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2022-08-09
Tra conti offshore e armamenti dispersi Zelensky non è più l’eroe senza macchia
Volodymyr Zelensky (Ansa)
L’immagine di Volodymyr Zelensky rappresentato come un eroe che combatte la corruzione e l’evasione inizia a perdere smalto e diversi, importanti media occidentali aprono gli occhi sui lati oscuri del presidente senza macchia.
È il tedesco Die Welt a rilanciare la notizia che il giornalismo investigativo, a Kiev e dintorni, non è di gradimento. Soprattutto se parla di rivelazioni sui conti offshore del «servitore del popolo». Il quotidiano si interroga sul perché il documentario Offshore 95, preparato già dal 2021 da una rete di giornalisti di inchiesta ucraini denominata Slidstvo.info, abbia subito continui boicottaggi finendo per essere insabbiato. Il film, la cui prevista presentazione al teatro Little opera di Kiev non ha mai avuto luogo per continue cancellazioni, è basato sui Pandora Papers, oltre 11 milioni di documenti trapelati da fornitori di servizi finanziari. La rete internazionale di giornalisti investigativi dei Pandora Papers ha iniziato a pubblicare rivelazioni, il 3 ottobre 2021, sui conti offshore di centinaia di funzionari governativi in tutto il mondo, inclusi 35 leader mondiali. Volodymyr Zelensky ha uno spazio notevole: a lui sono riservati ben 2,9 terabyte di quelle informazioni. Ora la stampa tedesca si ricorda che, forse, un’occhiata a quel documento andava data, quantomeno per capire se il pulpito dal quale il presidente ucraino parla della lotta alla corruzione fosse adatto alle sue continue prediche.
I documenti dell’inchiesta Pandora Papers - Die Welt ricostruisce la vicenda - hanno parzialmente confermato uno schema attraverso il quale le aziende dell’oligarca Ihor Kolomoyskyi hanno trasferito denaro alle società offshore appartenenti a Volodymyr Zelenskyi e al suo «cerchio magico». Nei Pandora Papers i giornalisti di Slidstvo.info hanno trovato conferma alle informazioni già pubblicate ai tempi della campagna elettorale per le presidenziali, nel 2019. Per riassumere la complessità di ciò che accadeva: le società offshore, i cui beneficiari erano Zelensky e alcuni membri del centro di produzione dei programmi televisivi comici Kvartal 95 (Quartiere 95), hanno potuto ricevere 40 milioni di dollari da aziende legate all’oligarca Kolomoyskyi a partire dal 2012, quando il Kvartal 95 ha iniziato a collaborare con il canale televisivo 1+1 (lo stesso dove andava in onda la serie Servitore del popolo con Zelensky protagonista). Secondo i dossier, nel 2012, i dirigenti e i membri del centro di produzione dei contenuti televisivi e cinematografici Kvartal 95 hanno costituito oltre una decina di società nelle Isole Vergini britanniche, in Belize e a Cipro. Centrale, in questa rete, la società Maltex Multicapital Corp., posseduta in parti uguali dalle società offshore di Volodymyr Zelensky e sua moglie, dei fratelli Serhiy e Borys Shefir, cofondatori del Kvartal 95 e del regista Andriy Yakovlev.
Ma c’è un altro aspetto sul quale anche i sostenitori accaniti del presidente ucraino non riescono più a trovare giri di parole per negare la realtà. Le armi inviate dall’Occidente in Ucraina si disperdono in mille pericolosi rivoli, come scritto più volte sulla Verità. Questa volta è il network americano Cbs a ricostruire i fatti, salvo poi doverli in parte «addolcire», su richiesta di una piccata Ucraina agli amici Usa, aggiungendo che «da aprile a oggi la realtà è migliorata». Comunque esaminiamola, questa realtà «in miglioramento».
La maggior parte dei rifornimenti militari chiesti a gran voce da Zelensky si dirige verso il confine con la Polonia, dove gli alleati della Nato cercano di farli giungere nelle mani dei funzionari ucraini. La Cbs ha intervistato Jonas Ohman, fondatore e Ceo di Blue Yellow, un’organizzazione con sede in Lituania che ha fornito alle unità in prima linea aiuti militari in Ucraina dall’inizio del conflitto con i separatisti sostenuti dalla Russia nel 2014. Ad aprile, ha stimato che solo il «30-40%» dei rifornimenti in arrivo attraverso il confine ha raggiunto la destinazione finale. Chi consegna le armi deve fare i conti con intermediari inaffidabili come «signori della guerra, oligarchi, attori politici», ha rivelato Ohman.
A esporsi con la Cbs sul pericolo che le armi finiscano in cattive mani è stato anche Andy Millburn, colonnello della Marina degli Stati Uniti in pensione, che ha prestato servizio in Iraq e Somalia e ha fondato il Mozart Group, che addestra i soldati ucraini in prima linea. Millburn ha descritto un’altra difficoltà: «Per le forniture serve organizzazione. Ma se la tua possibilità di agire si ferma al confine ucraino è normale che gli aiuti non arrivino dove devono arrivare». In definitiva, se l’Occidente fornisce armi ma non ha controllo su tutti i passaggi di mano in mano, è logico che chiunque riesca a impossessarsene. Del resto, situazioni analoghe si sono verificate in Afghanistan o in Iraq, come ricorda Donatella Rovera di Amnesty international, che monitora le violazioni dei diritti umani in Ucraina. «Abbiamo visto arrivare armi nel 2003 con l’invasione Usa dell’Iraq e poi, nel 2014, l’Isis ha rilevato le scorte destinate alle forze irachene». La stessa Amnesty international, nei giorni scorsi, ha detto con chiarezza che gli ucraini, installando basi militari anche all’interno di scuole e ospedali, hanno reso civili inermi bersaglio degli attacchi russi. Sui rilievi di un soggetto accreditato come Amnesty non possono esserci sospetti di parzialità, dunque è comprensibile l’agitazione di Zelensky per questo autorevole colpo alla sua immagine.
Kiev: «Zaporizhzhia è stata minata». E l’Onu teme il «suicidio nucleare»
Sul giorno di guerra numero 177 si stagliano le nuvole nere del pericolo nucleare, visto quanto sta accadendo attorno alla centrale di Zaporizhzhia. Secondo la società statale ucraina che gestisce il comparto, Energoatom: «Le truppe russe hanno piazzato mine intorno ai generatori di Zaporizhzhia». Inoltre, secondo quanto riportato dal quotidiano Kyiv Independent, che ha avuto accesso a informazioni dell’intelligence ucraina, «un generale russo avrebbe avvertito le sue truppe che Mosca valuta di far saltare in aria l’impianto, in caso non riuscisse a mantenerne il controllo».
Che la situazione attorno alla centrale nucleare sia sempre più grave lo si capisce dalle parole di Petro Kotin, capo dell’agenzia nucleare ucraina Energoatom, che ha chiesto «la creazione di una zona demilitarizzata». Mentre il ministro della Salute romeno, Alexandru Rafila, ha allertato la popolazione under 40, invitandola a fare scorta di compresse allo iodio. In questo contesto, sembra cadere nel vuoto l’appello del segretario generale dell’Onu, António Guterres, affinché si fermi ogni operazione militare «suicida» contro le centrali.
E i russi, che dicono a proposito? Per il portavoce del ministero della Difesa russo, Igor Konanshenkov, citato dalla Tass, «sono state ridotte le attività di alcuni reattori a Zaporizhzhia per motivi di sicurezza. Per prevenire incidenti il personale tecnico ha ridotto la produzione dei reattori 5 e 6 a 500 megawatt». Sul tema è intervenuto anche l’ambasciatore russo presso le organizzazioni internazionali a Vienna, Mikhail Ulyanov, che a Ria Novosti ha dichiarato: «Alla Russia interessa che l’Aiea abbia informazioni su Zaporizhzhia, viste le azioni criminali di Kiev».
Ieri le truppe ucraine hanno nuovamente bombardato il ponte Antonovski, alla periferia di Kherson, ritenuto strategico per i rifornimenti, visto che è l’unico che collega la città alla sponda meridionale del fiume Dnepr e al resto della regione. Mentre Mosca ha dichiarato di aver ucciso 250 soldati ucraini in tre raid nella regione di Kharkiv.
Sul fronte della crisi alimentare, la nave Sacura, battente bandiera liberiana, è stata autorizzata a partire dal porto ucraino di Yuhzny con un carico di 11.000 tonnellate di soia ed è diretta a Ravenna. Come scritto nel comunicato della delegazione dell’Onu presso il centro istituito a Istanbul, è stata autorizzata anche la partenza dal porto di Chornomorsk della nave Arizona, che è diretta nella località turca di Iskenderun con un carico di oltre 48.000 tonnellate di grano. Le navi faranno tappa a Istanbul. La speranza è che non facciano la fine della nave mercantile Razoni, la prima carica di grano a lasciare l’Ucraina dall’inizio dell’invasione russa. Il cargo, partito lunedì con a bordo oltre 26.000 tonnellate di mais non è mai attraccato a Tripoli (Libano), come da itinerario. Secondo l’ambasciata ucraina a Beirut, il rinvio è dettato da motivi commerciali: «L’arrivo della prima nave carica di mais da Odessa sarà ritardato. Siamo in attesa della conclusione dei negoziati a livello commerciale», ha riferito su Twitter Ihor Ostash, ambasciatore ucraino in Libano.
Nel frattempo la Russia, secondo quanto riporta El Mundo (che a sua volta cita la televisione finlandese Yle), starebbe bruciando il gas in eccesso, che non esporta in Europa. Mentre il Pentagono ha annunciato una nuova tranche di aiuti militari da 1 miliardo di dollari. A Kiev altri lanciarazzi Himars, missili anticarro portatili Javelin e relative munizioni. Infine, dalla Banca mondiale arriveranno aiuti per 4,5 miliardi.
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Dopo l’accusa di Amnesty sull’uso di scudi umani, Die Welt riapre i Panama Papers. E Cbs punta il dito sugli aiuti militari.Kiev: «Zaporizhzhia è stata minata». E l’Onu teme il «suicidio nucleare». Mosca: «Fermi alcuni reattori». Dal Pentagono un altro miliardo alle truppe ucraine.Lo speciale comprende due articoli. L’immagine di Volodymyr Zelensky rappresentato come un eroe che combatte la corruzione e l’evasione inizia a perdere smalto e diversi, importanti media occidentali aprono gli occhi sui lati oscuri del presidente senza macchia. È il tedesco Die Welt a rilanciare la notizia che il giornalismo investigativo, a Kiev e dintorni, non è di gradimento. Soprattutto se parla di rivelazioni sui conti offshore del «servitore del popolo». Il quotidiano si interroga sul perché il documentario Offshore 95, preparato già dal 2021 da una rete di giornalisti di inchiesta ucraini denominata Slidstvo.info, abbia subito continui boicottaggi finendo per essere insabbiato. Il film, la cui prevista presentazione al teatro Little opera di Kiev non ha mai avuto luogo per continue cancellazioni, è basato sui Pandora Papers, oltre 11 milioni di documenti trapelati da fornitori di servizi finanziari. La rete internazionale di giornalisti investigativi dei Pandora Papers ha iniziato a pubblicare rivelazioni, il 3 ottobre 2021, sui conti offshore di centinaia di funzionari governativi in tutto il mondo, inclusi 35 leader mondiali. Volodymyr Zelensky ha uno spazio notevole: a lui sono riservati ben 2,9 terabyte di quelle informazioni. Ora la stampa tedesca si ricorda che, forse, un’occhiata a quel documento andava data, quantomeno per capire se il pulpito dal quale il presidente ucraino parla della lotta alla corruzione fosse adatto alle sue continue prediche. I documenti dell’inchiesta Pandora Papers - Die Welt ricostruisce la vicenda - hanno parzialmente confermato uno schema attraverso il quale le aziende dell’oligarca Ihor Kolomoyskyi hanno trasferito denaro alle società offshore appartenenti a Volodymyr Zelenskyi e al suo «cerchio magico». Nei Pandora Papers i giornalisti di Slidstvo.info hanno trovato conferma alle informazioni già pubblicate ai tempi della campagna elettorale per le presidenziali, nel 2019. Per riassumere la complessità di ciò che accadeva: le società offshore, i cui beneficiari erano Zelensky e alcuni membri del centro di produzione dei programmi televisivi comici Kvartal 95 (Quartiere 95), hanno potuto ricevere 40 milioni di dollari da aziende legate all’oligarca Kolomoyskyi a partire dal 2012, quando il Kvartal 95 ha iniziato a collaborare con il canale televisivo 1+1 (lo stesso dove andava in onda la serie Servitore del popolo con Zelensky protagonista). Secondo i dossier, nel 2012, i dirigenti e i membri del centro di produzione dei contenuti televisivi e cinematografici Kvartal 95 hanno costituito oltre una decina di società nelle Isole Vergini britanniche, in Belize e a Cipro. Centrale, in questa rete, la società Maltex Multicapital Corp., posseduta in parti uguali dalle società offshore di Volodymyr Zelensky e sua moglie, dei fratelli Serhiy e Borys Shefir, cofondatori del Kvartal 95 e del regista Andriy Yakovlev. Ma c’è un altro aspetto sul quale anche i sostenitori accaniti del presidente ucraino non riescono più a trovare giri di parole per negare la realtà. Le armi inviate dall’Occidente in Ucraina si disperdono in mille pericolosi rivoli, come scritto più volte sulla Verità. Questa volta è il network americano Cbs a ricostruire i fatti, salvo poi doverli in parte «addolcire», su richiesta di una piccata Ucraina agli amici Usa, aggiungendo che «da aprile a oggi la realtà è migliorata». Comunque esaminiamola, questa realtà «in miglioramento». La maggior parte dei rifornimenti militari chiesti a gran voce da Zelensky si dirige verso il confine con la Polonia, dove gli alleati della Nato cercano di farli giungere nelle mani dei funzionari ucraini. La Cbs ha intervistato Jonas Ohman, fondatore e Ceo di Blue Yellow, un’organizzazione con sede in Lituania che ha fornito alle unità in prima linea aiuti militari in Ucraina dall’inizio del conflitto con i separatisti sostenuti dalla Russia nel 2014. Ad aprile, ha stimato che solo il «30-40%» dei rifornimenti in arrivo attraverso il confine ha raggiunto la destinazione finale. Chi consegna le armi deve fare i conti con intermediari inaffidabili come «signori della guerra, oligarchi, attori politici», ha rivelato Ohman. A esporsi con la Cbs sul pericolo che le armi finiscano in cattive mani è stato anche Andy Millburn, colonnello della Marina degli Stati Uniti in pensione, che ha prestato servizio in Iraq e Somalia e ha fondato il Mozart Group, che addestra i soldati ucraini in prima linea. Millburn ha descritto un’altra difficoltà: «Per le forniture serve organizzazione. Ma se la tua possibilità di agire si ferma al confine ucraino è normale che gli aiuti non arrivino dove devono arrivare». In definitiva, se l’Occidente fornisce armi ma non ha controllo su tutti i passaggi di mano in mano, è logico che chiunque riesca a impossessarsene. Del resto, situazioni analoghe si sono verificate in Afghanistan o in Iraq, come ricorda Donatella Rovera di Amnesty international, che monitora le violazioni dei diritti umani in Ucraina. «Abbiamo visto arrivare armi nel 2003 con l’invasione Usa dell’Iraq e poi, nel 2014, l’Isis ha rilevato le scorte destinate alle forze irachene». La stessa Amnesty international, nei giorni scorsi, ha detto con chiarezza che gli ucraini, installando basi militari anche all’interno di scuole e ospedali, hanno reso civili inermi bersaglio degli attacchi russi. Sui rilievi di un soggetto accreditato come Amnesty non possono esserci sospetti di parzialità, dunque è comprensibile l’agitazione di Zelensky per questo autorevole colpo alla sua immagine.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/tra-conti-offshore-e-armamenti-dispersi-zelensky-non-e-piu-leroe-senza-macchia-2657829189.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="kiev-zaporizhzhia-e-stata-minata-e-lonu-teme-il-suicidio-nucleare" data-post-id="2657829189" data-published-at="1659987280" data-use-pagination="False"> Kiev: «Zaporizhzhia è stata minata». 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In questo contesto, sembra cadere nel vuoto l’appello del segretario generale dell’Onu, António Guterres, affinché si fermi ogni operazione militare «suicida» contro le centrali. E i russi, che dicono a proposito? Per il portavoce del ministero della Difesa russo, Igor Konanshenkov, citato dalla Tass, «sono state ridotte le attività di alcuni reattori a Zaporizhzhia per motivi di sicurezza. Per prevenire incidenti il personale tecnico ha ridotto la produzione dei reattori 5 e 6 a 500 megawatt». Sul tema è intervenuto anche l’ambasciatore russo presso le organizzazioni internazionali a Vienna, Mikhail Ulyanov, che a Ria Novosti ha dichiarato: «Alla Russia interessa che l’Aiea abbia informazioni su Zaporizhzhia, viste le azioni criminali di Kiev». Ieri le truppe ucraine hanno nuovamente bombardato il ponte Antonovski, alla periferia di Kherson, ritenuto strategico per i rifornimenti, visto che è l’unico che collega la città alla sponda meridionale del fiume Dnepr e al resto della regione. Mentre Mosca ha dichiarato di aver ucciso 250 soldati ucraini in tre raid nella regione di Kharkiv. Sul fronte della crisi alimentare, la nave Sacura, battente bandiera liberiana, è stata autorizzata a partire dal porto ucraino di Yuhzny con un carico di 11.000 tonnellate di soia ed è diretta a Ravenna. Come scritto nel comunicato della delegazione dell’Onu presso il centro istituito a Istanbul, è stata autorizzata anche la partenza dal porto di Chornomorsk della nave Arizona, che è diretta nella località turca di Iskenderun con un carico di oltre 48.000 tonnellate di grano. Le navi faranno tappa a Istanbul. La speranza è che non facciano la fine della nave mercantile Razoni, la prima carica di grano a lasciare l’Ucraina dall’inizio dell’invasione russa. Il cargo, partito lunedì con a bordo oltre 26.000 tonnellate di mais non è mai attraccato a Tripoli (Libano), come da itinerario. Secondo l’ambasciata ucraina a Beirut, il rinvio è dettato da motivi commerciali: «L’arrivo della prima nave carica di mais da Odessa sarà ritardato. Siamo in attesa della conclusione dei negoziati a livello commerciale», ha riferito su Twitter Ihor Ostash, ambasciatore ucraino in Libano. Nel frattempo la Russia, secondo quanto riporta El Mundo (che a sua volta cita la televisione finlandese Yle), starebbe bruciando il gas in eccesso, che non esporta in Europa. Mentre il Pentagono ha annunciato una nuova tranche di aiuti militari da 1 miliardo di dollari. A Kiev altri lanciarazzi Himars, missili anticarro portatili Javelin e relative munizioni. Infine, dalla Banca mondiale arriveranno aiuti per 4,5 miliardi.
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Getty Images
Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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