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2024-08-22
Il tifo ipocrita di Obama per la Harris cela i timori dem sui veri sondaggi
Barack e Michelle Obama (Ansa)
Le celebrazioni a reti unificate della Convention dem non si fermano. Tutti in sollucchero per i discorsi tenuti, martedì sera, dai coniugi Obama. Tutti a parlare di un Partito democratico unito attorno a una candidata formidabile, quale sarebbe Kamala Harris. Addirittura, c’è chi si è spinto a parlare di «spirito del 2008», lasciando intendere che la vicepresidente potrebbe ripercorrere le orme della storica campagna elettorale che portò proprio Barack Obama, quell’anno, alla Casa Bianca. Bene, cerchiamo di andare un po’ oltre questa stucchevole melassa mediatica.
Innanzitutto, lo «spirito del 2008» non c’entra nulla con la Harris. Nel 2008, Obama condusse una campagna antisistema, correndo contro l’establishment dem, rappresentato da Hillary Clinton, e contro quello di Washington, capitanato all’epoca dal repubblicano John McCain. Oggi accade invece l’esatto opposto: lo stesso establishment dem (da cui Obama, negli anni, si è lasciato man mano assorbire, fino a divenirne in buona sostanza il dominus) ha silurato opacamente un presidente, che aveva ottenuto 14 milioni di voti alle primarie, sostituendolo meccanicamente con la sua vice e bypassando così del tutto la volontà popolare. Senza dimenticare che l’attuale vicepresidente ha sempre puntato le sue carte elettorali sull’ «identity politics»: il contrario di quanto fatto, proprio nel 2008, da Obama, che volle evitare di ripetere gli errori della fallimentare «Rainbow Coalition», messa in piedi dal reverendo Jesse Jackson nel 1984.
In secondo luogo, non si può non scorgere una certa ipocrisia da parte dell’ex presidente dem. Certo, a lui tutto viene perdonato. Persino se scade nel sessismo, quando, con un gesto, parlando della «strana ossessione di Trump per la dimensione delle folle», allude alla scarsa virilità dello sfidante del Gop. Dopodiché, martedì Obama ha definito Joe Biden un «fratello» dopo averlo messo sotto pressione per spingerlo al ritiro. Anche il suo sperticato elogio della Harris cela qualche contraddizione. «L’America è pronta per un nuovo capitolo. L’America è pronta per una storia migliore. Siamo pronti per una presidente Kamala Harris», ha affermato. Eppure, dopo aver manovrato con successo per silurare Biden, Obama non voleva che fosse rimpiazzato dalla sua vice. Le carte su cui puntava erano altre, a partire probabilmente dal governatore della California, Gavin Newsom. Non dimentichiamo che Obama ha atteso molti giorni prima di dare il proprio endorsement alla Harris. Senza trascurare che, il giorno successivo all’annuncio dell’addio elettorale di Biden, l’ex senior advisor dello stesso Obama, David Axelrod, si oppose a una successione meccanica, invocando un «processo aperto» per selezionare il nuovo candidato. Una richiesta simile era arrivata, poco prima, anche da Nancy Pelosi: segno quindi che, in origine, né Obama né l’ex Speaker nutrivano simpatia per un’eventuale discesa in campo della Harris. Inoltre, a destare perplessità è anche un passaggio, mediaticamente assai enfatizzato, dell’intervento di Michelle Obama. «La speranza sta tornando», ha detto, tessendo le lodi della candidata dem. Peccato che la Harris sia in carica da quasi quattro anni. E che, ancora oggi, abbia un grado di approvazione, come numero due della Casa Bianca, di appena il 41% a fronte di un grado di disapprovazione del 49%.
Un terzo elemento da sottolineare è che la Convention in corso a Chicago appare quasi completamente fondata sull’antitrumpismo. «L’opposizione a Trump è la forza unificante della Convention nazionale dem», ha scritto ieri Politico. Basta ascoltare la maggior parte degli interventi finora tenutisi, soprattutto quelli di Obama e della Clinton. «Trump vede il potere come nient’altro che un mezzo per raggiungere i suoi fini», ha tuonato l’ex presidente dem, mentre la Clinton, lunedì, aveva bollato il tycoon come un pericolo per lo Stato di diritto. L’apoteosi è stata poi rappresentata dal fatto che, a esultare alla Convention, c’era anche Letitia James: la procuratrice generale di New York, che intentò una causa civile contro la Trump Organization. Sia chiaro: è normale che alla Convention dem si critichi il candidato repubblicano e lo stesso Trump non è uno che risparmia strali all’avversaria. Il punto è che, oltre all’antitrumpismo, non si capisce quali siano gli altri fattori coesivi in seno all’Asinello. I dem centristi restano irritati per il fatto che la Harris abbia scelto Tim Walz, anziché Josh Shapiro, come proprio vice. I fedelissimi di Biden hanno storto il naso dopo che il discorso del presidente, lunedì, è stato fatto slittare a tarda notte. Infine, nonostante le numerose concessioni che la Harris ha fatto loro, i manifestanti dell’estrema sinistra pro Palestina continuano a essere sul piede di guerra. Oltre alle proteste che hanno organizzato a Chicago domenica e lunedì, l’altro ieri hanno anche interrotto un evento del Women's Caucus, a cui stava parlando Walz.
Insomma, di unità vera ce n’è poca. E qui emerge un passaggio significativo del discorso di Obama. «Questa sarà comunque una gara serrata in un Paese diviso in due», ha detto. Parole molto indicative, che stridono con l’euforia mediatica, costruita negli scorsi giorni attorno alla candidata dem. D’altronde, lunedì, Chauncey McLean, presidente del Super Pac pro Harris Future Forward, ha affermato che, per la Harris, i sondaggi riservati risulterebbero «molto meno rosei» di quelli pubblicati nelle ultime settimane. Tra divisioni interne e timori sondaggistici, la panna montata mediatica, che circonda la candidata dem, rischia quindi di sgonfiarsi a breve.
Trump aspetta l’assist di Kennedy
Durante la Convention nazionale dem di Chicago, Donald Trump non è rimasto con le mani in mano. Il tycoon ha infatti scelto di dare battaglia negli Stati chiave, a partire da quelli della Rust Belt: l’area in cui probabilmente saranno decise le elezioni di novembre. Lunedì ha tenuto un comizio in Pennsylvania, mentre martedì si è recato in Michigan. Il suo candidato vice, JD Vance, ha invece partecipato a un evento elettorale in Wisconsin. Ieri, entrambi hanno inoltre visitato il North Carolina. Un tour de force significativo, che la campagna di Kamala Harris ha cercato di mettere nel mirino. In particolare, la candidata dem ha criticato il rivale per essersi recato a Howell: cittadina del Michigan, storicamente collegata al Ku Klux Klan, in cui, a fine luglio, una dozzina di suprematisti bianchi aveva inscenato una manifestazione. La campagna del tycoon ha replicato, ricordando che anche Joe Biden, a ottobre 2021, visitò Howell, per presentare il proprio piano infrastrutturale.
Come che sia, al di là delle polemiche, i colletti blu della Rust Belt restano centrali. La media sondaggistica di Real Clear Politics mostra come la Harris - in Michigan, Pennsylvania e Wisconsin - abbia al momento un vantaggio assai inferiore rispetto a quello detenuto da Biden e Hillary Clinton rispettivamente ad agosto 2020 e ad agosto 2016. Non solo. Chauncey McLean, presidente del Super Pac pro Harris Future Forward, ha ammesso che, per la candidata dem, i sondaggi riservati «sono molto meno rosei» di quelli pubblici. Senza poi trascurare che il sito di scommesse in criptovalute, Polymarket, è tornato a dare in vantaggio Trump negli ultimi giorni. Questo poi ovviamente non significa che per l’ex presidente la situazione sia tutta rose e fiori. Non solo la Harris ha finora raccolto 500 milioni di dollari in fondi elettorali, ma Trump deve fare anche attenzione in North Carolina, dove ha pericolosamente perso terreno. La partita, insomma, è aperta, come lo è sempre stata (sì, anche quando il candidato dem era Biden, almeno fino al disastroso dibattito televisivo del 27 giugno).
Ma la campagna del tycoon non sta soltanto battendo palmo a palmo gli Stati chiave. È anche probabilmente in trattative per ottenere l’endorsement di Robert Kennedy jr, che sta attualmente correndo da indipendente. Martedì, la candidata vice di Kennedy, Nicole Shanahan, ha rivelato che il diretto interessato starebbe valutando di fare un passo indietro e di dare l’appoggio al candidato repubblicano. Trump, dal canto suo, ha colto subito la palla al balzo, dicendosi aperto alla possibilità di riservare al figlio di Bob Kennedy un ruolo in una sua futura amministrazione. Del resto, che i due si stessero avvicinando, non era esattamente un mistero. A luglio, fu diffuso il video di una telefonata tra lo stesso Kennedy, noto antivaccinista, e Trump, in cui quest’ultimo esprimeva proprio dei dubbi sui vaccini. Va anche detto che, alcuni giorni fa, il Washington Post ha riportato che il candidato indipendente avrebbe cercato di mettersi in contatto con il team della Harris per ottenere un incarico in un’eventuale nuova amministrazione dem. D’altronde, la campagna di Kennedy è ormai in forte difficoltà, avendo meno di quattro milioni di dollari in cassa.
Ma che cosa accadrebbe se Kennedy, attualmente dato da Fivethirtyeight al 5% a livello nazionale, si ritirasse e sostenesse Trump? Alcuni ritengono che un simile scenario favorirebbe la Harris, visto che il nome Kennedy è ancora di richiamo per una parte della sinistra americana: sinistra che, tra le altre cose, è piuttosto vicina al figlio di Bob soprattutto sull’ambientalismo. Se quindi lui restasse in campo, ragiona questa scuola di pensiero, rosicchierebbe voti alla vicepresidente. Ciò detto, attenzione: lo scorso 10 agosto, The Hill ha riferito di sondaggi secondo cui, con l’uscita di scena di Biden, la presenza di Kennedy nella corsa danneggerebbe più Trump che la Harris. Nelle ultime tre settimane, l’ex presidente ha registrato performance sondaggistiche migliori, sia a livello nazionale sia a livello statale, in assenza di Kennedy. Secondo The Hill, senza di lui, il tycoon guadagnerebbe oggi quasi quattro punti in Michigan. Certo, qualora il candidato indipendente si unisse a Trump, a quest’ultimo verrà chiesto conto di quando, alcuni mesi fa, lo bollava come un radicale di estrema sinistra. Tuttavia il pur non enorme pacchetto di voti detenuto da Kennedy non può non far gola all’ex presidente.
Non è neppure escluso, da questo punto di vista, che l’avvicinamento tra i due sia stato mediato da Elon Musk, che intrattiene buoni rapporti con entrambi. Tra l’altro, Trump ha di recente aperto all’ipotesi di offrire anche al Ceo di Tesla un incarico nella propria amministrazione. E lui si è già detto disponibile.
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Alla Convention, l’ex presidente e la moglie lodano la candidata, di cui hanno ostacolato la nomina. Evocano lo «spirito del 2008», come se ora a tirare le fila non sia l’establishment. Unito soltanto dall’anti trumpismo.Tour negli Stati chiave di JD Vance e del tycoon, che confida nel ritiro dell’indipendente e gli offre un posto nell’amministrazione. Nella sua squadra entrerebbe anche Elon Musk.Lo speciale contiene due articoli.Le celebrazioni a reti unificate della Convention dem non si fermano. Tutti in sollucchero per i discorsi tenuti, martedì sera, dai coniugi Obama. Tutti a parlare di un Partito democratico unito attorno a una candidata formidabile, quale sarebbe Kamala Harris. Addirittura, c’è chi si è spinto a parlare di «spirito del 2008», lasciando intendere che la vicepresidente potrebbe ripercorrere le orme della storica campagna elettorale che portò proprio Barack Obama, quell’anno, alla Casa Bianca. Bene, cerchiamo di andare un po’ oltre questa stucchevole melassa mediatica.Innanzitutto, lo «spirito del 2008» non c’entra nulla con la Harris. Nel 2008, Obama condusse una campagna antisistema, correndo contro l’establishment dem, rappresentato da Hillary Clinton, e contro quello di Washington, capitanato all’epoca dal repubblicano John McCain. Oggi accade invece l’esatto opposto: lo stesso establishment dem (da cui Obama, negli anni, si è lasciato man mano assorbire, fino a divenirne in buona sostanza il dominus) ha silurato opacamente un presidente, che aveva ottenuto 14 milioni di voti alle primarie, sostituendolo meccanicamente con la sua vice e bypassando così del tutto la volontà popolare. Senza dimenticare che l’attuale vicepresidente ha sempre puntato le sue carte elettorali sull’ «identity politics»: il contrario di quanto fatto, proprio nel 2008, da Obama, che volle evitare di ripetere gli errori della fallimentare «Rainbow Coalition», messa in piedi dal reverendo Jesse Jackson nel 1984.In secondo luogo, non si può non scorgere una certa ipocrisia da parte dell’ex presidente dem. Certo, a lui tutto viene perdonato. Persino se scade nel sessismo, quando, con un gesto, parlando della «strana ossessione di Trump per la dimensione delle folle», allude alla scarsa virilità dello sfidante del Gop. Dopodiché, martedì Obama ha definito Joe Biden un «fratello» dopo averlo messo sotto pressione per spingerlo al ritiro. Anche il suo sperticato elogio della Harris cela qualche contraddizione. «L’America è pronta per un nuovo capitolo. L’America è pronta per una storia migliore. Siamo pronti per una presidente Kamala Harris», ha affermato. Eppure, dopo aver manovrato con successo per silurare Biden, Obama non voleva che fosse rimpiazzato dalla sua vice. Le carte su cui puntava erano altre, a partire probabilmente dal governatore della California, Gavin Newsom. Non dimentichiamo che Obama ha atteso molti giorni prima di dare il proprio endorsement alla Harris. Senza trascurare che, il giorno successivo all’annuncio dell’addio elettorale di Biden, l’ex senior advisor dello stesso Obama, David Axelrod, si oppose a una successione meccanica, invocando un «processo aperto» per selezionare il nuovo candidato. Una richiesta simile era arrivata, poco prima, anche da Nancy Pelosi: segno quindi che, in origine, né Obama né l’ex Speaker nutrivano simpatia per un’eventuale discesa in campo della Harris. Inoltre, a destare perplessità è anche un passaggio, mediaticamente assai enfatizzato, dell’intervento di Michelle Obama. «La speranza sta tornando», ha detto, tessendo le lodi della candidata dem. Peccato che la Harris sia in carica da quasi quattro anni. E che, ancora oggi, abbia un grado di approvazione, come numero due della Casa Bianca, di appena il 41% a fronte di un grado di disapprovazione del 49%.Un terzo elemento da sottolineare è che la Convention in corso a Chicago appare quasi completamente fondata sull’antitrumpismo. «L’opposizione a Trump è la forza unificante della Convention nazionale dem», ha scritto ieri Politico. Basta ascoltare la maggior parte degli interventi finora tenutisi, soprattutto quelli di Obama e della Clinton. «Trump vede il potere come nient’altro che un mezzo per raggiungere i suoi fini», ha tuonato l’ex presidente dem, mentre la Clinton, lunedì, aveva bollato il tycoon come un pericolo per lo Stato di diritto. L’apoteosi è stata poi rappresentata dal fatto che, a esultare alla Convention, c’era anche Letitia James: la procuratrice generale di New York, che intentò una causa civile contro la Trump Organization. Sia chiaro: è normale che alla Convention dem si critichi il candidato repubblicano e lo stesso Trump non è uno che risparmia strali all’avversaria. Il punto è che, oltre all’antitrumpismo, non si capisce quali siano gli altri fattori coesivi in seno all’Asinello. I dem centristi restano irritati per il fatto che la Harris abbia scelto Tim Walz, anziché Josh Shapiro, come proprio vice. I fedelissimi di Biden hanno storto il naso dopo che il discorso del presidente, lunedì, è stato fatto slittare a tarda notte. Infine, nonostante le numerose concessioni che la Harris ha fatto loro, i manifestanti dell’estrema sinistra pro Palestina continuano a essere sul piede di guerra. Oltre alle proteste che hanno organizzato a Chicago domenica e lunedì, l’altro ieri hanno anche interrotto un evento del Women's Caucus, a cui stava parlando Walz.Insomma, di unità vera ce n’è poca. E qui emerge un passaggio significativo del discorso di Obama. «Questa sarà comunque una gara serrata in un Paese diviso in due», ha detto. Parole molto indicative, che stridono con l’euforia mediatica, costruita negli scorsi giorni attorno alla candidata dem. D’altronde, lunedì, Chauncey McLean, presidente del Super Pac pro Harris Future Forward, ha affermato che, per la Harris, i sondaggi riservati risulterebbero «molto meno rosei» di quelli pubblicati nelle ultime settimane. Tra divisioni interne e timori sondaggistici, la panna montata mediatica, che circonda la candidata dem, rischia quindi di sgonfiarsi a breve.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/tifo-ipocrita-obama-per-harris-2669002168.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="trump-aspetta-lassist-di-kennedy" data-post-id="2669002168" data-published-at="1724264609" data-use-pagination="False"> Trump aspetta l’assist di Kennedy Durante la Convention nazionale dem di Chicago, Donald Trump non è rimasto con le mani in mano. Il tycoon ha infatti scelto di dare battaglia negli Stati chiave, a partire da quelli della Rust Belt: l’area in cui probabilmente saranno decise le elezioni di novembre. Lunedì ha tenuto un comizio in Pennsylvania, mentre martedì si è recato in Michigan. Il suo candidato vice, JD Vance, ha invece partecipato a un evento elettorale in Wisconsin. Ieri, entrambi hanno inoltre visitato il North Carolina. Un tour de force significativo, che la campagna di Kamala Harris ha cercato di mettere nel mirino. In particolare, la candidata dem ha criticato il rivale per essersi recato a Howell: cittadina del Michigan, storicamente collegata al Ku Klux Klan, in cui, a fine luglio, una dozzina di suprematisti bianchi aveva inscenato una manifestazione. La campagna del tycoon ha replicato, ricordando che anche Joe Biden, a ottobre 2021, visitò Howell, per presentare il proprio piano infrastrutturale. Come che sia, al di là delle polemiche, i colletti blu della Rust Belt restano centrali. La media sondaggistica di Real Clear Politics mostra come la Harris - in Michigan, Pennsylvania e Wisconsin - abbia al momento un vantaggio assai inferiore rispetto a quello detenuto da Biden e Hillary Clinton rispettivamente ad agosto 2020 e ad agosto 2016. Non solo. Chauncey McLean, presidente del Super Pac pro Harris Future Forward, ha ammesso che, per la candidata dem, i sondaggi riservati «sono molto meno rosei» di quelli pubblici. Senza poi trascurare che il sito di scommesse in criptovalute, Polymarket, è tornato a dare in vantaggio Trump negli ultimi giorni. Questo poi ovviamente non significa che per l’ex presidente la situazione sia tutta rose e fiori. Non solo la Harris ha finora raccolto 500 milioni di dollari in fondi elettorali, ma Trump deve fare anche attenzione in North Carolina, dove ha pericolosamente perso terreno. La partita, insomma, è aperta, come lo è sempre stata (sì, anche quando il candidato dem era Biden, almeno fino al disastroso dibattito televisivo del 27 giugno). Ma la campagna del tycoon non sta soltanto battendo palmo a palmo gli Stati chiave. È anche probabilmente in trattative per ottenere l’endorsement di Robert Kennedy jr, che sta attualmente correndo da indipendente. Martedì, la candidata vice di Kennedy, Nicole Shanahan, ha rivelato che il diretto interessato starebbe valutando di fare un passo indietro e di dare l’appoggio al candidato repubblicano. Trump, dal canto suo, ha colto subito la palla al balzo, dicendosi aperto alla possibilità di riservare al figlio di Bob Kennedy un ruolo in una sua futura amministrazione. Del resto, che i due si stessero avvicinando, non era esattamente un mistero. A luglio, fu diffuso il video di una telefonata tra lo stesso Kennedy, noto antivaccinista, e Trump, in cui quest’ultimo esprimeva proprio dei dubbi sui vaccini. Va anche detto che, alcuni giorni fa, il Washington Post ha riportato che il candidato indipendente avrebbe cercato di mettersi in contatto con il team della Harris per ottenere un incarico in un’eventuale nuova amministrazione dem. D’altronde, la campagna di Kennedy è ormai in forte difficoltà, avendo meno di quattro milioni di dollari in cassa. Ma che cosa accadrebbe se Kennedy, attualmente dato da Fivethirtyeight al 5% a livello nazionale, si ritirasse e sostenesse Trump? Alcuni ritengono che un simile scenario favorirebbe la Harris, visto che il nome Kennedy è ancora di richiamo per una parte della sinistra americana: sinistra che, tra le altre cose, è piuttosto vicina al figlio di Bob soprattutto sull’ambientalismo. Se quindi lui restasse in campo, ragiona questa scuola di pensiero, rosicchierebbe voti alla vicepresidente. Ciò detto, attenzione: lo scorso 10 agosto, The Hill ha riferito di sondaggi secondo cui, con l’uscita di scena di Biden, la presenza di Kennedy nella corsa danneggerebbe più Trump che la Harris. Nelle ultime tre settimane, l’ex presidente ha registrato performance sondaggistiche migliori, sia a livello nazionale sia a livello statale, in assenza di Kennedy. Secondo The Hill, senza di lui, il tycoon guadagnerebbe oggi quasi quattro punti in Michigan. Certo, qualora il candidato indipendente si unisse a Trump, a quest’ultimo verrà chiesto conto di quando, alcuni mesi fa, lo bollava come un radicale di estrema sinistra. Tuttavia il pur non enorme pacchetto di voti detenuto da Kennedy non può non far gola all’ex presidente. Non è neppure escluso, da questo punto di vista, che l’avvicinamento tra i due sia stato mediato da Elon Musk, che intrattiene buoni rapporti con entrambi. Tra l’altro, Trump ha di recente aperto all’ipotesi di offrire anche al Ceo di Tesla un incarico nella propria amministrazione. E lui si è già detto disponibile.
Mohammad Shahin (Ansa)
Naturalmente non stupisce che la Corte d’Appello sia di manica larga con un imam che teorizza che l’assassinio di 1.200 persone e il rapimento di altre 250 non sia violenza. In fondo la sentenza si inserisce in una tendenza che nei tribunali italiani gode di una certa popolarità. Non furono ritenute incompatibili con il trattenimento nel Cpr in Albania anche decine di extracomunitari con la fedina penale lunga una spanna? Nonostante nel casellario giudiziale figurassero precedenti per reati anche gravi come aggressioni e perfino un tentato omicidio, i migranti furono prontamente rimpatriati e ovviamente lasciati liberi di scorrazzare per il Paese e di commettere altri crimini. Sia mai che qualcuno venga trattenuto e successivamente espulso.
Del resto, recentemente un altro magistrato, questa volta di Bologna, ha detto al Manifesto che le recenti disposizioni europee in materia di Paesi sicuri sono da ritenersi incostituzionali. Perché ovviamente per alcune toghe il diritto è à la carte, cioè si sceglie da un menù quello che più gusta. Se bisogna opporre un diniego alla legge varata dal Parlamento ci si appella alla giurisprudenza europea, che va da sé è preminente rispetto a quella nazionale. Ma se poi una direttiva Ue o del Consiglio europeo non piace si fa il contrario e ci si appella al diritto italiano, che in questo caso torna prevalente. Insomma, comunque vada il migrante ha sempre ragione e deve essere ritenuto discriminato e dunque coccolato e tutelato. Se un italiano inneggia al fascismo deve essere messo in galera, se un imam si dichiara d’accordo con una strage, non considerandola violenza ma resistenza invece scatta la libertà di espressione, quella stessa espressione che gli autori del massacro di Charlie Hebdo anni fa negarono ai vignettisti del settimanale francese, colpevoli di aver disegnato immagini sarcastiche sull’islam.
Purtroppo, la tendenza a giustificare tutto e dare addosso a chi denuncia i pericoli legati a un’immigrazione indiscriminata ormai dilaga. Ieri sulla prima pagina di Repubblica campeggiava uno studio in cui la questione che lega gli stranieri al crescente clima di insicurezza era addebitata ai media. Colpa di giornali e tv se si parla di migranti. «I picchi di informazione e audience sul pericolo stranieri avvengono nei periodi elettorali», tiene a precisare il quotidiano che la famiglia Agnelli ha messo in vendita. In realtà i picchi coincidono sempre con fatti di cronaca nera. Stragi, rapine, stupri: quei fatti che né i giudici, né alcuni giornali vogliono vedere.
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Sergio Mattarella (Ansa)
Dite che in tutto questo c’è qualcosa che non funziona? Forse non avete tutti i torti. Però è esattamente quello che è successo. Alla XVIII Conferenza delle ambasciatrici e degli ambasciatori, Mattarella si è lasciato possedere dallo spirito di Kaja Kallas e ha impugnato lo spadone: «Permane l’aggressione russa ai danni dell’Ucraina», ha detto, «con vittime e immani distruzioni, e con l’aberrante intendimento, malgrado gli sforzi negoziali in atto, di infrangere il principio del rifiuto di ridefinire con la forza gli equilibri e i confini in Europa. Infrangere questo principio è un’azione ritenuta irresponsabile e inammissibile già oltre cinquanta anni addietro nella Conferenza di Helsinki sulla cooperazione e sicurezza nel continente». Quindi anche il bombardamento di Belgrado era già un’azione «ritenuta irresponsabile e inammissibile»...
Ma il particolare non ha turbato l’uomo del Colle, che ha proseguito bellicoso: «Appare, a dir poco, singolare che, mentre si affacciano, in ambito internazionale, esperienze dirette a unire Stati e a coordinarne le aspirazioni e le attività, si assista a una disordinata e ingiustificata aggressione nei confronti dell’Unione europea, alterando la verità e presentandola, anziché come una delle esperienze storiche di successo per la democrazia e i diritti dei popoli, sviluppatasi anche con la condivisione e l’apprezzamento dell’intero Occidente, come una organizzazione oppressiva se non addirittura nemica della libertà». Oplà: sistemati anche i nemici della meravigliosa e infallibile Unione europea «apprezzata dall’intero Occidente». Intero. E pazienza se anche alcuni scudieri del sovrano del Quirinale, segnatamente Enrico Letta e Mario Draghi, si sono recentemente azzardati a criticare anche aspramente l’architettura parasovietica allestita a Bruxelles. Per Mattarella è l’ora delle decisioni irrevocabili: «È evidente che è in atto un’operazione, diretta contro il campo occidentale, che vorrebbe allontanare le democrazie dai propri valori, separando i destini delle diverse nazioni. Non è possibile distrarsi e non sono consentiti errori».
Ecco, non sono consentiti errori. E allora perché, proprio mentre si tratta a Berlino, il presidente della Repubblica compie un’invasione di campo così clamorosa? Come mai è tanto ansioso di metterci in rotta di collisione con la Russia da superare in oltranzismo i Volenterosi e persino lo stesso Zelensky, ormai pragmaticamente orientato a discutere per evitare la catastrofe finale al suo popolo stremato? Che cosa hanno in testa Mattarella e il suo consigliere Francesco Saverio Garofani, che siede ancora con lui (e con Giorgia Meloni) nel Consiglio supremo di Difesa malgrado le imbarazzanti frasi, rivelate dalla Verità, su «provvidenziali scossoni» per impedire alla stessa leader di Fratelli d’Italia di rivincere le elezioni e, orrore, magari insediare qualcuno non di sinistra sul Colle più alto di Roma?
Il Quirinale, con la docile stampa al seguito, si è affrettato a far calare una cappa di silenzio su quella voce dal sen fuggita che rivelava desideri e trame di chi sussurra all’orecchio di Mattarella. Ma ora è il capo dello Stato in persona a uscire allo scoperto. È lui a dare sulla voce al premier, che pochi giorni fa, accogliendolo a Roma, ha parlato a Zelensky della necessità di fare «dolorose concessioni». È lui a dare una linea alternativa (anche al sé stesso più giovane) in politica estera, esondando dalle sue funzioni. Ennesima dimostrazione che l’opposizione vera a questo governo si fa sul Colle. E che forse Garofani non esprimeva solo considerazioni personali.
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Il titolare del supermercato Conad City, che si trova a ridosso del centro storico della città, dopo l’ennesimo episodio di violenza avvenuto all’interno del suo negozio, ha deciso di dotare le dipendenti, e in particolare le cassiere, di spray al peperoncino da tenere a portata di mano durante il turno di lavoro.
Pochi giorni fa, infatti, a metà mattinata, due ubriachi sono entrati con cattive intenzioni e mentre uno si dirigeva verso il reparto alcolici, l’altro si è avvicinato ai banchi dell’ortofrutta e, afferrato un grappolo d’uva, si è messo a mangiare con gusto, cerando di farsi consegnare denaro dai presenti. Invitati ad allontanarsi, i due, hanno reagito con violenza minacciando il titolare del negozio e spaventando il resto del personale, costretto a rifugiarsi nel box informazioni per la paura di essere assalito. Decisivo l’intervento della figlia del proprietario che, vista la situazione di pericolo, con un impeto di coraggio ha sfoderato lo spray al peperoncino e messo in fuga i due. Da lì l’idea di dotare tutte le cassiere del presidio deterrente: «Le cassiere sono giovani e hanno paura» ha dichiarato il titolare alla tv locale, ricordando altri tre episodi simili avvenuti nel giro di un solo mese, uno dei quali costato la frattura di una mano ad un dipendente che cercava di difendere una collega.
Recentemente Il Sole 24 Ore ha posizionato la Provincia di Treviso al primo posto in Italia per numero di minori coinvolti in rapine e aggressioni perché, in città e nel suo comprensorio, il 9,5% delle persone denunciate o arrestate per atti violenti è risultato essere un under 18 (il dato nazionale si ferma al 5%). E insieme ai dati anche le cronache recenti confermano il trend.
A meno di un chilometro di distanza dal supermercato con le cassiere costrette ad «armarsi», dalla parte opposta del centro cittadino, una settimana fa, in una serata di movida, dieci maranza hanno accerchiato e brutalmente pestato quattro giovani i trevigiani, colpevoli solo di aver risposto per le rime alle offese pronunciate dalla gang, con l’intento di provocare. In risposta allo scambio colorito di epiteti uno degli stranieri ha colpito uno dei rivali e, per tentare di far rientrare la situazione, un amico è corso a difenderlo. A quel punto, però, il gruppo di maranza si è accanito su di lui colpendolo al volto, rompendogli mandibola e orbita, e ferendo gli altri con calci e colpi sferrati con il tirapugni. In risposta all’episodio, il comitato Prima i Trevigiani, in sinergia con Azione Studentesca, si è recato nei luoghi dell’aggressione, affiggendo uno striscione con su scritto «Baby gang e maranza, è finita la tolleranza». «Siamo stanchi di associare la nostra generazione a questi atti di teppismo e criminalità. Treviso ha dato prova di una lunga pazienza, ma ora siamo al limite. Chiediamo fermezza immediata, più controlli e l'applicazione di sanzioni esemplari per ripristinare il diritto alla sicurezza e alla serenità di tutti i trevigiani. La tolleranza verso chi semina il panico è ufficialmente finita», ha dichiarato Federico Piasentin, referente giovani del Comitato. A fargli eco il presidente, Leonardo Capion, che ha spiegato: «La violenza nella nostra città, messa in atto da parte di queste bande, va avanti da tempo, anche se in questo periodo è diventata ancora più frequente e comincia ad essere sotto i riflettori. Come Comitato raccogliamo un numero sempre più alto di segnalazioni e di adesioni dai cittadini stanchi della paura di subire assalti e di non poter vivere liberamente le strade e i luoghi pubblici e proseguiremo con le passeggiate che già da tempo organizziamo per la città come forma di deterrenza».
Per Capion «il problema principale è che la giustizia è troppo lenta nel fare il suo corso e che i violenti sono molto spesso minorenni verso cui le pene sono tutt’altro che severe».
In effetti proprio a distanza di un anno dalla morte di Favaretto, il giovane sgozzato con un vetro il 12 dicembre 2024 durante una rissa, è arrivata, per quattro dei sei ragazzi che lo aggredirono, un maxi sconto di pena. Due ragazzi e due ragazze che presero parte al pestaggio, rinviati a giudizio per omicidio volontario aggravato dall’intenzione di effettuare una rapina e di rapina in concorso, hanno chiesto il rito abbreviato e ottenuto la messa alla prova. Non finiranno in carcere ma se la caveranno dedicandosi ai lavori sociali. E nemmeno lavoreranno gratis: per le loro mansioni saranno retribuiti, in modo da poter - secondo i giudici - risarcire la mamma di Francesco nell’ottica di una «giustizia riparativa».
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Se per i Maya erano oggetto di venerazione quasi religiosa, tanto era il loro riconosciuto valore non solo economico, per gli europei coltivare il cacao era troppo complesso e, in seguito, ci si «accontentò» di mangiarne le fave importate in forma di cioccolata. L’Europa iniziò a conoscere per bene la cioccolata in tazza dopo il 1517. In quell’anno il conquistatore spagnolo Hernàn Cortés era sbarcato anch’egli sull’attuale Messico e l’imperatore azteco Montezuma II gli aveva fatto conoscere la «chocolatl», il trito di fave di cacao e mais cotto con acqua e miele che l’imperatore beveva come afrodisiaco. Quando Cortés, morto Montezuma II e conquistato l’impero azteco, divenne governatore, esportò stabilmente la cioccolata presso la corte spagnola di Carlo V. Da lì, la squisita bevanda divenne in breve tempo una specie di ambrosia dei nobili poiché consumarla voleva dire acquisire un vero e proprio status symbol: solo il nobile poteva bere l’esotica e buonissima cioccolata quando voleva. Pensate che Carlo V la mandava come regalo di nozze quando un familiare sposava un nobile di altra nazione e, addirittura, questo farne dono fu il primo modo di diffusione della cioccolata nel resto d’Europa. Inoltre, un po’ come un vero chef, Carlo V non dava la sua ricetta e perciò si svilupparono diverse varianti. E perfino diversi luoghi dedicati dove trovarla per berla, quando era diventata accessibile anche ai borghesi. A Londra, nel 1657 nacque la prima Chocolate house, sulla scia delle Coffee house, e poi in tutta la Gran Bretagna si diffusero tante altre chocolate house, oggi in Italia le chiameremmo cioccolaterie, luoghi nei quali bere la cioccolata e intrattenersi. Dai Maya a noi la cioccolata calda ha fatto tanta strada in ogni senso. Un po’ come la pizza o la pasta, la cioccolata calda è diventata un’icona pop che più passa il tempo più espande la sua costellazione di innovazioni che insieme la confermano e la mutano.
La cioccolateria contemporanea ci ha dato innanzitutto la cioccolata calda fatta con cioccolato diverso da quello al latte o fondente: c’è la cioccolata calda bianca fatta con cioccolato bianco, che a sua volta può essere aromatizzata e quindi possiamo trovare anche la cioccolata calda di colore verde e al sapore di pistacchio, per esempio. E c’è la cioccolata calda rosa realizzata col cioccolato ruby, un cioccolato fatto con fave di cacao provenienti da Ecuador, Costa d’Avorio e Brasile che contengono naturalmente pigmenti rosa. La cioccolata si può preparare sia con il cioccolato tritato, in questo casa potrà essere al latte, fondente, bianca oppure ruby, sia con il cacao. Al di là del tipo di materia prima usata, la cioccolata calda si può poi ormai declinare in mille modi, non solo nel laboratorio della propria cucina, dove basta aggiungere una spolverizzata di cacao oppure di cannella in cima, sia che ci sia panna, sia che non ci sia. O di peperoncino oppure, perché no?, di pepe. I cafè nei quali si beve cioccolata calda hanno i propri mix oppure offrono il menu completo dei mix pensati da produttori artigianali o industriali di preparati per cioccolate in busta. Il marchio apripista in questa direzione fu Eraclea, fondato a Milano circa 50 anni fa e passato dal 2010 al gruppo Lavazza. Quel preparato in busta che decenni or sono era pioneristico oggi è diventato un genere di prodotti e molti fanno il proprio, dalla storica pasticceria Marchesi di Milano al pasticcere torinese Guido Gobino passando per Antonino Cannavacciuolo e le sue choco bomb, versione solida e sferica del preparato, e il Ciobar, l’offerta per preparare una squisita cioccolata in tazza a casa seguendo semplicemente le istruzioni sulla confezione degli ingredienti predosati è vastissima e spazia fin dove si può spaziare. Cioccolata con tocco crunchy? Basta aggiungere granella di nocciole, di pistacchi, perfino bacche di Goji. Cioccolata salata (parzialmente)? Nessun problema, c’è la cioccolata con caramello salato. Cioccolata vegana (recentemente anche la gelateria Grom, artefice di una cioccolata in tazza super cremosa, ha modificato la ricetta per renderla vegana)? Ancora nessun impedimento, basta sostituire il latte con bevanda vegetale. La più sorprendente è sicuramente quella che sembra la negazione della cioccolata calda: la cioccolata fredda. In realtà, si tratta di una versione che destagionalizza la cioccolata calda, disponibile in concomitanza con l’arrivo del freddo per tutta la stagione autunnale e invernale, fino alla primavera. La cioccolata fredda si oppone a questa stagionalità e rendendola estiva attua l’estensione della cioccolata calda a tutto l’anno, naturalmente però raffreddandola. Si prepara con gli stessi ingredienti, ma poi si fa freddare in frigo e si gusta quando fa caldo per rinfrescarsi, non quando fa freddo per riscaldarsi. A proposito di riscaldarsi, sapevate che in montagna è prassi bere una cioccolata calda per contrastare il clima chiaramente molto freddo e riprendere energia dopo una giornata di sci alpino? Deriva da questo l’idea che l’ora della cioccolata calda sia le 16:30, in (giocosa) differenziazione rispetto alle 17, l’ora del tè.
La cioccolata calda è considerata un comfort food e insieme un peccato di gola. Conosciamone meglio le caratteristiche e come trarne il massimo beneficio per la nostra salute ed il nostro benessere.
In 100 ml di cioccolata calda preparata con cioccolato, latte intero, zucchero, un po’ di addensante (qualunque farina oppure amido o fecola) troviamo circa 90 calorie, per il 60% derivanti da carboidrati, per il 25% da grassi e per il 15% da proteine. Fate attenzione perché spesso le tazze sono da 200 ml, quindi considerate 180 calorie. Inoltre, più la cioccolata è densa, più è calorica. Per diminuire i carboidrati si può eliminare lo zucchero, per diminuire un po’ di proteine e di grassi si può usare l’acqua al posto del latte, per diminuire tutto, grassi, proteine e carboidrati, si può usare il cacao magro al posto della cioccolata. Un cucchiaio raso di panna montata aggiunge circa 20 calorie. Durante la stagione fredda, caratterizzata anche dalla diminuzione delle ore di luce, la cioccolata calda è sicuramente un momento di piacere gastronomico, ma anche una spinta energetica per il nostro organismo e per il nostro umore. I flavonoidi hanno effetto antiossidante che aiuta anche la salute del sistema cardiocircolatorio. Grazie a triptofano, feniletilamina e teobromina di cacao o cioccolato, che stimolano la produzione di neurotrasmettitori come la serotonina (il cosiddetto ormone della felicità) e le endorfine (che riducono dolore e stress), una cioccolata in tazza solleva il nostro umore, funge da antistress e ci dona serenità anche nei giorni no. Migliorano anche la memoria e la concentrazione e aumenta un pochino il livello di alcuni sali minerali (potassio, rame, magnesio e ferro). Inoltre, abbiamo sollievo se abbiamo la gola secca e ci scaldiamo: la bevanda, infatti, scalda la bocca, la trachea, lo stomaco e quindi il nucleo centrale del nostro organismo, la parte interna costituita dal busto, che protegge gli organi e che in inverno va protetta dal freddo per mantenere la sua temperatura ottimale di circa 37 gradi centigradi. Inoltre, la cioccolata calda ci dà l’energia che serve al nostro organismo per attuare le sue pratiche anti freddo. Funziona così: il nostro guscio periferico (capo, arti, pelle, muscoli, grasso) cerca di minimizzare la dispersione termica dovuta al fatto che la temperatura esterna è molto bassa tramite la vasocostrizione che diminuisce il flusso sanguigno. Il calore che serve a mantenere il nostro nucleo centrale a 37 gradi (pena malanni o malesseri anche letali se la temperatura scende di troppo) viene prodotto nel nucleo centrale attraverso il metabolismo, che trasforma il cibo in kilocalorie e si trasferisce verso il guscio. Quando fa freddo, il corpo riduce questo trasferimento per conservare il calore centrale, a scapito della temperatura periferica. Tutto questo è un lavoro continuo del nostro organismo, di cui non ci accorgiamo e che richiede molte kilocalorie. Le pratiche che il nostro organismo mette in atto per riscaldarci in inverno ci richiedono e ci fanno consumare molte più calorie di quelle che esso mette in atto per disperdere il calore in estate, perciò mangiamo di più in inverno, perché consumiamo più kilocalorie per mantenere la nostra temperatura interna a circa 37 gradi di quante ne consumiamo in estate per non farla aumentare troppo oltre i 37 gradi. Non bisogna certamente esagerare nel bere cioccolata calda, soprattutto pensando ai grassi (per riscaldarsi va bene anche un tè caldo senza zucchero), ma concedersi una cioccolata di tanto in tanto non può che fare bene. Ultimi consigli. Se avete mal di gola o in generale siete raffreddati, aggiungete in cima alla vostra cioccolata calda polvere di peperoncino, di cannella, di curry, di curcuma. Se avete problemi digestivi, polvere di té verde, di té matcha o di semi di finocchio.
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