2025-02-10
Senza trascendenza il mondo perde senso. Così ogni azione diventa indifferente
Alberto Moravia (Getty Images)
I romanzi di Moravia sulla noia erano profetici. Oggi abbiamo perso i criteri oggettivi per capire ciò per cui val la pena batterci.Il filosofo Byung-chul Han illustra il legame tra depressione e denatalità. Evocando pandemie, guerre e catastrofi climatiche il potere congiura contro la speranza.Lo speciale contiene due articoli.È il 1925 quando Alberto Moravia, nemmeno diciottenne, inizia a scrivere Gli Indifferenti, completato nel 1929. Opera d’esordio e caso letterario, negli anni ispirerà film e infinite interpretazioni. Particolarmente efficace fu la lettura che ne diede a caldo Benito Mussolini: «Un romanzo oscenamente borghese e antiborghese al medesimo tempo». E in effetti borghese e antiborghese era Moravia: più che benestante, parente di alti papaveri fascisti e al contempo di grossi nomi dell’antifascismo, egli sentiva sulla pelle l’appartenenza al tinello buono romano e, insieme, la dolorosa alienazione che quell’ambiente gli provocava. Un senso di ansia e di soffocamento si respira fin dalle prime pagine, da cui trasuda l’atroce ipocrisia in cui i protagonisti sono immersi. C’è Leo Merumeci, affarista senza scrupoli, uomo senza valori determinato a soddisfare i propri bisogni incurante delle conseguenze. È l’amante di Mariagrazia, drammatica figura di donna borghese sospesa sul baratro della rovina, indebitata e dunque sotto ricatto dello stesso Merumeci, pateticamente appesa a consuetudini e apparenze che si sgretolano. Poi i figli ventenni di lei: Carla e Michele Ardengo. Il secondo detesta Merumeci, la condizione in cui ha costretto sua madre, l’impotenza in cui tutta la famiglia è relegata. Ma è incapace di una vera reazione. La prima, Carla, è nauseata dallo scorrere piatto dei giorni, dall’idea che nulla possa cambiare in meglio nella sua esistenza. Così rassegnata dall’abbandonarsi alla libidine di Merumeci, che va a letto con Mariagrazia ma comunque ne concupisce la figlia. Un quadro nel complesso spaventoso, una sorta di ritratto funebre di una generazione la cui caratteristica è appunto l’indifferenza: la morale è assente, la prospettiva di un cambiamento non esiste, l’intera quotidianità è cristallizzata, bloccata ed esangue. Ma ai personaggi non sembra importare: si fanno vivere, trascinare. Ed è esattamente qui che sta la potenza (e con essa l’attualità) del romanzo. Gli Indifferenti va letto in parallelo alla Noia, che Moravia darà alle stampe nel 1960, e pure a Il conformista, del 1951. Perché ovunque prevale una sorta di inabilità dei protagonisti, una incapacità di prendere posizione rispetto alla vita, un tremendo senso di inutilità e insensatezza. L’indifferente, annoiato, si conforma. Siamo, con tutta evidenza, nell'universo della melanconia a cui Jean Paul Sartre dedicherà il capolavoro La Nausea (inizialmente intitolato appunto Melancholia). Non si tratta di tristezza e nemmeno di semplice rassegnazione, bensì propriamente di accidia, perdita di forza e iniziativa. «Per molti la noia è il contrario del divertimento; e divertimento è distrazione, dimenticanza», scrive Moravia nel prologo de La Noia. «Per me, invece, la noia non è il contrario del divertimento; potrei dire, anzi, addirittura, che per certi aspetti essa rassomiglia al divertimento in quanto, appunto, provoca distrazione e dimenticanza, sia pure di un genere molto particolare. La noia, per me, è propriamente una specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà. Per adoperare una metafora, la realtà, quando mi annoio, mi ha sempre fatto l’effetto sconcertante che fa una coperta troppo corta, ad un dormiente, in una notte d’inverno: la tira sui piedi e ha freddo al petto, la tira sul petto e ha freddo ai piedi; e così non riesce mai a prender sonno veramente. Oppure, altro paragone, la mia noia rassomiglia all’interruzione frequente e misteriosa della corrente elettrica in una casa: un momento tutto è chiaro ed evidente, qui sono le poltrone, lì i divani, più in là gli armadi, le consolle, i quadri, i tendaggi, i tappeti, le finestre, le porte; un momento dopo non c’è più che buio e vuoto. Oppure, terzo paragone, la mia noia potrebbe essere definita una malattia degli oggetti, consistente in un avvizzimento o perdita di vitalità quasi repentina; come a vedere in pochi secondi, per trasformazioni successive e rapidissime, un fiore passare dal boccio all’appassimento e alla polvere. Il sentimento della noia nasce in me da quello dell’assurdità di una realtà, come ho detto, insufficiente ossia incapace di persuadermi della propria effettiva esistenza».Ecco la descrizione di una malattia dell’anima che è anche la nostra, e forse quella dell’intera modernità, come già Charles Baudelaire aveva intuito e come Byung-chul Han ribadisce nei suoi scritti attorno alla società della stanchezza. Come per i personaggi di Moravia le cose stesse perdono consistenza, così per noi, dice Han, le cose si fanno «non cose»: «Ogni cosa svanisce, si disfa pian piano. Scompaiono anche le parti del corpo, e alla fine restano solo voci incorporee, vagabonde, senza meta. [...] Oggi il mondo si svuota riducendosi a informazioni spettrali quanto quelle voci incorporee. La digitalizzazione derealizza, disincarna il mondo». Potremmo dire che la realtà ridotta ad artificio del digitale sia il compimento dello svuotamento iniziato con la modernità, l’apice della melanconia che rapisce i personaggi di Moravia quanto i nostri contemporanei. È la stessa melanconia di cui parla il filosofo Paolo Godani nel recentissimo Melanconia e fine del mondo (Feltrinelli). Una condizione «che si definisce per il sentimento della radicale insensatezza del mondo e della vita, per il senso di colpa altrettanto radicale che ne consegue e per la prostrazione e l’inibizione all’azione che ne costituiscono l’inevitabile corollario. E si è visto sino a che punto il melanconico condivida, e insieme contesti, la struttura metafisica che è a tutti gli effetti quella dominante nella nostra cultura. Questa struttura melanconica implica l’esigenza etica di trascendere l’insensatezza del mondo sottoponendo quest’ultimo all’effetto di una legge, di un valore, di una forma, ma in tal modo conferma nella maniera più decisa possibile che in effetti questo mondo, lasciato a sé stesso, è del tutto insensato. Il melanconico non fa che tenersi a questa conferma, abbandonando l’illusione di ogni fede e di ogni trascendimento. Sarà una sorta di nichilista passivo».L’indifferenza di Moravia è dunque insieme causa e sintomo. L’indifferenza a ogni sistema valoriale, l’estraneità percepita rispetto a ogni ordine trascendente producono alienazione dalla vita, uccidono il desiderio di andare oltre, di costruire qualcosa di nuovo e migliore, provare un sentimento che non sia pura rassegnazione. La speranza, in questo ordine mondiale, non ha cittadinanza. Perché agire, perché spendersi, perché sacrificarsi se non esistono ideali sensati, se ogni cosa è priva di realtà, se tutto è destinato a rimanere identico a sé stesso? Lo spegnimento di cui tratta Moravia è il nostro: una paralisi angosciata, un panico paralizzante che si manifesta come disinteresse, esaurimento delle passioni creative, persino dell’eros. Gli Indifferenti siamo noi, ancora.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/trascendenza-moravia-2671126583.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="dalla-societa-dellangoscia-non-ci-salvera-la-scienza" data-post-id="2671126583" data-published-at="1739192637" data-use-pagination="False"> Dalla società dell’angoscia non ci salverà la scienza P. D. James ci rese partecipi del suo incubo nel 1992, dando alle stampe I figli degli uomini. Il romanzo è ambientato nel 2021, subito dopo la morte dell’ultimo essere umano nato sulla terra. Un ragazzo di venticinque anni ucciso in una rissa. Con lui si spegne l’ultimo barlume di vitalità di un pianeta su cui, da un quarto di secolo, non nasce più nessuno. Theodore Faron, professore di Storia a Oxford e voce narrante, rovescia in un diario il suo sconforto: «L’incombente estinzione della nostra specie e l’impossibilità di evitarla ci offendono e demoralizzano meno della nostra incapacità di scoprirne la causa», scrive. «La scienza e la medicina occidentali non ci hanno preparati all’enormità e all’umiliazione di questo smacco. Vi sono state malattie difficili sia da diagnosticare sia da curare, una delle quali ha quasi spopolato due continenti prima di essere debellata, ma alla fine siamo sempre riusciti a spiegarne le cause. Abbiamo dato un nome ai virus e ai germi che tuttora ci affliggono, con grande mortificazione da parte nostra, dal momento che sembra un affronto personale che ci debbano colpire ancora oggi, come antichi nemici che tengono viva la battaglia e di tanto in tanto uccidono anche quando la loro vittoria è ormai assicurata. La scienza occidentale è stata il nostro dio. [...] La scienza non è mai stata il mio pane: ne capivo poco a scuola e continuo a capirne poco adesso che ho cinquant’anni. Ma è stata un dio anche per me, che pure non ne ho mai compreso appieno le conquiste, e provo anch’io la disillusione universale di chi assiste alla morte del proprio dio». Il potere della tecnica non basta a scongiurare la catastrofe, ad arrestare l’interminabile e mortifero inverno demografico. Secondo il filosofo Byung-chul Han, il racconto della James e il film che ne ha tratto nel 2006 Alfonso Cuarón fornisce una fondamentale chiave di lettura del presente. «I figli degli uomini», spiega, «ci restituisce una rappresentazione della società odierna dominata dalla depressione e diventata completamente priva di speranza. Nella pellicola l’umanità procede verso la propria fine e rischia l’estinzione. [...]. Se le parole della buona novella contenute nell’omelia di Natale: “un bambino è nato per noi” annunciano la speranza, allora la sterilità dell’umanità rappresenta l’assoluta mancanza di ogni speranza». Secondo Han, «ne I figli degli uomini l’umanità cade in una depressione collettiva. L’esperienza della nascita, che vale come sinonimo del futuro e che dovrebbe portare con sé il nuovo, non si verifica più. A essere completamente annullato è il venire-al-mondo inteso come nascita. Il mondo si identifica con l’inferno dell’Uguale. La depressione priva l’umanità di ogni speranza. Depresso ed esausto, il futuro è una permanente ripetizione dell’Uguale. Il futuro non si apre più. Niente di nuovo nasce. Il futuro che rivitalizza, mette le ali, ispira, in altre parole l’avvenire, è completamente assente. Non sembra più possibile nessuna partenza, nessun domani, nessun incipit vita nova, nessuna dipartita dall’Uguale, da ciò che è già stato. La depressione si contrappone radicalmente alla speranza in quanto passione per il nuovo. La speranza è il salto, lo slancio che ci libera dalla depressione, da un futuro esausto». Di questo salto, dice Han, la società contemporanea sembra non essere più capace. Nel saggio appena pubblicato da Einaudi (Contro la società dell'angoscia), il pensatore di origini coreane ci consegna la radiografia terrificante di un mondo in cui l’angoscia si aggira come uno spettro. Angoscia come senso di fine incombente, come chiusura di ogni prospettiva sull’avvenire. «Il termine “angoscia” (medio alto tedesco: “angest”; antico alto tedesco: “angust”) significa originariamente: “strettezza”», scrive Han. «Essa soffoca ogni ampiezza, riduce ogni prospettiva nella misura in cui restringe il campo visivo e sbarra la vista. Chi prova angoscia si sente spinto in una strettoia. L’angoscia va di pari passo con la sensazione di essere preso, imprigionato, rinchiuso. Nell’angoscia il mondo ci appare come una prigione. Tutte le porte che conducono fuori, all’aperto, sono serrate. Essa preclude, ostruisce il futuro poiché rende inaccessibile il possibile, il nuovo». L’angoscia e l’ansia da una parte ci paralizzano, dall’altra ci spingono a un attivismo frenetico e insensato. In ogni caso ci costringono in un presente senza uscita: «Tutti noi ci troviamo permanentemente faccia a faccia con scenari apocalittici: una pandemia, una guerra mondiale, una catastrofe climatica. La fine del mondo o della civiltà umana viene sempre più spesso evocata come un qualcosa di incombente, imminente». Poco cambia che a imprigionarci sia il terrore scatenato da una pandemia o da un incipiente disastro ambientale: l’apocalisse è all’ordine del giorno. Solo una via di uscita resta, ammonisce Han: la speranza, lo slancio verso l’alto e verso il nuovo. Esattamente ciò che ogni giorno il potere attualmente dominante tenta di sopprimere.
«Haunted Hotel» (Netflix)
Dal creatore di Rick & Morty arriva su Netflix Haunted Hotel, disponibile dal 19 settembre. La serie racconta le vicende della famiglia Freeling tra legami familiari, fantasmi e mostri, unendo commedia e horror in un’animazione pensata per adulti.