2022-08-09
Tra conti offshore e armamenti dispersi Zelensky non è più l’eroe senza macchia
Volodymyr Zelensky (Ansa)
Dopo l’accusa di Amnesty sull’uso di scudi umani, Die Welt riapre i Panama Papers. E Cbs punta il dito sugli aiuti militari.Kiev: «Zaporizhzhia è stata minata». E l’Onu teme il «suicidio nucleare». Mosca: «Fermi alcuni reattori». Dal Pentagono un altro miliardo alle truppe ucraine.Lo speciale comprende due articoli. L’immagine di Volodymyr Zelensky rappresentato come un eroe che combatte la corruzione e l’evasione inizia a perdere smalto e diversi, importanti media occidentali aprono gli occhi sui lati oscuri del presidente senza macchia. È il tedesco Die Welt a rilanciare la notizia che il giornalismo investigativo, a Kiev e dintorni, non è di gradimento. Soprattutto se parla di rivelazioni sui conti offshore del «servitore del popolo». Il quotidiano si interroga sul perché il documentario Offshore 95, preparato già dal 2021 da una rete di giornalisti di inchiesta ucraini denominata Slidstvo.info, abbia subito continui boicottaggi finendo per essere insabbiato. Il film, la cui prevista presentazione al teatro Little opera di Kiev non ha mai avuto luogo per continue cancellazioni, è basato sui Pandora Papers, oltre 11 milioni di documenti trapelati da fornitori di servizi finanziari. La rete internazionale di giornalisti investigativi dei Pandora Papers ha iniziato a pubblicare rivelazioni, il 3 ottobre 2021, sui conti offshore di centinaia di funzionari governativi in tutto il mondo, inclusi 35 leader mondiali. Volodymyr Zelensky ha uno spazio notevole: a lui sono riservati ben 2,9 terabyte di quelle informazioni. Ora la stampa tedesca si ricorda che, forse, un’occhiata a quel documento andava data, quantomeno per capire se il pulpito dal quale il presidente ucraino parla della lotta alla corruzione fosse adatto alle sue continue prediche. I documenti dell’inchiesta Pandora Papers - Die Welt ricostruisce la vicenda - hanno parzialmente confermato uno schema attraverso il quale le aziende dell’oligarca Ihor Kolomoyskyi hanno trasferito denaro alle società offshore appartenenti a Volodymyr Zelenskyi e al suo «cerchio magico». Nei Pandora Papers i giornalisti di Slidstvo.info hanno trovato conferma alle informazioni già pubblicate ai tempi della campagna elettorale per le presidenziali, nel 2019. Per riassumere la complessità di ciò che accadeva: le società offshore, i cui beneficiari erano Zelensky e alcuni membri del centro di produzione dei programmi televisivi comici Kvartal 95 (Quartiere 95), hanno potuto ricevere 40 milioni di dollari da aziende legate all’oligarca Kolomoyskyi a partire dal 2012, quando il Kvartal 95 ha iniziato a collaborare con il canale televisivo 1+1 (lo stesso dove andava in onda la serie Servitore del popolo con Zelensky protagonista). Secondo i dossier, nel 2012, i dirigenti e i membri del centro di produzione dei contenuti televisivi e cinematografici Kvartal 95 hanno costituito oltre una decina di società nelle Isole Vergini britanniche, in Belize e a Cipro. Centrale, in questa rete, la società Maltex Multicapital Corp., posseduta in parti uguali dalle società offshore di Volodymyr Zelensky e sua moglie, dei fratelli Serhiy e Borys Shefir, cofondatori del Kvartal 95 e del regista Andriy Yakovlev. Ma c’è un altro aspetto sul quale anche i sostenitori accaniti del presidente ucraino non riescono più a trovare giri di parole per negare la realtà. Le armi inviate dall’Occidente in Ucraina si disperdono in mille pericolosi rivoli, come scritto più volte sulla Verità. Questa volta è il network americano Cbs a ricostruire i fatti, salvo poi doverli in parte «addolcire», su richiesta di una piccata Ucraina agli amici Usa, aggiungendo che «da aprile a oggi la realtà è migliorata». Comunque esaminiamola, questa realtà «in miglioramento». La maggior parte dei rifornimenti militari chiesti a gran voce da Zelensky si dirige verso il confine con la Polonia, dove gli alleati della Nato cercano di farli giungere nelle mani dei funzionari ucraini. La Cbs ha intervistato Jonas Ohman, fondatore e Ceo di Blue Yellow, un’organizzazione con sede in Lituania che ha fornito alle unità in prima linea aiuti militari in Ucraina dall’inizio del conflitto con i separatisti sostenuti dalla Russia nel 2014. Ad aprile, ha stimato che solo il «30-40%» dei rifornimenti in arrivo attraverso il confine ha raggiunto la destinazione finale. Chi consegna le armi deve fare i conti con intermediari inaffidabili come «signori della guerra, oligarchi, attori politici», ha rivelato Ohman. A esporsi con la Cbs sul pericolo che le armi finiscano in cattive mani è stato anche Andy Millburn, colonnello della Marina degli Stati Uniti in pensione, che ha prestato servizio in Iraq e Somalia e ha fondato il Mozart Group, che addestra i soldati ucraini in prima linea. Millburn ha descritto un’altra difficoltà: «Per le forniture serve organizzazione. Ma se la tua possibilità di agire si ferma al confine ucraino è normale che gli aiuti non arrivino dove devono arrivare». In definitiva, se l’Occidente fornisce armi ma non ha controllo su tutti i passaggi di mano in mano, è logico che chiunque riesca a impossessarsene. Del resto, situazioni analoghe si sono verificate in Afghanistan o in Iraq, come ricorda Donatella Rovera di Amnesty international, che monitora le violazioni dei diritti umani in Ucraina. «Abbiamo visto arrivare armi nel 2003 con l’invasione Usa dell’Iraq e poi, nel 2014, l’Isis ha rilevato le scorte destinate alle forze irachene». La stessa Amnesty international, nei giorni scorsi, ha detto con chiarezza che gli ucraini, installando basi militari anche all’interno di scuole e ospedali, hanno reso civili inermi bersaglio degli attacchi russi. Sui rilievi di un soggetto accreditato come Amnesty non possono esserci sospetti di parzialità, dunque è comprensibile l’agitazione di Zelensky per questo autorevole colpo alla sua immagine.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/tra-conti-offshore-e-armamenti-dispersi-zelensky-non-e-piu-leroe-senza-macchia-2657829189.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="kiev-zaporizhzhia-e-stata-minata-e-lonu-teme-il-suicidio-nucleare" data-post-id="2657829189" data-published-at="1659987280" data-use-pagination="False"> Kiev: «Zaporizhzhia è stata minata». E l’Onu teme il «suicidio nucleare» Sul giorno di guerra numero 177 si stagliano le nuvole nere del pericolo nucleare, visto quanto sta accadendo attorno alla centrale di Zaporizhzhia. Secondo la società statale ucraina che gestisce il comparto, Energoatom: «Le truppe russe hanno piazzato mine intorno ai generatori di Zaporizhzhia». Inoltre, secondo quanto riportato dal quotidiano Kyiv Independent, che ha avuto accesso a informazioni dell’intelligence ucraina, «un generale russo avrebbe avvertito le sue truppe che Mosca valuta di far saltare in aria l’impianto, in caso non riuscisse a mantenerne il controllo». Che la situazione attorno alla centrale nucleare sia sempre più grave lo si capisce dalle parole di Petro Kotin, capo dell’agenzia nucleare ucraina Energoatom, che ha chiesto «la creazione di una zona demilitarizzata». Mentre il ministro della Salute romeno, Alexandru Rafila, ha allertato la popolazione under 40, invitandola a fare scorta di compresse allo iodio. In questo contesto, sembra cadere nel vuoto l’appello del segretario generale dell’Onu, António Guterres, affinché si fermi ogni operazione militare «suicida» contro le centrali. E i russi, che dicono a proposito? Per il portavoce del ministero della Difesa russo, Igor Konanshenkov, citato dalla Tass, «sono state ridotte le attività di alcuni reattori a Zaporizhzhia per motivi di sicurezza. Per prevenire incidenti il personale tecnico ha ridotto la produzione dei reattori 5 e 6 a 500 megawatt». Sul tema è intervenuto anche l’ambasciatore russo presso le organizzazioni internazionali a Vienna, Mikhail Ulyanov, che a Ria Novosti ha dichiarato: «Alla Russia interessa che l’Aiea abbia informazioni su Zaporizhzhia, viste le azioni criminali di Kiev». Ieri le truppe ucraine hanno nuovamente bombardato il ponte Antonovski, alla periferia di Kherson, ritenuto strategico per i rifornimenti, visto che è l’unico che collega la città alla sponda meridionale del fiume Dnepr e al resto della regione. Mentre Mosca ha dichiarato di aver ucciso 250 soldati ucraini in tre raid nella regione di Kharkiv. Sul fronte della crisi alimentare, la nave Sacura, battente bandiera liberiana, è stata autorizzata a partire dal porto ucraino di Yuhzny con un carico di 11.000 tonnellate di soia ed è diretta a Ravenna. Come scritto nel comunicato della delegazione dell’Onu presso il centro istituito a Istanbul, è stata autorizzata anche la partenza dal porto di Chornomorsk della nave Arizona, che è diretta nella località turca di Iskenderun con un carico di oltre 48.000 tonnellate di grano. Le navi faranno tappa a Istanbul. La speranza è che non facciano la fine della nave mercantile Razoni, la prima carica di grano a lasciare l’Ucraina dall’inizio dell’invasione russa. Il cargo, partito lunedì con a bordo oltre 26.000 tonnellate di mais non è mai attraccato a Tripoli (Libano), come da itinerario. Secondo l’ambasciata ucraina a Beirut, il rinvio è dettato da motivi commerciali: «L’arrivo della prima nave carica di mais da Odessa sarà ritardato. Siamo in attesa della conclusione dei negoziati a livello commerciale», ha riferito su Twitter Ihor Ostash, ambasciatore ucraino in Libano. Nel frattempo la Russia, secondo quanto riporta El Mundo (che a sua volta cita la televisione finlandese Yle), starebbe bruciando il gas in eccesso, che non esporta in Europa. Mentre il Pentagono ha annunciato una nuova tranche di aiuti militari da 1 miliardo di dollari. A Kiev altri lanciarazzi Himars, missili anticarro portatili Javelin e relative munizioni. Infine, dalla Banca mondiale arriveranno aiuti per 4,5 miliardi.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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