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Tutti sono in fibrillazione per le tariffe annunciate dal presidente degli Stati Uniti. Che non sono frutto di chissà quale follia, ma di un ragionamento molto preciso. Come spiega Alberto Bagnai.
Tutti sono in fibrillazione per le tariffe annunciate dal presidente degli Stati Uniti. Che non sono frutto di chissà quale follia, ma di un ragionamento molto preciso. Come spiega Alberto Bagnai.
Sarà interessante ascoltare gli autorevoli commentatori che difendono la Costituzione «nata dall’antifascismo», ma hanno una gran voglia di menare le mani per farla pagare a Vladimir Putin e indirettamente a Donald Trump. Solo che gli italiani mandano a memoria l’articolo 11 e si adeguano: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». A dare manforte arrivano i contribuenti che intimano «basta soldi all’Ucraina» e i vescovi che in una nota della Cei riprendono don Milani, per dire: «La difesa della patria non si assicura solo con il ricorso alle armi, ma passa per la cura della civitas, attraverso l’obiezione di coscienza e il servizio civile».
Così il Censis nel suo rapporto - il 59° della serie - dedica un capitolo all’addio alle armi. Il 43% degli italiani disapprova un nostro intervento militare anche nel caso in cui un Paese alleato della Nato venisse attaccato. Il tanto invocato articolo 5 dell’Alleanza non piace a quasi un italiano su due. La faccenda diventa ancor più seria se si considera che ieri la Reuters ha fornito un’anticipazione dei colloqui che si sono avuti al Pentagono tra le due sponde dell’Atlantico. Gli americani hanno detto agli europei: «Dovete assumere la maggior parte della capacità di difesa convenzionale entro il 2027», aggiungendo, «siamo insoddisfatti degli impegni europei e perciò siamo pronti a smettere di partecipare ad alcuni meccanismi di coordinamento della difesa Nato». Ora bisogna cercare di convincere quel 66% (due italiani su tre) che al Censis ha detto: se per riarmarsi l’Italia dovesse tagliare la spesa sociale bisognerebbe rinunciare a rafforzare la difesa. Chissà se la baronessa Ursula von der Leyen ha mai riflettuto sul fatto che i cittadini potrebbero non essere d’accordo col riarmo. A maggior ragione se lo impone la von Truppen. Perché gli italiani hanno una scarsissima opinione dell’Europa. Il 62% è convinto che non abbia alcun ruolo decisivo sullo scacchiere globale, il 53% ritiene che l’Ue sia marginale in un mondo in cui vincono la forza e l’aggressività, anziché il diritto e l’autorità degli organismi internazionali. Oltre la metà degli italiani (il 55%) sostiene che l’Occidente è a fine corsa e a tirare oggi sono Cina e India. Se questo è il quadro si fa fatica a dare sostegno a Volodymyr Zelensky senza se e senza ma.
Sul punto si fa viva la Federcontribuenti che intima a governo e Palamento: «Fermate l’invio di fondi all’Ucraina destinati a sostenere uno sforzo bellico che, a oggi, ha già drenato oltre 1,2 miliardi di euro diretti dall’Italia e rischia di costare ai contribuenti italiani oltre 22 miliardi tra il 2025 e il 2026: 10 miliardi già nel 2025 e 12 miliardi nel 2026, secondo stime di previsione legate a spese Nato, aiuti Ue e fondi bilaterali». Federcontribuenti ricorda che 4 milioni di italiani rinunciano a curarsi, che il 40% delle scuole non è a norma, che una famiglia su dieci è in povertà, perciò è improponibile il baratto tra «welfare e armamenti» e che hanno chiuso 100.000 imprese. Da qui l’appello: «No all’abitudine alla guerra, sì alla dignità sociale ed economica degli italiani». Peraltro, i dati del rapporto Censis sono una conferma di un sentimento assai diffuso in Italia e già osservato in luglio dallo stesso istituto che aveva rilevato come solo il 16% sarebbe disposto a combattere, mentre il 39% si definisce pacifista e il 59% in caso di guerra - che metà degli italiani pensano possa essere scatenata dalla Russia mentre un terzo teme i Paesi islamici - lascerebbe l’Italia. Dunque, dai dati Censis, emerge un’esigenza di prudenza di governo e Parlamento sui temi del riarmo e della guerra.
Lo fa notare la Cei che proprio ieri ha diffuso le Conclusioni della Nota pastorale «Educare a una pace disarmata e disarmante». Scrivono i vescovi: «L’annuncio della pace esige un no deciso alla logica bellica e scelte coerenti con esso. Esige una testimonianza di speranza, uno stile di vita che abbia carattere dimostrativo e renda visibile, nell’abito esteriore e nel comportamento, l’aver scelto la pace come regola». I vescovi condannano con fermezza la corsa al riarmo e sottolineano: «La difesa, mai la guerra; occorre un rinnovato impegno internazionale per il controllo degli armamenti, sia tra i Paesi alleati che con i Paesi rivali». Ecco una «scomunica» all’Ue, a Ursula von der Leyen, a Friedrich Merz e a Emmanuel Macron lanciatissimi sui missili: «È un’istanza da promuovere anche a livello di Ue, la cui normativa è meno forte di quella italiana, e potrebbe essere ulteriormente allentata dal piano ReArm Europe. Occorre invece che l’Europa si faccia promotrice di una rinnovata cooperazione per un’agenzia unica per il controllo dell’industria militare interna e del commercio di armi con il resto del mondo». La prudenza di Giorgia Meloni sul decreto aiuti a Kiev e gli stimoli di Matteo Salvini e della Lega - che con Massimiliano Romeo ha ribadito: «Serve un provvedimento che guardi alle garanzie di sicurezza per Kiev nell’ambito del piano di pace Usa; una semplice proroga rischia di non essere allineata al percorso negoziale» - sembrano assai vicini al sentimento dei cittadini.
Madonne trans e rane crocifisse fatte vedere ai bambini. Una trovata che qualche esponente della sinistra nostrana magari proverebbe a emulare, proponendola come educazione artistica. Accade a Vienna, dove una discussa mostra dal titolo «Du Sollst dir ein Bild Machen», «Dovresti farti un’immagine», viene proposta come strumento didattico per i piccoletti.
Poco importa che la rassegna di arte e religione visitabile fino al prossimo 8 febbraio nella Künstlerhaus, la Casa degli artisti, sia un campionario di immagini blasfeme. Gli organizzatori hanno pensato a pacchetti educativi speciali, come quello «per asili nido e scuole primarie» che promette: «Insieme, intraprenderemo un emozionante viaggio di scoperta. Esploreremo in modo giocoso alcune opere d’arte selezionate e ne scopriremo dettagli sottili: cosa ci dicono ornamenti, colori e simboli nascosti? E come possiamo esprimere i nostri pensieri e sentimenti al riguardo?».
Difficile immaginare in quale modo si possa spiegare a una creatura di pochi anni perché il dipinto «Anch’io sono la Madre» di Sumi Anjuman, raffigurante una Madonna barbuta dalla carnagione scura con in braccio un bambinello bianco, vorrebbe dimostrare «quanto siano fluide le immagini della maternità» e che «anche gli uomini vorrebbero essere madri». Una lezione queer a tutti gli effetti.
«Si tratta di meravigliarsi, porsi domande, confrontare e creare!», insistono quei geni della Künstlerhaus. Chiedono ai bimbi dell’asilo: «Cosa collega le opere a noi stessi? E come possiamo esprimere i nostri pensieri e sentimenti al riguardo?». Papa Benedetto XVI si era già espresso nel 2008, definendo blasfema la scultura dell’artista Martin Kippenberger: una rana verde crocifissa, la lingua che sporge, un bicchiere di birra in una mano, nell’altra un uovo. Lo stesso orrore è riproposto a Vienna, nella visita guidata pure a pagamento, 7 euro a persona.
E quali impressioni potranno ricavare i piccini, turbati davanti all’obbrobrio della Pietà in chiave transgender dove l’unico elemento ben visibile è il membro maschile? «Quaint Sunday/Mary’s Penis No. 3», ovvero «Domenica bizzarra/il pene di Maria», opera di Anouk Lamm Anouk, è stata così presentata: «Maria trans e sanguinante tiene in braccio il corpo senza vita del figlio, che a sua volta tiene in braccio il pene della madre, un gesto che può essere letto come tenero e inquietante al tempo stesso. È un momento che inverte le dinamiche di potere tradizionali; il divino diventa corporeo e queer».
Pensate che la Chiesa austriaca sia riuscita a far chiudere questa galleria di offese alla religione cristiana? Niente affatto. Günther Oberhollenzer, direttore e curatore della mostra, e Tanja Prušnik, presidente di Künstlerhaus hanno invocato la libertà artistica «protetta dalla Costituzione austriaca» e così commentato: «Se un’opera d’arte sia provocatoria o meno spesso è una questione di chi la guarda».
Ma i bambini dell’asilo e della scuola materna possono solo subire certe immagini, che spirito critico possono mai avere?
Incredibili sono i commenti che arrivano dal mondo religioso. «La mostra testimonia l’infinita lotta per rendere in qualche modo giustizia al mistero di Dio, che si è inscritto in un mondo ferito», ha detto il vescovo di Innsbruck, Hermann Glettler, il monsignore che aveva fatto appendere un Crocifisso capovolto nella chiesa dell’ospedale con le braccia di Gesù a fare da lancette d’orologio. «Reinterpreta i motivi cristiani, in modo rispettoso, critico», sostiene Der Sonntag Wien, settimanale di cultura, fede e tradizione. «Le immagini ispirate al cristianesimo potrebbero aiutarci ad aprire gli occhi su una realtà terribile, minacciosa e violenta, ma in cui, allo stesso tempo, si possono scoprire meraviglia, amore, tenerezza e devozione», scrive Gustav Schörghofer, sacerdote gesuita.
Se a essere esposte fossero state opere irrispettose della religione islamica, la rassegna avrebbe chiuso i battenti dopo due giorni di isteriche condanne anche da parte della sinistra. E, magari, pure da parte dei vescovi.
Viva l’Europa, abbasso l’Unione europea. È la sintesi brutale ma efficace della dottrina di Donald Trump, esposta in un documento di una trentina di pagine, datato novembre 2025, che la Casa Bianca ha diffuso ieri. A bistrattare Bruxelles ci hanno già pensato diversi esponenti dell’amministrazione americana: il segretario di Stato, Marco Rubio, ha rifiutato d’incontrare l’omologa, Kaja Kallas, a Washington; il suo vice, Christopher Landau, ha rinfacciato a Federica Mogherini, già Alto rappresentante Ue, ora sotto inchiesta, di essere stata un’estimatrice del regime castrista; JD Vance, dopo il discorso di Monaco di febbraio, durissimo con l’Unione, ha contestato la multa da 120 milioni comminata a X per violazione del Dsa. In realtà, a suo parere, per il rifiuto della piattaforma di «impegnarsi nella censura».
La diagnosi dei mali del Vecchio continente, contenuta nel faldone, è severa. Il testo denuncia «le attività dell’Unione europea e di altri corpi transnazionali, che minano la libertà e la sovranità politiche», nonché «le politiche migratorie», «la repressione della libertà d’espressione e la soppressione dell’opposizione politica», la «voragine» che si è aperta nei tassi di natalità, «la perdita delle identità nazionali e della fiducia in sé stessi». «Se le attuali tendenze dovessero continuare», è la profezia apocalittica, «il continente sarà irriconoscibile entro 20 anni, se non meno».
«area vitale per noi»
Persino le frizioni con la Russia vengono attribuite allo smarrimento culturale dell’Europa, la quale godrebbe di un «significativo vantaggio nel potere coercitivo», tale da consentirle una certa tranquillità. Perciò gli Stati Uniti intendono profondere sforzi diplomatici, «sia per ripristinare condizioni di stabilità strategica nell’area euroasiatica, sia per mitigare il rischio di un conflitto tra la Russia e gli Stati europei». Anche perché il conflitto in Ucraina ha aggravato le «dipendenze esterne» dei Paesi Ue, Germania in primis: le sue aziende sono arrivate a delocalizzare in Cina per «usare il gas russo che non possono ottenere in patria».
L’accusa nei confronti delle élite del Vecchio continente è pesante: «Una vasta maggioranza degli europei vuole la pace, eppure quel desiderio non viene tradotto in politiche, in larga misura perché quei governi hanno sovvertito il processo democratico». È facile cogliere l’allusione alla conventio ad excludendum dei partiti di sistema nei confronti di Afd in Germania e del Rassemblement national in Francia. L’amministrazione, pertanto, dice di trovarsi in disaccordo «con i funzionari europei, che nutrono aspettative irrealistiche rispetto alla guerra, fondate su governi di minoranza instabili».
L’insofferenza per l’involuzione dell’Unione europea, d’altronde, non impedisce al documento di riconoscere che «l’Europa rimane strategicamente e culturalmente vitale per gli Stati Uniti». E che sarà cruciale «promuovere la grandezza europea». Purché l’Europa impari a difendersi da sé, a «reggersi in piedi da sola». E purché si ponga fine alla «percezione» - evitando che diventi realtà - che la Nato sia «un’alleanza in perpetuo allargamento». Stando al retroscena di Reuters, Washington vorrebbe che l’Ue ne assuma la guida entro il 2027.
Il senso del «corollario Trump» alla dottrina Monroe, della quale il presidente americano ha celebrato giusto quattro giorni fa i 250 anni, sta qui. Non si tratta, semplicemente, di respingere ogni ingerenza negli affari del continente americano, bensì di rivendicare l’emisfero occidentale quale sfera d’influenza degli Usa, contrastando l’influenza russa e cinese, il narcotraffico, impiegando dazi e minaccia della forza come strumenti di pressione e agendo per contenere l’espansione delle potenze ostili, affinché non intacchino gli interessi vitali di Washington.
l’indo-pacifico
Trump vuole che la sua politica estera sia «pragmatica senza essere “pragmatista”, realistica senza essere “realista”», semmai improntata a una forma di «realismo flessibile»; e, ancora, che essa riposi su dei principi «senza essere “idealista”», che sia «muscolare senza essere “da falchi” e misurata senza essere “da colombe”». Poca ideologia, molti fatti, che concorrano all’obiettivo di mettere «l’America al primo posto», «America first». Perciò va corretta la tracotanza degli egemoni americani post Guerra fredda. «Gli Stati Uniti», proclama la Casa Bianca, «respingono il concetto fallimentare di dominio globale» e non hanno più intenzione di «sprecare sangue e denaro per limitare l’influenza di tutte le grandi e medie potenze del mondo». Niente più poliziotti del mondo. Si dovrà ricalibrare la presenza militare Usa nelle varie aree geografiche, «per affrontare le minacce urgenti nel nostro emisfero». Tenendosi lontani «da teatri la cui importanza relativa per la sicurezza nazionale americana è diminuita». Il tutto, sullo sfondo di una «propensione al non intervento», pur nella convinzione che si debba mantenere «la pace attraverso la forza».
Kiev e Bruxelles sono avvisate. Perché, nonostante il giuramento di fedeltà all’Europa e al Regno Unito, ancorché accompagnato dalla pretesa di più contributi alle spese militari e più equità nei rapporti commerciali, il nucleo degli interessi Usa non è in Europa. È nell’Indo-Pacifico. Quell’area che produce già «quasi la metà del Pil mondiale a parità di potere d’acquisto» e la cui quota di ricchezza planetaria, nel XXI secolo, «di certo crescerà». La priorità dell’amministrazione statunitense sarà interrompere le strategie industriali e commerciali «predatorie», il furto di proprietà intellettuale nel campo tecnologico, le minacce alla catena di approvvigionamento di materie prime, il flusso di fentanyl e la guerra ibrida e psicologica portata avanti da Pechino. Trump ha ormai smontato l’illusione dei suoi predecessori: che «aprendo i nostri mercati alla Cina, incoraggiando le imprese americane a investire in Cina e spostando la nostra manifattura in Cina, avremmo facilitato l’ingresso della Cina nel cosiddetto “ordine internazionale basato sulle regole”».
Come invertire la rotta? La Casa Bianca si propone di «arruolare» i suoi alleati, cioè di esigere da loro - Giappone, Corea, la stessa Europa - una completa collaborazione e una crescente responsabilizzazione sul piano militare. Dopodiché, bisognerà «allargare» la rete di Paesi amici dell’America. Sembra un’eco della teoria del politologo cinese Yan Xuetong, molto ascoltato da Xi Jinping e convinto che la competizione tra grandi potenze sarà decisa dalla loro capacità di attrarre sostegno sullo scacchiere. Di certo, se per The Donald l’Ucraina è periferica, Taiwan è invece centrale. L’avviso a Pechino è cristallino: «Gli Stati Uniti non supportano alcun cambiamento unilaterale dello status quo».
Anche il Medio Oriente e, soprattutto, l’Africa, paiono meno rilevanti agli occhi di Trump. Soddisfatto della tregua a Gaza («Negli ultimi nove mesi», scrive nell’introduzione il presidente, «abbiamo salvato la nazione e il mondo dall’orlo della catastrofe e del disastro»), dell’indebolimento dell’Iran e della stabilizzazione della Siria, il tycoon confida di porre termine all’era «in cui il Medio Oriente dominava la politica estera americana». Nel continente nero, intanto, gli Usa cercheranno di sostituire, al «paradigma degli aiuti esteri», quello degli investimenti e della crescita.
droga, woke, nazioni
Il documento uscito ieri, però, aiuta altresì a comprendere la filosofia che ispira la politica interna di Trump. Se l’obiettivo ultimo della sua strategia è conservare la sovranità e la prosperità degli Usa, per mantenere una influenza determinante sull’emisfero occidentale e limitare le ambizioni degli avversari, si capisce per quale motivo siano così essenziali il controllo dei confini e la lotta ai fattori di sgretolamento della società: la droga, il woke, la cappa ideologica, la deindustrializzazione. «America first», poi, significa ripensare la funzione delle «più intrusive organizzazioni transnazionali», le quali saranno tenute a «favorire anziché danneggiare la sovranità». Si spiegano le scintille con l’Onu e l’Oms. È il principio del «primato delle nazioni», che dovrebbe far scoppiare la bolla del multilateralismo europeo. Un bel sogno infranto. Oppure un incubo dal quale ci dobbiamo risvegliare.
Il governatore della banca centrale indiana, Sanjay Malhotra, parla di un raro «momento Goldilocks» - crescita forte e inflazione quasi nulla - e ritocca al rialzo le stime nonostante i dazi Usa al 50%.
L’India approfitta della combinazione, rara per qualunque economia avanzata o emergente, di crescita esplosiva e inflazione quasi nulla. La Reserve Bank of India ha annunciato un nuovo taglio dei tassi di un quarto di punto, portando il benchmark al 5,25%. È il quarto intervento da quando Sanjay Malhotra è diventato governatore a fine 2024: in un anno l’istituto ha ridotto il costo del denaro complessivamente di 1,25 punti.
La decisione arriva dopo i dati ufficiali diffusi la scorsa settimana, che certificano un’espansione dell’8,2% nel trimestre chiuso a settembre. Numeri che mostrano come l’economia indiana abbia finora assorbito senza scosse l’impatto dei dazi al 50% imposti dagli Stati Uniti sulle esportazioni di Nuova Delhi.
Un sostegno decisivo è arrivato dal crollo dell’inflazione: dal sopra il 6% registrato nel 2024 a livelli prossimi allo zero. Un calo che, secondo gli analisti, offre ulteriore margine per nuovi tagli nei prossimi mesi. «Nonostante un contesto esterno sfavorevole, l’economia indiana ha mostrato una resilienza notevole», ha dichiarato Malhotra, pur avvertendo che la crescita potrebbe «attenuarsi leggermente». Ma la combinazione di espansione superiore alle attese e inflazione «benigna» nel primo semestre fiscale rappresenta, ha aggiunto, «un raro periodo Goldilocks».
Sulla scia dell’ottimismo, l’RBI ha rivisto al rialzo la stima di crescita per l’anno fiscale che si chiuderà a marzo: +7,3%, mezzo punto in più rispetto alle previsioni precedenti.
La reazione dei mercati è stata immediata: la Borsa di Mumbai ha chiuso in rialzo (Sensex +0,2%, Nifty 50 +0,3%), mentre la rupia si è indebolita dello 0,4% superando quota 90 sul dollaro, molto vicino ai minimi storici toccati due giorni prima. La valuta indiana è la peggiore d’Asia dall’inizio dell’anno. Malhotra ha ribadito che la banca centrale non persegue un tasso di cambio specifico: «Il nostro obiettivo è solo ridurre volatilità anomala o eccessiva».
Il Paese, fortemente trainato dalla domanda interna, risente meno di altri dell’offensiva tariffaria voluta da Donald Trump, che ad agosto ha raddoppiato i dazi sui prodotti indiani come ritorsione per gli acquisti di petrolio russo scontato. Una rupia debole, inoltre, aiuta alcuni esportatori a restare competitivi. Tuttavia, gli analisti prevedono che gli effetti più pesanti della guerra commerciale si vedranno nell’attuale trimestre e invitano a prudenza anche sulla recente lettura del Pil.
Tra gli obiettivi politici di lungo periodo rimane quello fissato dal premier Narendra Modi: diventare un Paese «sviluppato» entro il 2047, centenario dell’indipendenza. Per riuscirci, servirebbe una crescita media dell’8% l’anno. Il governo ha avviato negli ultimi mesi una serie di riforme strutturali - dalla semplificazione dell’imposta su beni e servizi alla revisione del codice del lavoro - per proteggere l’economia dagli shock esterni.
Malhotra aveva assunto la guida dell’RBI in una fase di rallentamento economico e inflazione oltre il tetto del 6%. Da allora ha accelerato sul fronte monetario: tre tagli consecutivi nei primi mesi del 2025 per un punto percentuale complessivo. L’inflazione retail di ottobre si è fermata allo 0,25% annuo.
Il governatore ha annunciato anche un intervento di liquidità: operazioni di mercato aperto per 1.000 miliardi di rupie e swap dollaro-rupia per 5 miliardi di dollari, per sostenere il sistema finanziario.

