2021-07-26
Toni Capuozzo: «Senza famiglia e patria, crolla tutto»
Il giornalista: «L'Occidente ha perso slancio, ne è prova l'inverno demografico. Hai voglia a incentivare le nascite: abbiamo cresciuto generazioni di edonisti irresponsabili. La speranza sono le piccole comunità».Toni Capuozzo, storico inviato di guerra - anche se la definizione le è sempre stata un po' stretta -, come è messa questa Italia «così scassata e modesta, così difettosa e ingrata», come la descrive nel suo ultimo libro, Piccole patrie (Edizioni Biblioteca dell'Immagine)?«Ho visto generazioni cresciute nella convinzione che un altro mondo non solo fosse possibile, ma fosse a portata di mano. Come tutte le illusioni, questo ha provocato delusioni e anche qualche problema. Negli anni mi sono reso conto che non è importante provare a rivoluzionare il mondo, perché si rischia di fare dei disastri immani, ma tentare di mettere qualche cerotto sulle sue ferite. Il nostro è un Paese che ha tanti pregi, ma sarà sempre molto lontano dall'essere perfetto. Va guardato, aiutato e accompagnato, esattamente come si fa con gli anziani». Questo parallelo non è casuale, l'inverno demografico è uno dei mali del nostro Paese. «Hai voglia a discutere di aiuti alle famiglie. Quando c'è una situazione demografica di questo tipo, condivisa con tutto l'Occidente, vuol dire che si è perso slancio, si è smarrito l'entusiasmo. Abbiamo cresciuto delle generazioni estremamente concentrate su sé stesse, con delle giovinezze spinte molto in là nel tempo e scarsamente inclini alle responsabilità. La cultura edonista di cui si sono intrise e il vacillare della famiglia come istituto hanno inciso molto più di quanto abbiano fatto i provvedimenti sociali ed economici presi per incoraggiare la famiglia».Nel libro avvicina molto i concetti di famiglia e di patria. Se vacilla il primo, ne risente anche il secondo? «Credo esista una correlazione tra le due cose: quando la famiglia naturale perde la sua sacralità e smarrisce la caratteristica di prima cellula della società, a catena tutto il resto si indebolisce. Oggi è forte il sentimento di comunità, di piccole comunità».Le «piccole patrie», come le chiama lei.«Assolutamente complementari con la grande. Per me sono le piccole comunità in cui ritrovi i sapori dell'infanzia. L'imprinting diventa più forte nella vecchiaia. Del resto, le radici sono come un elastico: quando sei giovane ti lasciano andare alla ricerca del mondo, ma alla fine ti richiamano indietro».Lei è un appassionato dei film ambientati in carcere, meglio quando si concludono con un'evasione. Sembra la metafora di quello che stiamo vivendo con il Covid. Ci libereremo dell'incubo sanitario? Si parla già di quarta ondata, crede sia prematuro?«Di sicuro non usciremo da soli da questa crisi. Fino a quando ci sarà un angolo della Terra in cui il virus riesce a trasformarsi, la minaccia resterà presente. Più o meno lontana, ma comunque presente. La cosa più importante è imparare a convivere con la pandemia, che non vuol dire illudersi che tutto tornerà come prima, ma imparare a salvaguardare il Paese dal punto di vista sanitario senza distruggersi dal punto di vista sociale ed economico».Che cosa pensa dell'estensione del green pass? Viste le manifestazioni contrarie degli ultimi giorni, si può dire che non tutti l'hanno accolta con favore.«Sono favorevole, soprattutto per gli eventi di tipo culturale. E anche nei posti di lavoro, almeno quelli che prevedono il contatto con il pubblico. Credo sia un provvedimento ragionevole e di buon senso nella misura in cui consente di tenere aperto. Il lockdown era una misura molto facile, che non costava niente se non agli esercenti: si chiude e basta. L'ho sempre trovata una misura autoritaria e facile, da imperatori. Green pass e controllo delle aperture richiedono uno sforzo più grande e meno semplice: devi vaccinare e convincere le persone a farlo». Imponendo il green pass, la scelta di sottoporsi alla vaccinazione è davvero consapevole?«Credo che il pass sia un incentivo alla vaccinazione e mi sorprende il radicalismo di certe posizioni. Sono contrario a qualsiasi forma di discriminazione nei confronti delle persone che scelgono di non vaccinarsi, tranne che nel caso dei sanitari». Tra le persone senza vaccino non ci sono solo i no vax. Molti hanno dei dubbi causati dalla confusione comunicativa degli ultimi mesi, altri sono semplicemente spaventati. Che ne pensa delle posizioni, anche dure, espresse contro di loro?«Sono il primo a riconoscere che la vaccinazione è sì un esperimento fantastico, ma porta con sé anche alcuni punti di domanda: non c'è stato il tempo di sperimentare a lungo e i vaccini sono diversi tra loro. Insomma, siamo tutti un po' cavie. Io ho scelto di mettere i fattori sul piatto della bilancia: da un lato il mistero di un vaccino provato da milioni di persone prima di me; dall'altra la certezza che, se contagiato dal virus, sarei finito in terapia intensiva per via delle mie “fragilità". La bilancia pendeva dalla parte del vaccino».Cosa pensa della gestione della pandemia da parte del governo Draghi? «Mario Draghi è un uomo di esperienza, sta affrontando la pandemia con dignità e rigore. Senza troppi fanatismi. Non c'è governo al mondo che abbia la ricetta giusta, ma, per quanto riguarda l'aspetto sanitario, mi sembra una presidenza con un certo buon senso e la giusta razionalità».Pensa che queste qualità siano mancate nei primi mesi di emergenza, quando al timone c'era Giuseppe Conte? «L'ho scritto una volta sui social: “C'è un italiano felice, Conte". Avrebbe dovuto essere un curatore fallimentare, il premier di un governo nato solo per evitare una vittoria elettorale di Salvini. Poi è arrivata la pandemia, davanti alla quale si è mosso molto male, minimizzando prima e governando per decreti presidenziali poi. Sono convinto che in cuor suo, proprio come Winston Churchill alla fine della guerra, Conte pensi che gli italiani siano stati persino un po' ingrati con lui». Ora che l'attenzione è rivolta tutta all'emergenza sanitaria, alcuni temi sono scivolati in basso nell'agenda, come l'immigrazione. Eppure, a Lampedusa si continua a sbarcare. «Siamo figli di un Paese confuso: il centrodestra fa proposte surreali, come il blocco navale. Nel centrosinistra continua a prevalere la linea dei profeti dell'accoglienza, ma i sognatori fanno dei disastri quando governano, soprattutto se non sono capaci di trasformare i sogni in realtà pragmatiche e sostenibili». I recenti disordini nell'hotspot di Pozzallo, con gli immigrati che hanno appiccato un incendio per protesta, dimostrano che la situazione è ancora difficilmente governabile? «Per riportare l'immigrazione dentro canali legali si può fare solo una cosa: aprire le pratiche dei visti nei consolati. Chi governa deve fare delle previsioni sulle quote di immigrazione che possiamo realisticamente inserire ogni anno, salvo ovviamente i profughi di guerra. In questo modo saremmo in grado di ripartire le quote di nazionalità, permettendo a chi decide di lasciare il proprio Paese di viaggiare in maniera quantomeno sicura». E invece in mare si continua a morire, con l'Europa che fa spallucce sui ricollocamenti. Di fronte a una presenza massiccia di cittadini irregolari, l'integrazione è di fatto impossibile? «L'integrazione è un processo lungo. È fatta di posti di lavoro, di educazione e confronto. Se ci sono delle comunità che pensano di venire in Italia per guadagnare molto meglio e al tempo stesso sono convinte di mantenere i principi praticati nei loro Paesi quanto ai diritti della donna, minori e rapporto tra Stato e religione, si sbagliano di grosso». Nel libro si interroga sulle motivazioni che spingono un giornalista inviato in un posto piuttosto che in un altro. A 20 anni di distanza, ha mai capito che cosa la portò in piazza Alimonda, nei giorni del G8 di Genova?«Il caso. Solamente il caso. L'ho raccontato in una lettera tanti anni fa, in risposta a quanto sostenuto dal padre di Carlo Giuliani, convinto che io mi trovassi in piazza Alimonda perché al corrente di un piano. Quella del piano è una teoria che ritorna: “Cercavano il morto e Toni Capuozzo, che è intimo della polizia e dei servizi segreti, lo sapeva", hanno ripetuto tante volte». Ha vissuto e raccontato il G8 di Genova. Pensa che la sacralizzazione di quei giorni sia stata eccessiva nell'ultima settimana?«Senza dubbio. C'è stata una totale assenza di realismo. Ascoltando le ricostruzioni che sono state fatte in occasione dei 20 anni dal G8 di Genova, ho provato le stesse sensazioni di quando da ragazzo ho studiato la prima guerra mondiale: c'erano i gesti eroici, vero, ma anche le fucilazioni di chi non voleva andare all'assalto e la vita nelle trincee. C'era una realtà più complessa, per quanto semplice potesse sembrare. La stessa cosa sta succedendo con il G8, lo stanno raccontando ai ragazzi di oggi come se fosse la storia di Nazario Sauro e Cesare Battisti: solo retorica. A senso unico».
Massimo Cacciari (Getty Images)
Nel riquadro Roberto Catalucci. Sullo sfondo il Centro Federale Tennis Brallo