, con i dolci alle nocciole con il gelato alla crema con le crostate di frutti purché non si usino confetture di frutti rossi. Con un krapfen è un corroborante assoluto.
Il Moscato Rosa è ancora più raro del Giallo. E’ detto anche Moscato delle Rose e questo già basta a spiegarne il fascino. Si può dire che il vino dolce dell’Adige perché le sue vigne si concentrano soprattutto nei terreni lungo il fiume. La ragione è che ha bisogno di calore per maturare bene e la dolcezza delle arie dell’Adige in alternanza con le brezze fredde di montagna concentrano i profumi dell’uva. E’ un vino complesso ottenuto da due vendemmie. La prima si fa a settembre e una parte delle uve viene messa ad appassire in fruttaio un'altra parte dei grappoli si lascia in pianta fin oltre metà novembre. Al momento della seconda vendemmia si fa la pressatura soffice di tutte le uve che vengono lasciate in fermentazione lunga in acciaio. Il colore del vino è cerasuolo, il bouquet intensissimo di rosa canina, di leggera prugna cotta, con venature di spezia tra la noce moscata e la cannella. Al palato è un vino pieno rotondo e fresco di dolcezza evidente ma non stucchevole. Le sue caratteristiche lo rendono ubico nell’abbinamento con i dolci tipo la torta di rose, le crostate con confetture rosse, lo strudel e lo zelten per restare con i dolci trentini, ma anche con la ciambella di Pasqua. Va benissimo anche con i formaggi forti ben erborinati, ad esempio con il Gorgonzola piccante oppure un Provolone molto stagionato. Ma è anche un ottimo compagno di solo dolci pensieri.
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Fino all’8 aprile l’evento che celebra la Nosiola. Che in questi giorni diventa passito.Tra i passiti trentini, oltre al Vino Santo, ci sono altri due gioielli come il Moscato Rosa e il Moscato Giallo. Scopriamone le caratteristiche e gli abbinamenti che vanno dallo Zelten ai formaggi stagionati.Lo speciale contiene due articoli.La disputa è antica quanto il vitigno: la o il Nosiola? Ah, saperlo... Sta di fatto che lungo le vigne della valle dei Laghi, paesaggio d’incanto che risale dal Garda verso il Bondone e le Dolomiti del Brenta inanellando otto specchi di Venere che è culla della Nosiola, la declinazione è femminile e così anche nella campagna di Toblino, diventa maschile da Lavis e verso la val di Cembra. Non servirà a dirimere la disputa neppure la nuova edizione di DivinNosiola (Gardatrentino.it/eventi/divinnosiola), fino all’8 aprile, che racconta il fascino di questo vino bianco. Se vinificato «fresco» è delicato, color del sole, con sfumature di fiori bianchi al naso e al palato ha un finale ammandorlato incantevole che ne giustifica il nome. È vino identitario quanti altri mai: con i pesci di lago, con i formaggi molli, con i canederli ben sostenuti dal Trentingrana, la Nosiola porta sulla tavola il profumo di una natura elegante e piena: quella delle valli trentine, quella in particolare della valle dei Laghi. Nel bicchiere la Nosiola sembra il sole che si specchia nel Lago di Terlago, nei laghi di Lamar o nello specchio di Cavedine e nelle acque di Toblino. Questi sono i giorni in cui la Nosiola diventa protagonista di un miracolo enologico: si fa vino santo. L’ingrediente primo è la sacralità del tempo che pare modellare questo - per dirla con Galileo Galilei - «umor del sole che si fa vino». È uno dei più rari tra i passiti italiani, certo il più definito nella sua identità, prezioso per la produzione scarsa, appena il 10% della Nosiola è destinato all’appassimento e solo i grappoli di maggior pregio e in una ristrettissima zona di produzione. Le uve di Nosiola raccolte a settembre giacciono sulle arele - sono graticci di canna - fino alla settimana della passione di Cristo. È forse l’appassimento più lungo del mondo: sei mesi abbondanti in cui le uve baciate dall’Ora, il vento caldo che sale dopo mezzogiorno dal Garda, rinfrescate dalle arie dolomitiche si disidratano per conoscere sul finire di questo tempo di riposo l’insorgere della botrytis, la muffa nobile che fa nobilissimi i vini passiti. La pressatura che si fa di solito tra il martedì e il Venerdì santo estrae da un quintale d’uva non più di 16-18 litri di mosto, che vanno in fermentazione lentissima nei caratelli di rovere. Riposa lì il vino per sei, otto, dieci anni prima di andare in bottiglia dove prima del consumo sosta ancora ad armonizzarsi non meno di un anno. Quando si risveglia nel bicchiere è quasi una liturgia di resurrezione. Il colore è ambrato, lucente; al naso l’esplosione di sensazioni è sfumatura di pesca e albicocca, si evolve in sentori di frutta secca, di dattero, solletica i sensi con un refolo di miele cotto, di ambra. Al palato è incantevole: dolce sì, ma non stucchevole, rotondo, pieno, quasi grasso. Eppure mantiene un’invidiabile freschezza che ne allunga la degustazione e offre dei ritorni sostenuti su note ancora mielate, con leggera affumicatura. Compiutamente armonico, di grande equilibro, se ne comprende ai sensi la nobiltà, la ricchezza, la rarità. Questo giustifica un prezzo consistente, ma perfettamente equilibrato rispetto al valore che rende giustizia dello sforzo che fanno i produttori, pochi e abilissimi, per compiere il «miracolo del vino santo».Per comprendere appieno il processo di produzione, le inflessioni di degustazione di questo gioiello dell’enologia trentina DivinNosiola offre diversi appuntamenti in quello che si può definire a buona ragione il tempio di questo passito: la Casa caveau del vino santo a Padergnone (Trento), dove fino all’8 aprile sono previsti degustazioni, concerti, incontri con i produttori. Le degustazioni consentono anche di imparare ad abbinare il vino santo con i dolci tradizionali (magnifico lo sposalizio con lo zelten), ma pure con i formaggi erborinati, con i formaggi duri, i paté di fegato e di selvaggina. Un’ulteriore esperienza è accostarsi alla grappa di vino santo. Si fa con le uve passite una volta pressate (in maniera soffice) ed è una delle acqueviti in assoluto più rare. 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Non già perché si degusta a Pasqua, anche se con i dolci che imbandiscono la festa è impeccabile, ma perché è questa la settimana di vinificazione delle uve che sono state raccolte a settembre e che dopo oltre sei mesi di appassimento vengono ammostate durante la settimana santa, da qui il nome di Vino Santo. Ci sono però nel panorama enologico del trentino altri due passiti egualmente rari. Appartengo alla famiglia dei moscati, vitigni peculiari italiani, da cui si ricavano i migliori vini dolci d’Europa. Sono il Moscato giallo e il Moscato Rosa. Tutti e tre sono ovviamente vino Doc. E’ giusto considerare sempre a proposito del Vino Santo che le uve vengono attaccate dalla Botrytis il che rende straordinario questo vino capace di rivaleggiare (e vincere) con i Sauternes francesi considerati i vini da fine pasto più versatili del mondo. Ebbene basta provare gli abbinamenti possibili del Vino Santo e degli altri suoi due cugini trentini per demolire questa presunta grandeur enologica. Il Vino Santo oltreché con i dolci tradizioni è perfetto con i formaggi erborinati e no. Cominciamo a degustarlo con un Trentingrana stravecchio, può tranquillamente sposare un Canestrato, un Monte Baldo, una Vezzena o ancora un Puzzone stravecchio, un caprino erborinato o un Fiemme stravecchio o allo zafferano. Uscendo dai confini locali perfetto l’abbinamento con l’Asiago stravecchio, il Provolone, il Gorgonzola; sono tutti formaggi che esaltano il fascino degustativo del Vino Santo che è in armonia anche con paté di fegato o di selvaggina.Il Moscato Giallo ha una sorta di patria di elezione in Vallagarina, in Valle di Gresta, ma rare vigne si trovano in tutto il Trentino. Viene vinificato fresco e dà un vino di un giallo paglierino, agrumato, con ritorni vegetali al gusto. Va accompagnato con formaggi freschi, carni bianche, pesci come la trota, piatti vegetali. Il massimo il Moscato Giallo lo dà però nella versione dolce. Viene ottenuto facendo appassire i grappoli in pianta (di solito la vendemmia si fa a ottobre inoltrato, ma ultimamente alcuni produttori lasciano i grappoli fino alla prima neve per ottenere da moscato giallo degli ice-wine) più si fa pressatura molto soffice e una vota ammostato si lascia in fermentazione lenta. C’è chi lo fermenta direttamente in legno di terzo passaggio per arrotondarlo, ma il Moscato Gallo ha nella freschezza e nell’ immediatezza la sua più “preziosa” caratteristica. Tant’è che può essere se servito attorno ai dieci gradi anche un ottimo aperitivo. Va a nozze con tutto ciò che è frutta. Al naso offre infatti le caratteristiche aromatiche dei Moscato (sensazione muschiata, quasi ananas, leggero sostegno agrumato ed erbaceo officinale) e in bocca è gentile, mai stucchevole, fresco e croccante. Perfetto con lo strudel, con i dolci alle nocciole con il gelato alla crema con le crostate di frutti purché non si usino confetture di frutti rossi. Con un krapfen è un corroborante assoluto.Il Moscato Rosa è ancora più raro del Giallo. E’ detto anche Moscato delle Rose e questo già basta a spiegarne il fascino. Si può dire che il vino dolce dell’Adige perché le sue vigne si concentrano soprattutto nei terreni lungo il fiume. La ragione è che ha bisogno di calore per maturare bene e la dolcezza delle arie dell’Adige in alternanza con le brezze fredde di montagna concentrano i profumi dell’uva. E’ un vino complesso ottenuto da due vendemmie. La prima si fa a settembre e una parte delle uve viene messa ad appassire in fruttaio un'altra parte dei grappoli si lascia in pianta fin oltre metà novembre. Al momento della seconda vendemmia si fa la pressatura soffice di tutte le uve che vengono lasciate in fermentazione lunga in acciaio. Il colore del vino è cerasuolo, il bouquet intensissimo di rosa canina, di leggera prugna cotta, con venature di spezia tra la noce moscata e la cannella. Al palato è un vino pieno rotondo e fresco di dolcezza evidente ma non stucchevole. Le sue caratteristiche lo rendono ubico nell’abbinamento con i dolci tipo la torta di rose, le crostate con confetture rosse, lo strudel e lo zelten per restare con i dolci trentini, ma anche con la ciambella di Pasqua. Va benissimo anche con i formaggi forti ben erborinati, ad esempio con il Gorgonzola piccante oppure un Provolone molto stagionato. Ma è anche un ottimo compagno di solo dolci pensieri.
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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