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Assieme a Alfio Krancic parliamo (con leggerezza) di ius scholae, Kamala Harris, Ucraina, Olimpiadi e altre follie.
Assieme a Alfio Krancic parliamo (con leggerezza) di ius scholae, Kamala Harris, Ucraina, Olimpiadi e altre follie.
Donald Trump resta, prima di tutto, un uomo d’affari. E quando guarda all’Europa vede un alleato incerto e un partner difficile, ma soprattutto un concorrente. Un soggetto che, nel suo calcolo, sta riducendo l’efficacia delle misure americane contro la Cina. Per questo il suo malumore verso Bruxelles cresce.
I dati delle Dogane cinesi, pubblicati l’8 dicembre, spiegano tutto. A novembre l’export della Cina è balzato del 5,9%, l’import è salito dell’1,9%, e il surplus mensile ha raggiunto 111,68 miliardi di dollari. Nei primi undici mesi dell’anno il surplus ha superato i mille miliardi, con un aumento del 22,1% rispetto al 2024. Numeri che indicano una Cina ancora in grado di muoversi con agilità nelle rotte globali. Con gli Stati Uniti, però, la situazione è opposta. Le esportazioni verso il mercato americano sono crollate del 28,6% a 33,8 miliardi, lontane dai 47,3 miliardi dell’anno precedente. I dazi restano al 47,5% medio sui prodotti cinesi. Una barriera altissima. Inevitabile che le aziende cinesi devino le vendite verso altri mercati.
Ed è qui che scatta l’irritazione di Trump. L’Europa assorbe ciò che l’America respinge. Lo scorso mese il flusso verso l’Ue infatti è cresciuto del 14,8%, secondo quanto riporta la Reuters. Un trend già evidente nel 2024, quando le esportazioni cinesi verso l’Europa avevano superato i 516 miliardi di dollari. L’Europa diventa così la valvola di compensazione della Cina. Quella che permette a Pechino di mantenere attivo il motore dell’export anche mentre gli Stati Uniti montano barriere.
Per Trump questa dinamica non è un incidente collaterale. È un problema strategico. Lui vede la scena in termini di competizione commerciale globale. Se gli Stati Uniti chiudono il loro mercato a un concorrente, lo fanno per ridurre la capacità di quel concorrente di crescere. Ma se un altro grande mercato, come l’Europa, raccoglie tutto ciò che l’America respinge, l’effetto dei dazi si diluisce. Washington alza un muro. Bruxelles costruisce un ponte. Risultato: il traffico scorre, solo spostandosi di qualche centinaio di chilometri.
È qui che si accende il Trump imprenditore. Nella sua visione, l’Europa si comporta come un «free rider commerciale»: beneficia del confronto tra Stati Uniti e Cina senza pagarne il costo politico. Acquista prodotti più economici, vede scendere i prezzi al consumo, non alza barriere, non si espone. In pratica, mantiene la Cina in piedi mentre gli Stati Uniti cercano di metterla alle corde. Da questa lettura derivano parte dei suoi attacchi sempre più duri verso Bruxelles. Non è un giudizio culturale sul Vecchio Continente. È una reazione da uomo di affari che vede i propri strumenti perdere potenza. E che percepisce l’Europa come un competitor passivo-aggressivo: non attacca, ma sottrae efficacia. Non sceglie il blocco americano, ma ne usa i risultati per garantirsi prezzi migliori. Il ragionamento di Trump si muove lungo due assi. Primo: la Cina va fermata. Secondo: nessun grande mercato deve aiutare Pechino a compensare il colpo. L’Europa lo sta facendo, anche se non dichiaratamente. Per questo, agli occhi di Trump, diventa un bersaglio. Non principale. Ma necessario. La pressione verso Bruxelles è un modo per riprendere il controllo del campo di gioco. Per chiudere anche la seconda uscita di sicurezza cinese. Per impedire che l’export deviato continui a trovare strade aperte.
Intanto la Cina procede. Il Politburo punta su più domanda interna, politiche fiscali attive e una monetaria accomodante. Ma la vera forza resta l’export. Le merci scorrono, cambiano rotta, si adattano. La guerra dei dazi non ha fermato la Cina. Ha ridisegnato le mappe. E nella nuova mappa l’Europa è il porto dove attraccano sempre più container cinesi. Trump, nel suo linguaggio pragmatico, vede esattamente questo. E reagisce. Perché per lui la partita non è ideologica. È una questione di affari. E in questa partita, la Cina resta l’avversario più importante.
Non ci sono solo il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il miliardario Elon Musk a puntare il dito contro il Vecchio Continente. Ora, a ricordare i malanni dell’Europa ci si mettono anche il numero uno di Jp Morgan, Jamie Dimon, e uno studio congiunto della European Round Table for Industry (Ert) e di The Conference Board, nota organizzazione che si occupa di ricerca economica.
Di recente, al coro di Trump e Musk si è unito uno che da molti è ritenuto il maggior banchiere al mondo, Jamie Dimon, secondo cui «l’Europa ha dei seri problemi. Ha scoraggiato le imprese, gli investimenti e l’innovazione». La preoccupazione principale di Dimon è che la lentezza della burocrazia e l’eccessiva regolamentazione abbiano soffocato la crescita, causando una riduzione della quota di Pil mondiale dell’Europa. Il banchiere sostiene che un mercato europeo snello e integrato sia essenziale per l’innovazione e la forza globale. Il punto è che un sondaggio di due realtà importanti come Ert e The Conference Board dà ragione a un «big» come Dimon. Stando a un sondaggio svolto tra il 16 e il 31 ottobre 2025 la fiducia degli amministratori delegati in Europa ha smesso di precipitare, ma resta in territorio negativo, mentre le motivazioni per investire nel continente continuano a diminuire rispetto agli Stati Uniti e ad altre aree del mondo.
La «Measure of Ceo Confidence for Europe» è a quota 44, dopo essere crollata a 27 nella primavera 2025 in concomitanza con le tensioni commerciali tra Ue e Usa. Il livello 50 rappresenta la neutralità: 44 implica che il sentiment è ancora chiaramente negativo. È la prima volta da quando esiste questa rilevazione che la fiducia dei ceo rimane sotto 50 per tre edizioni consecutive, segnalando un pessimismo che non è più solo ciclico.
Nello studio si sottolinea come il divario tra Europa e resto del mondo si stia ampliando. Le condizioni di business al di fuori del continente migliorano, mentre in Europa la traiettoria resta discendente, soprattutto per la debolezza delle prospettive di investimento e occupazione. In altri termini, il sondaggio registra un disallineamento crescente tra il potenziale percepito all’estero e quello disponibile nel mercato europeo.
Il punto più sensibile del report riguarda la geografia dei piani di investimento. Per l’Europa, solo una piccola quota di ceo intende investire più di quanto previsto sei mesi fa: appena l’8% dichiara di voler aumentare gli investimenti rispetto ai piani originari, mentre oltre un terzo ha ridotto i programmi o messo in pausa le decisioni in merito. Gli Stati Uniti, al contrario, registrano una dinamica opposta: il 45% dei ceo ha rivisto i propri piani per investire nel mercato americano più di quanto inizialmente previsto.
Il problema è che un anno fa, circa l’80% dei leader Ert esprimeva entusiasmo per le raccomandazioni di Mario Draghi sulla competitività europea, con l’idea che una loro piena implementazione avrebbe riportato gli investimenti verso l’Ue. Oggi la narrativa è capovolta: il 76% dei ceo afferma di aver visto poco o nessun impatto positivo dalle iniziative europee per tradurre in pratica le raccomandazioni Draghi e Letta su semplificazione regolatoria, completamento del mercato unico, politica di concorrenza e costo dell’energia.
All’interno dello studio, la Commissione europea ottiene un giudizio relativamente meno negativo: circa il 30% dei ceo riconosce progressi, ma il 60% si dichiara deluso. Il Parlamento europeo è percepito in modo ancora più critico, e i governi nazionali risultano i peggiori: il 74% dei ceo giudica «insufficiente» la performance degli Stati membri nel dare seguito alle raccomandazioni di Draghi e Letta. L’indagine insiste su un punto non banale: il tradizionale riflesso di imputare i ritardi a «Bruxelles» non regge più. Secondo i ceo, il collo di bottiglia principale è costituito dai governi nazionali riuniti in Consiglio, che rallentano o annacquano le riforme in nome di interessi domestici di breve periodo.
Viene, insomma, da sperare che le profezie del duo Trump-Musk non siano corrette. Secondo il presidente degli Stati Uniti, «nel giro di vent’anni l’Europa è destinata a sparire dalla scena», mentre per il miliardario ed ex vertice del Doge, il Dipartimento dell’efficienza governativa, creato durante il secondo mandato Trump, l’Unione europea «andrebbe smantellata, restituendo la piena sovranità ai singoli Stati, così che i governi tornino a rappresentare davvero i propri cittadini».
Musk ha messo nero su bianco queste posizioni in un post su X, pubblicato poche ore dopo la maximulta da 120 milioni di euro comminata da Bruxelles alla sua piattaforma per violazione del regolamento Ue che, da febbraio 2024, impone alle big tech nuovi obblighi di trasparenza e responsabilità sui contenuti. Si tratta della prima sanzione nell’ambito del Digital Services Act europeo. Inoltre, Musk ha fatto saltare l’intero pacchetto di spazi pubblicitari utilizzato dalla Commissione europea su X, accusandola di aver sfruttato in modo improprio una falla tecnica del sistema; subito dopo ha pubblicato un post in cui l’Unione europea veniva assimilata al «Quarto Reich», accompagnato da un fotomontaggio che affiancava la bandiera con le dodici stelle a una svastica.
Da Madame Chanel a Frau Blucher (per le referenze vedere Frankenstein junior) ci aspetta un futuro di rigore e l’avverarsi della profezia di Angela Merkel: ciò che è buono per la Germania è buono per l’Europa perché la Germania è l’Europa. Fin quando almeno Berlino non deciderà – ed è prospettiva tutt’altro che remota – di uscire dall’euro. In Italia sarebbe una mazzata per i vari Romano Prodi, Mario Monti, Mario Draghi, in ultimo Paolo Gentiloni, convinti che l’euro fosse il vincolo esterno che ci aiutava nello sviluppo, ma a conti fatti ce n’è forse abbastanza per dire che il vincolo esterno ha soffocato la crescita.
Isabel Godde coniugata Schnabel, 54 anni, nata a Dortmund dunque intrisa del carbone della Ruhr, capigliatura e carattere da fare invidia a Gutrune, l’eroina del wagneriano L’anello del Nibelungo, ha fatto una mossa a sorpresa: si candida alla successione di Christine Lagarde al vertice della Bce e soprattutto annuncia che farà di tutto per far rialzare i tassi. Il rigore è servito e l’en plein della Germania pure. Ha parlato con Bloomberg, che significa mandare un messaggio diretto ai mercati. Di cui peraltro lei si occupa. È donna potente e sta dal 2020 ai piani altissimi dell’Eurotower – è membro del consiglio direttivo e sorveglia il quantitative easing cioè l’acquisto titoli da parte della Bce: ai tedeschi il «whatever it takes» di Mario Draghi non è mai andato a genio – e si occupa delle banche. Da un decennio è uno dei cinque saggi che guidano la politica economica tedesca. Nessuno ovviamente ha mai pensato che la Bce faccia gli interessi della Germania, come quando la Schnabel prima si è opposta alla fusione tra Deutsche Bank e Commerzbank e poi si è messa di traverso alla scalata che Unicredit ha tentato alla banca tedesca. Così ieri a Bloomberg ha confidato: «Sia i mercati sia i partecipanti ai sondaggi si aspettano che la prossima mossa sui tassi sarà un rialzo, anche se non nell’immediato: mi trovo abbastanza a mio agio con queste aspettative». Ha anche spiegato il perché, al netto del fatto che tutti sanno che la nibelunga è una vestale del rigore. Il calo dell’inflazione di fondo si è arrestato, stanno crescendo i salari che sono il bersaglio preferito della Schnabel tutta welfare e moderazione, il contraccolpo atteso dai dazi americani è stato meno forte del previsto, ci sono politiche fiscali d’espansione dunque è logico attendersi un rialzo dell’inflazione e la Bce deve anticipare.
Isabel Schnabel gioca in contropiede: tutti si aspettavano un’ulteriore limatura dei tassi per sostenere un’economia oggettivamente asfittica nell’Eurozona; la crescita attesa per il 2026 è dell’1,2% contro il 5% della Cina, il 7% dell’India, il 2,2 degli Usa. Christine Lagarde – presidente che scade a ottobre del 2027 – aveva fatto capire che si doveva al massimo star fermi sui tassi. Ma la Schnabel va in direzione ostinata e patriotticamente contraria. Anche rispetto alle altre banche centrali: la Fed incalzata da Donald Trump annuncia tagli, così la Banca del Giappone che resta all’1% e del pari fa la Cina; tutti spingono sui tassi per dare ossigeno all’economia. Ma la Schnabel no. Confida a Bloomberg: «Se mi venisse chiesto di sostituire Christine Lagarde alla presidenza della Bce sarei pronta».
Se la Schnabel salisse in cima all’Eurotower i tedeschi avrebbero tutto: Ursula von der Leyen alla Commissione e la nibelunga alla Bce. Ma è la Schnabel che fa più comodo a Berlino. Da tempo si vocifera che la Germania lasci l’euro. Afd lo vuole, gli industriali ci pensano. Hanno scoperto che conviene loro produrre in Cina grazie alla Von der Leyen che proclama l’indipendenza energetica dalla Russia e se l’euro si rafforza loro pagano meno, in più costringono gli altri Paesi esportatori – l’Italia per prima – a vendere più caro. I comparti industriali degli europei che hanno meno interesse all’«offi-Cina» potrebbero essere indotti a emigrare: ad esempio in Usa visto che Donald Trump con i dazi vuole arrivare a reindustrializzare l’America. Una volta ottenuto questo risultato la Germania potrebbe sganciarsi dall’euro e tornando al marco devasterebbe gli altri partner e in particolare la Francia. Che nell’immediato ha tutto da temere da un rialzo dei tassi visto che ha il debito in forte ascesa. Anche Berlino sta facendo molto debito: potrebbe però a un certo punto ridenominarlo in marchi – solo i tedeschi possono permettersi un’uscita indolore dalla moneta unica – lasciando la patata di un euro bollente in mano agli altri. Perciò la Schnabel ha il compito di pompare l’euro alzando i tassi. Fanta-monetarismo? Può darsi, ma le parole e i simboli contano. La scultura che a Francoforte rappresenta l’euro è messa male: ha bisogno di restauro, ma né gli sponsor privati né il Comune hanno intenzione di mettere un euro per l’euro. Così deve pagare di tasca la Bce. Christine Lagarde su X ha provato a stoppare la polemica: «Siamo lieti di aver trovato una soluzione per garantire il futuro della scultura per le migliaia di persone che la visitano a Francoforte. L’euro incarna l’idea di un’Europa unita e simboleggia il lavoro della Bce». Di certo non per gli sponsor tedeschi che hanno già consumato l’euro-exit
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