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2024-08-22
Il tifo ipocrita di Obama per la Harris cela i timori dem sui veri sondaggi
Barack e Michelle Obama (Ansa)
Le celebrazioni a reti unificate della Convention dem non si fermano. Tutti in sollucchero per i discorsi tenuti, martedì sera, dai coniugi Obama. Tutti a parlare di un Partito democratico unito attorno a una candidata formidabile, quale sarebbe Kamala Harris. Addirittura, c’è chi si è spinto a parlare di «spirito del 2008», lasciando intendere che la vicepresidente potrebbe ripercorrere le orme della storica campagna elettorale che portò proprio Barack Obama, quell’anno, alla Casa Bianca. Bene, cerchiamo di andare un po’ oltre questa stucchevole melassa mediatica.
Innanzitutto, lo «spirito del 2008» non c’entra nulla con la Harris. Nel 2008, Obama condusse una campagna antisistema, correndo contro l’establishment dem, rappresentato da Hillary Clinton, e contro quello di Washington, capitanato all’epoca dal repubblicano John McCain. Oggi accade invece l’esatto opposto: lo stesso establishment dem (da cui Obama, negli anni, si è lasciato man mano assorbire, fino a divenirne in buona sostanza il dominus) ha silurato opacamente un presidente, che aveva ottenuto 14 milioni di voti alle primarie, sostituendolo meccanicamente con la sua vice e bypassando così del tutto la volontà popolare. Senza dimenticare che l’attuale vicepresidente ha sempre puntato le sue carte elettorali sull’ «identity politics»: il contrario di quanto fatto, proprio nel 2008, da Obama, che volle evitare di ripetere gli errori della fallimentare «Rainbow Coalition», messa in piedi dal reverendo Jesse Jackson nel 1984.
In secondo luogo, non si può non scorgere una certa ipocrisia da parte dell’ex presidente dem. Certo, a lui tutto viene perdonato. Persino se scade nel sessismo, quando, con un gesto, parlando della «strana ossessione di Trump per la dimensione delle folle», allude alla scarsa virilità dello sfidante del Gop. Dopodiché, martedì Obama ha definito Joe Biden un «fratello» dopo averlo messo sotto pressione per spingerlo al ritiro. Anche il suo sperticato elogio della Harris cela qualche contraddizione. «L’America è pronta per un nuovo capitolo. L’America è pronta per una storia migliore. Siamo pronti per una presidente Kamala Harris», ha affermato. Eppure, dopo aver manovrato con successo per silurare Biden, Obama non voleva che fosse rimpiazzato dalla sua vice. Le carte su cui puntava erano altre, a partire probabilmente dal governatore della California, Gavin Newsom. Non dimentichiamo che Obama ha atteso molti giorni prima di dare il proprio endorsement alla Harris. Senza trascurare che, il giorno successivo all’annuncio dell’addio elettorale di Biden, l’ex senior advisor dello stesso Obama, David Axelrod, si oppose a una successione meccanica, invocando un «processo aperto» per selezionare il nuovo candidato. Una richiesta simile era arrivata, poco prima, anche da Nancy Pelosi: segno quindi che, in origine, né Obama né l’ex Speaker nutrivano simpatia per un’eventuale discesa in campo della Harris. Inoltre, a destare perplessità è anche un passaggio, mediaticamente assai enfatizzato, dell’intervento di Michelle Obama. «La speranza sta tornando», ha detto, tessendo le lodi della candidata dem. Peccato che la Harris sia in carica da quasi quattro anni. E che, ancora oggi, abbia un grado di approvazione, come numero due della Casa Bianca, di appena il 41% a fronte di un grado di disapprovazione del 49%.
Un terzo elemento da sottolineare è che la Convention in corso a Chicago appare quasi completamente fondata sull’antitrumpismo. «L’opposizione a Trump è la forza unificante della Convention nazionale dem», ha scritto ieri Politico. Basta ascoltare la maggior parte degli interventi finora tenutisi, soprattutto quelli di Obama e della Clinton. «Trump vede il potere come nient’altro che un mezzo per raggiungere i suoi fini», ha tuonato l’ex presidente dem, mentre la Clinton, lunedì, aveva bollato il tycoon come un pericolo per lo Stato di diritto. L’apoteosi è stata poi rappresentata dal fatto che, a esultare alla Convention, c’era anche Letitia James: la procuratrice generale di New York, che intentò una causa civile contro la Trump Organization. Sia chiaro: è normale che alla Convention dem si critichi il candidato repubblicano e lo stesso Trump non è uno che risparmia strali all’avversaria. Il punto è che, oltre all’antitrumpismo, non si capisce quali siano gli altri fattori coesivi in seno all’Asinello. I dem centristi restano irritati per il fatto che la Harris abbia scelto Tim Walz, anziché Josh Shapiro, come proprio vice. I fedelissimi di Biden hanno storto il naso dopo che il discorso del presidente, lunedì, è stato fatto slittare a tarda notte. Infine, nonostante le numerose concessioni che la Harris ha fatto loro, i manifestanti dell’estrema sinistra pro Palestina continuano a essere sul piede di guerra. Oltre alle proteste che hanno organizzato a Chicago domenica e lunedì, l’altro ieri hanno anche interrotto un evento del Women's Caucus, a cui stava parlando Walz.
Insomma, di unità vera ce n’è poca. E qui emerge un passaggio significativo del discorso di Obama. «Questa sarà comunque una gara serrata in un Paese diviso in due», ha detto. Parole molto indicative, che stridono con l’euforia mediatica, costruita negli scorsi giorni attorno alla candidata dem. D’altronde, lunedì, Chauncey McLean, presidente del Super Pac pro Harris Future Forward, ha affermato che, per la Harris, i sondaggi riservati risulterebbero «molto meno rosei» di quelli pubblicati nelle ultime settimane. Tra divisioni interne e timori sondaggistici, la panna montata mediatica, che circonda la candidata dem, rischia quindi di sgonfiarsi a breve.
Trump aspetta l’assist di Kennedy
Durante la Convention nazionale dem di Chicago, Donald Trump non è rimasto con le mani in mano. Il tycoon ha infatti scelto di dare battaglia negli Stati chiave, a partire da quelli della Rust Belt: l’area in cui probabilmente saranno decise le elezioni di novembre. Lunedì ha tenuto un comizio in Pennsylvania, mentre martedì si è recato in Michigan. Il suo candidato vice, JD Vance, ha invece partecipato a un evento elettorale in Wisconsin. Ieri, entrambi hanno inoltre visitato il North Carolina. Un tour de force significativo, che la campagna di Kamala Harris ha cercato di mettere nel mirino. In particolare, la candidata dem ha criticato il rivale per essersi recato a Howell: cittadina del Michigan, storicamente collegata al Ku Klux Klan, in cui, a fine luglio, una dozzina di suprematisti bianchi aveva inscenato una manifestazione. La campagna del tycoon ha replicato, ricordando che anche Joe Biden, a ottobre 2021, visitò Howell, per presentare il proprio piano infrastrutturale.
Come che sia, al di là delle polemiche, i colletti blu della Rust Belt restano centrali. La media sondaggistica di Real Clear Politics mostra come la Harris - in Michigan, Pennsylvania e Wisconsin - abbia al momento un vantaggio assai inferiore rispetto a quello detenuto da Biden e Hillary Clinton rispettivamente ad agosto 2020 e ad agosto 2016. Non solo. Chauncey McLean, presidente del Super Pac pro Harris Future Forward, ha ammesso che, per la candidata dem, i sondaggi riservati «sono molto meno rosei» di quelli pubblici. Senza poi trascurare che il sito di scommesse in criptovalute, Polymarket, è tornato a dare in vantaggio Trump negli ultimi giorni. Questo poi ovviamente non significa che per l’ex presidente la situazione sia tutta rose e fiori. Non solo la Harris ha finora raccolto 500 milioni di dollari in fondi elettorali, ma Trump deve fare anche attenzione in North Carolina, dove ha pericolosamente perso terreno. La partita, insomma, è aperta, come lo è sempre stata (sì, anche quando il candidato dem era Biden, almeno fino al disastroso dibattito televisivo del 27 giugno).
Ma la campagna del tycoon non sta soltanto battendo palmo a palmo gli Stati chiave. È anche probabilmente in trattative per ottenere l’endorsement di Robert Kennedy jr, che sta attualmente correndo da indipendente. Martedì, la candidata vice di Kennedy, Nicole Shanahan, ha rivelato che il diretto interessato starebbe valutando di fare un passo indietro e di dare l’appoggio al candidato repubblicano. Trump, dal canto suo, ha colto subito la palla al balzo, dicendosi aperto alla possibilità di riservare al figlio di Bob Kennedy un ruolo in una sua futura amministrazione. Del resto, che i due si stessero avvicinando, non era esattamente un mistero. A luglio, fu diffuso il video di una telefonata tra lo stesso Kennedy, noto antivaccinista, e Trump, in cui quest’ultimo esprimeva proprio dei dubbi sui vaccini. Va anche detto che, alcuni giorni fa, il Washington Post ha riportato che il candidato indipendente avrebbe cercato di mettersi in contatto con il team della Harris per ottenere un incarico in un’eventuale nuova amministrazione dem. D’altronde, la campagna di Kennedy è ormai in forte difficoltà, avendo meno di quattro milioni di dollari in cassa.
Ma che cosa accadrebbe se Kennedy, attualmente dato da Fivethirtyeight al 5% a livello nazionale, si ritirasse e sostenesse Trump? Alcuni ritengono che un simile scenario favorirebbe la Harris, visto che il nome Kennedy è ancora di richiamo per una parte della sinistra americana: sinistra che, tra le altre cose, è piuttosto vicina al figlio di Bob soprattutto sull’ambientalismo. Se quindi lui restasse in campo, ragiona questa scuola di pensiero, rosicchierebbe voti alla vicepresidente. Ciò detto, attenzione: lo scorso 10 agosto, The Hill ha riferito di sondaggi secondo cui, con l’uscita di scena di Biden, la presenza di Kennedy nella corsa danneggerebbe più Trump che la Harris. Nelle ultime tre settimane, l’ex presidente ha registrato performance sondaggistiche migliori, sia a livello nazionale sia a livello statale, in assenza di Kennedy. Secondo The Hill, senza di lui, il tycoon guadagnerebbe oggi quasi quattro punti in Michigan. Certo, qualora il candidato indipendente si unisse a Trump, a quest’ultimo verrà chiesto conto di quando, alcuni mesi fa, lo bollava come un radicale di estrema sinistra. Tuttavia il pur non enorme pacchetto di voti detenuto da Kennedy non può non far gola all’ex presidente.
Non è neppure escluso, da questo punto di vista, che l’avvicinamento tra i due sia stato mediato da Elon Musk, che intrattiene buoni rapporti con entrambi. Tra l’altro, Trump ha di recente aperto all’ipotesi di offrire anche al Ceo di Tesla un incarico nella propria amministrazione. E lui si è già detto disponibile.
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Riduci
Alla Convention, l’ex presidente e la moglie lodano la candidata, di cui hanno ostacolato la nomina. Evocano lo «spirito del 2008», come se ora a tirare le fila non sia l’establishment. Unito soltanto dall’anti trumpismo.Tour negli Stati chiave di JD Vance e del tycoon, che confida nel ritiro dell’indipendente e gli offre un posto nell’amministrazione. Nella sua squadra entrerebbe anche Elon Musk.Lo speciale contiene due articoli.Le celebrazioni a reti unificate della Convention dem non si fermano. Tutti in sollucchero per i discorsi tenuti, martedì sera, dai coniugi Obama. Tutti a parlare di un Partito democratico unito attorno a una candidata formidabile, quale sarebbe Kamala Harris. Addirittura, c’è chi si è spinto a parlare di «spirito del 2008», lasciando intendere che la vicepresidente potrebbe ripercorrere le orme della storica campagna elettorale che portò proprio Barack Obama, quell’anno, alla Casa Bianca. Bene, cerchiamo di andare un po’ oltre questa stucchevole melassa mediatica.Innanzitutto, lo «spirito del 2008» non c’entra nulla con la Harris. Nel 2008, Obama condusse una campagna antisistema, correndo contro l’establishment dem, rappresentato da Hillary Clinton, e contro quello di Washington, capitanato all’epoca dal repubblicano John McCain. Oggi accade invece l’esatto opposto: lo stesso establishment dem (da cui Obama, negli anni, si è lasciato man mano assorbire, fino a divenirne in buona sostanza il dominus) ha silurato opacamente un presidente, che aveva ottenuto 14 milioni di voti alle primarie, sostituendolo meccanicamente con la sua vice e bypassando così del tutto la volontà popolare. Senza dimenticare che l’attuale vicepresidente ha sempre puntato le sue carte elettorali sull’ «identity politics»: il contrario di quanto fatto, proprio nel 2008, da Obama, che volle evitare di ripetere gli errori della fallimentare «Rainbow Coalition», messa in piedi dal reverendo Jesse Jackson nel 1984.In secondo luogo, non si può non scorgere una certa ipocrisia da parte dell’ex presidente dem. Certo, a lui tutto viene perdonato. Persino se scade nel sessismo, quando, con un gesto, parlando della «strana ossessione di Trump per la dimensione delle folle», allude alla scarsa virilità dello sfidante del Gop. Dopodiché, martedì Obama ha definito Joe Biden un «fratello» dopo averlo messo sotto pressione per spingerlo al ritiro. Anche il suo sperticato elogio della Harris cela qualche contraddizione. «L’America è pronta per un nuovo capitolo. L’America è pronta per una storia migliore. Siamo pronti per una presidente Kamala Harris», ha affermato. Eppure, dopo aver manovrato con successo per silurare Biden, Obama non voleva che fosse rimpiazzato dalla sua vice. Le carte su cui puntava erano altre, a partire probabilmente dal governatore della California, Gavin Newsom. Non dimentichiamo che Obama ha atteso molti giorni prima di dare il proprio endorsement alla Harris. Senza trascurare che, il giorno successivo all’annuncio dell’addio elettorale di Biden, l’ex senior advisor dello stesso Obama, David Axelrod, si oppose a una successione meccanica, invocando un «processo aperto» per selezionare il nuovo candidato. Una richiesta simile era arrivata, poco prima, anche da Nancy Pelosi: segno quindi che, in origine, né Obama né l’ex Speaker nutrivano simpatia per un’eventuale discesa in campo della Harris. Inoltre, a destare perplessità è anche un passaggio, mediaticamente assai enfatizzato, dell’intervento di Michelle Obama. «La speranza sta tornando», ha detto, tessendo le lodi della candidata dem. Peccato che la Harris sia in carica da quasi quattro anni. E che, ancora oggi, abbia un grado di approvazione, come numero due della Casa Bianca, di appena il 41% a fronte di un grado di disapprovazione del 49%.Un terzo elemento da sottolineare è che la Convention in corso a Chicago appare quasi completamente fondata sull’antitrumpismo. «L’opposizione a Trump è la forza unificante della Convention nazionale dem», ha scritto ieri Politico. Basta ascoltare la maggior parte degli interventi finora tenutisi, soprattutto quelli di Obama e della Clinton. «Trump vede il potere come nient’altro che un mezzo per raggiungere i suoi fini», ha tuonato l’ex presidente dem, mentre la Clinton, lunedì, aveva bollato il tycoon come un pericolo per lo Stato di diritto. L’apoteosi è stata poi rappresentata dal fatto che, a esultare alla Convention, c’era anche Letitia James: la procuratrice generale di New York, che intentò una causa civile contro la Trump Organization. Sia chiaro: è normale che alla Convention dem si critichi il candidato repubblicano e lo stesso Trump non è uno che risparmia strali all’avversaria. Il punto è che, oltre all’antitrumpismo, non si capisce quali siano gli altri fattori coesivi in seno all’Asinello. I dem centristi restano irritati per il fatto che la Harris abbia scelto Tim Walz, anziché Josh Shapiro, come proprio vice. I fedelissimi di Biden hanno storto il naso dopo che il discorso del presidente, lunedì, è stato fatto slittare a tarda notte. Infine, nonostante le numerose concessioni che la Harris ha fatto loro, i manifestanti dell’estrema sinistra pro Palestina continuano a essere sul piede di guerra. Oltre alle proteste che hanno organizzato a Chicago domenica e lunedì, l’altro ieri hanno anche interrotto un evento del Women's Caucus, a cui stava parlando Walz.Insomma, di unità vera ce n’è poca. E qui emerge un passaggio significativo del discorso di Obama. «Questa sarà comunque una gara serrata in un Paese diviso in due», ha detto. Parole molto indicative, che stridono con l’euforia mediatica, costruita negli scorsi giorni attorno alla candidata dem. D’altronde, lunedì, Chauncey McLean, presidente del Super Pac pro Harris Future Forward, ha affermato che, per la Harris, i sondaggi riservati risulterebbero «molto meno rosei» di quelli pubblicati nelle ultime settimane. Tra divisioni interne e timori sondaggistici, la panna montata mediatica, che circonda la candidata dem, rischia quindi di sgonfiarsi a breve.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/tifo-ipocrita-obama-per-harris-2669002168.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="trump-aspetta-lassist-di-kennedy" data-post-id="2669002168" data-published-at="1724264609" data-use-pagination="False"> Trump aspetta l’assist di Kennedy Durante la Convention nazionale dem di Chicago, Donald Trump non è rimasto con le mani in mano. Il tycoon ha infatti scelto di dare battaglia negli Stati chiave, a partire da quelli della Rust Belt: l’area in cui probabilmente saranno decise le elezioni di novembre. Lunedì ha tenuto un comizio in Pennsylvania, mentre martedì si è recato in Michigan. Il suo candidato vice, JD Vance, ha invece partecipato a un evento elettorale in Wisconsin. Ieri, entrambi hanno inoltre visitato il North Carolina. Un tour de force significativo, che la campagna di Kamala Harris ha cercato di mettere nel mirino. In particolare, la candidata dem ha criticato il rivale per essersi recato a Howell: cittadina del Michigan, storicamente collegata al Ku Klux Klan, in cui, a fine luglio, una dozzina di suprematisti bianchi aveva inscenato una manifestazione. La campagna del tycoon ha replicato, ricordando che anche Joe Biden, a ottobre 2021, visitò Howell, per presentare il proprio piano infrastrutturale. Come che sia, al di là delle polemiche, i colletti blu della Rust Belt restano centrali. La media sondaggistica di Real Clear Politics mostra come la Harris - in Michigan, Pennsylvania e Wisconsin - abbia al momento un vantaggio assai inferiore rispetto a quello detenuto da Biden e Hillary Clinton rispettivamente ad agosto 2020 e ad agosto 2016. Non solo. Chauncey McLean, presidente del Super Pac pro Harris Future Forward, ha ammesso che, per la candidata dem, i sondaggi riservati «sono molto meno rosei» di quelli pubblici. Senza poi trascurare che il sito di scommesse in criptovalute, Polymarket, è tornato a dare in vantaggio Trump negli ultimi giorni. Questo poi ovviamente non significa che per l’ex presidente la situazione sia tutta rose e fiori. Non solo la Harris ha finora raccolto 500 milioni di dollari in fondi elettorali, ma Trump deve fare anche attenzione in North Carolina, dove ha pericolosamente perso terreno. La partita, insomma, è aperta, come lo è sempre stata (sì, anche quando il candidato dem era Biden, almeno fino al disastroso dibattito televisivo del 27 giugno). Ma la campagna del tycoon non sta soltanto battendo palmo a palmo gli Stati chiave. È anche probabilmente in trattative per ottenere l’endorsement di Robert Kennedy jr, che sta attualmente correndo da indipendente. Martedì, la candidata vice di Kennedy, Nicole Shanahan, ha rivelato che il diretto interessato starebbe valutando di fare un passo indietro e di dare l’appoggio al candidato repubblicano. Trump, dal canto suo, ha colto subito la palla al balzo, dicendosi aperto alla possibilità di riservare al figlio di Bob Kennedy un ruolo in una sua futura amministrazione. Del resto, che i due si stessero avvicinando, non era esattamente un mistero. A luglio, fu diffuso il video di una telefonata tra lo stesso Kennedy, noto antivaccinista, e Trump, in cui quest’ultimo esprimeva proprio dei dubbi sui vaccini. Va anche detto che, alcuni giorni fa, il Washington Post ha riportato che il candidato indipendente avrebbe cercato di mettersi in contatto con il team della Harris per ottenere un incarico in un’eventuale nuova amministrazione dem. D’altronde, la campagna di Kennedy è ormai in forte difficoltà, avendo meno di quattro milioni di dollari in cassa. Ma che cosa accadrebbe se Kennedy, attualmente dato da Fivethirtyeight al 5% a livello nazionale, si ritirasse e sostenesse Trump? Alcuni ritengono che un simile scenario favorirebbe la Harris, visto che il nome Kennedy è ancora di richiamo per una parte della sinistra americana: sinistra che, tra le altre cose, è piuttosto vicina al figlio di Bob soprattutto sull’ambientalismo. Se quindi lui restasse in campo, ragiona questa scuola di pensiero, rosicchierebbe voti alla vicepresidente. Ciò detto, attenzione: lo scorso 10 agosto, The Hill ha riferito di sondaggi secondo cui, con l’uscita di scena di Biden, la presenza di Kennedy nella corsa danneggerebbe più Trump che la Harris. Nelle ultime tre settimane, l’ex presidente ha registrato performance sondaggistiche migliori, sia a livello nazionale sia a livello statale, in assenza di Kennedy. Secondo The Hill, senza di lui, il tycoon guadagnerebbe oggi quasi quattro punti in Michigan. Certo, qualora il candidato indipendente si unisse a Trump, a quest’ultimo verrà chiesto conto di quando, alcuni mesi fa, lo bollava come un radicale di estrema sinistra. Tuttavia il pur non enorme pacchetto di voti detenuto da Kennedy non può non far gola all’ex presidente. Non è neppure escluso, da questo punto di vista, che l’avvicinamento tra i due sia stato mediato da Elon Musk, che intrattiene buoni rapporti con entrambi. Tra l’altro, Trump ha di recente aperto all’ipotesi di offrire anche al Ceo di Tesla un incarico nella propria amministrazione. E lui si è già detto disponibile.
Kaja Kallas (Ansa)
Kallas è il falco della Commissione, quando si tratta di Russia, e tiene a rimarcarlo. A proposito dei fondi russi depositati presso Euroclear, l’estone dice nell’intervista che il Belgio non deve temere una eventuale azione di responsabilità da parte della Russia, perché «se davvero la Russia ricorresse in tribunale per ottenere il rilascio di questi asset o per affermare che la decisione non è conforme al diritto internazionale, allora dovrebbe rivolgersi all’Ue, quindi tutti condivideremmo l’onere».
In pratica, cioè, l’interpretazione piuttosto avventurosa di Kallas è che tutti gli Stati membri sarebbero responsabili in solido con il Belgio se Mosca dovesse ottenere ragione da qualche tribunale sul sequestro e l’utilizzo dei suoi fondi.
Tribunale sui cui l’intervistata è scettica: «A quale tribunale si rivolgerebbe (Putin, ndr)? E quale tribunale deciderebbe, dopo le distruzioni causate in Ucraina, che i soldi debbano essere restituiti alla Russia senza che abbia pagato le riparazioni?». Qui l’alto rappresentante prefigura uno scenario, quello del pagamento delle riparazioni di guerra, che non ha molte chance di vedere realizzato.
All’intervistatore che chiede perché per finanziare la guerra non si usino gli eurobond, cioè un debito comune europeo, Kallas risponde: «Io ho sostenuto gli eurobond, ma c’è stato un chiaro blocco da parte dei Paesi Frugali, che hanno detto che non possono farlo approvare dai loro Parlamenti». È ovvio. La Germania e i suoi satelliti del Nord Europa non vogliano cedere su una questione sulla quale non hanno mai ceduto e per la quale, peraltro, occorre una modifica dei trattati su cui serve l’unanimità e la ratifica poi di tutti i parlamenti. Con il vento politico di destra che soffia in tutta Europa, con Afd oltre il 25% in Germania, è una opzione politicamente impraticabile. Dire eurobond significa gettare la palla in tribuna.
In merito all’adesione dell’Ucraina all’Unione europea già nel 2027, come vorrebbe il piano di pace americano, Kallas se la cava con lunghe perifrasi evitando di prendere posizione. Secondo l’estone, l’adesione all’Ue è una questione di merito e devono decidere gli Stati membri. Ma nel piano questo punto è importante e sembra difficile che venga accantonato.
Kallas poi reclama a gran voce un posto per l’Unione al tavolo della pace: «Il piano deve essere tra Russia e Ucraina. E quando si tratta dell’architettura di sicurezza europea, noi dobbiamo avere voce in capitolo. I confini non possono essere cambiati con la forza. Non ci dovrebbero essere concessioni territoriali né riconoscimento dell’occupazione». Ma lo stesso Zelensky sembra ormai convinto che almeno un referendum sulla questione del Donbass sia possibile. Insomma, Kallas resta oltranzista ma i fatti l’hanno già superata.
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Riduci
Carlo Messina all'inaugurazione dell'Anno Accademico della Luiss (Ansa)
La domanda è retorica, provocatoria e risuona in aula magna come un monito ad alzare lo sguardo, a non limitarsi a contare i droni e limare i mirini, perché la risposta è un’altra. «In Europa abbiamo più poveri e disuguaglianza di quelli che sono i rischi potenziali che derivano da una minaccia reale, e non percepita o teorica, di una guerra». Un discorso ecumenico, realistico, che evoca l’immagine dell’esercito più dolente e sfinito, quello di chi lotta per uscire dalla povertà. «Perché è vero che riguardo a welfare e democrazia non c’è al mondo luogo comparabile all’Europa, ma siamo deboli se investiamo sulla difesa e non contro la povertà e le disuguaglianze».
Le parole non scivolano via ma si fermano a suggerire riflessioni. Perché è importante che un finanziere - anzi colui che per il 2024 è stato premiato come banchiere europeo dell’anno - abbia un approccio sociale più solido e lungimirante delle istituzioni sovranazionali deputate. E lo dimostri proprio nelle settimane in cui sentiamo avvicinarsi i tamburi di Bruxelles con uscite guerrafondaie come «resisteremo più di Putin», «per la guerra non abbiamo fatto abbastanza» (Kaja Kallas, Alto rappresentante per la politica estera) o «se vogliamo evitare la guerra dobbiamo preparaci alla guerra», «dobbiamo produrre più armi, come abbiamo fatto con i vaccini» (Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea).
Una divergenza formidabile. La conferma plastica che l’Europa dei diritti, nella quale ogni minoranza possibile viene tutelata, si sta dimenticando di salvaguardare quelli dei cittadini comuni che alzandosi al mattino non hanno come priorità la misura dell’elmetto rispetto alla circonferenza cranica, ma il lavoro, la famiglia, il destino dei figli e la difesa dei valori primari. Il ceo di Banca Intesa ricorda che il suo gruppo ha destinato 1,5 miliardi per combattere la povertà, sottolinea che la grande forza del nostro Paese sta «nel formidabile mondo delle imprese e nel risparmio delle famiglie, senza eguali in Europa». E sprona le altre grandi aziende: «In Italia non possiamo aspettarci che faccia tutto il governo, se ci sono aziende che fanno utili potrebbero destinarne una parte per intervenire sulle disuguaglianze. Ogni azienda dovrebbe anche lavorare perché i salari vengano aumentati. Sono uno dei punti di debolezza del nostro Paese e aumentarli è una priorità strategica».
Con l’Europa Carlo Messina non ha finito. Parlando di imprenditoria e di catene di comando, coglie l’occasione per toccare in altro nervo scoperto, perfino più strutturale dell’innamoramento bellicista. «Se un’azienda fosse condotta con meccanismi di governance come quelli dell’Unione Europea fallirebbe». Un autentico missile Tomahawk diretto alla burocrazia continentale, a quei «nani di Zurigo» (copyright Woodrow Wilson) trasferitisi a Bruxelles. La spiegazione è evidente. «Per competere in un contesto globale serve un cambio di passo. Quella europea è una governance che non si vede in nessun Paese del mondo e in nessuna azienda. Perché è incapace di prendere decisioni rapide e quando le prende c’è lentezza nella realizzazione. Oppure non incidono realmente sulle cose che servono all’Europa».
Il banchiere è favorevole a un ministero dell’Economia unico e ritiene che il vincolo dell’unanimità debba essere tolto. «Abbiamo creato una banca centrale che gestisce la moneta di Paesi che devono decidere all’unanimità. Questo è uno degli aspetti drammatici». Ma per uno Stato sovrano che aderisce al club dei 27 è anche l’unica garanzia di non dover sottostare all’arroganza (già ampiamente sperimentata) di Francia e Germania, che trarrebbero vantaggi ancora più consistenti senza quel freno procedurale.
Il richiamo a efficienza e rapidità riguarda anche l’inadeguatezza del burosauro e riecheggia la famosa battuta di Franz Joseph Strauss: «I 10 comandamenti contengono 279 parole, la dichiarazione americana d’indipendenza 300, la disposizione Ue sull’importazione di caramelle esattamente 25.911». Un esempio di questa settimana. A causa della superfetazione di tavoli e di passaggi, l’accordo del Consiglio Affari interni Ue sui rimpatri dei migranti irregolari e sulla liceità degli hub in Paesi terzi (recepito anche dal Consiglio d’Europa) entrerà in vigore non fra 60 giorni o 6 mesi, ma se va bene fra un anno e mezzo. Campa cavallo.
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Riduci
Luca Casarini. Nel riquadro, il manifesto abusivo comparso a Milano (Ansa)
Quando non è tra le onde, Casarini è nel mare di Internet, dove twitta. E pure parecchio. Dice la sua su qualsiasi cosa. Condivide i post dell’Osservatore romano e quelli di Ilaria Salis (del resto, tra i due, è difficile trovare delle differenze, a volte). Ma, soprattutto, attacca le norme del governo e dell’Unione europea in materia di immigrazione. Si sente Davide contro Golia. E lotta, invitando anche ad andare contro la legge. Quando, qualche giorno fa, è stata fermata la nave Humanity 1 (poi rimessa subito in mare dal tribunale di Agrigento) Casarini ha scritto: «Abbatteremo i vostri muri, taglieremo i fili spinati dei vostri campi di concentramento. Faremo fuggire gli innocenti che tenete prigionieri. È già successo nella Storia, succederà ancora. In mare come in terra. La disumanità non vincerà. Fatevene una ragione». Questa volta si sentiva Oskar Schindler, anche se poi va nei cortei pro Pal che inneggiano alla distruzione dello Stato di Israele.
Chi volesse approfondire il suo pensiero, poi, potrebbe andare a leggersi L’Unità del 10 dicembre scorso, il cui titolo è già un programma: Per salvare i migranti dobbiamo forzare le leggi. Nel testo, che risparmiamo al lettore, spiega come l’Ue si sia piegata a Giorgia Meloni e a Donald Trump in materia di immigrazione. I sovranisti (da quanto tempo non sentivamo più questo termine) stanno vincendo. Bisogna fare qualcosa. Bisogna reagire. Ribellarsi. Anche alle leggi. Il nostro, sempre attento ad essere politicamente corretto, se la prende pure con gli albanesi che vivono in un Paese «a metà tra un narcostato e un hub di riciclaggio delle mafie di mezzo mondo, retto da un “dandy” come Rama, più simile al Dandy della banda della Magliana che a quel G.B. Brummel che diede origine al termine». Casarini parla poi di «squadracce» che fanno sparire i migranti e di presunte «soluzioni finali» per questi ultimi. E auspica un modello alternativo, che crei «reti di protezione di migranti e rifugiati, per sottrarli alle future retate che peraltro avverranno in primis nei luoghi di “non accoglienza”, così scientificamente creati nelle nostre città da un programma di smantellamento dei servizi sociali, educativi e sanitari, che mostra oggi i suoi risultati nelle sacche di marginalità in aumento».
Detto, fatto. Qualcuno, in piazzale Cuoco a Milano, ha infatti pensato bene di affiggere dei manifesti anonimi con le indicazioni, per i migranti irregolari, su cosa fare per evitare di finire nei centri di permanenza per i rimpatri, i cosiddetti di Cpr. Nessuna sigla. Nessun contatto. Solo diverse lingue per diffondere il vademecum: l’italiano, certo, ma anche l’arabo e il bengalese in modo che chiunque passi di lì posa capire il messaggio e sfuggire alla legge. Ti bloccano per strada? Non far vedere il passaporto. Devi andare in questura? Presentati con un avvocato. Ti danno un documento di espulsione? Ci sono avvocati gratis (che in realtà pagano gli italiani con le loro tasse). E poi informazioni nel caso in cui qualcuno dovesse finire in un cpr: avrai un telefono, a volte senza videocamera. E ancora: «Se non hai il passaporto del tuo Paese prima di deportarti l’ambasciata ti deve riconoscere. Quindi se non capisci la lingua in cui ti parla non ti deportano. Se ti deportano la polizia italiana ti deve lasciare un foglio che spiega perché ti hanno deportato e quanto tempo deve passare prima di poter ritornare in Europa. È importante informarci e organizzarci insieme per resistere!».
Per Sara Kelany (Fdi), «dire che i Cpr sono “campi di deportazione” e “prigioni per persone senza documenti” è una mistificazione che non serve a tutelare i diritti ma a sostenere e incentivare l’immigrazione irregolare con tutti i rischi che ne conseguono. Nei Cpr vengono trattenuti migranti irregolari socialmente pericolosi, che hanno all’attivo condanne per reati anche molto gravi. Potrà dispiacere a qualche esponente della sinistra o a qualche attivista delle Ong - ogni riferimento a Casarini non è casuale - ma in Italia si rispettano le nostre leggi e non consentiamo a nessuno di aggirarle». Per Francesco Rocca (Fdi), si tratta di «un’affissione abusiva dallo sgradevole odore eversivo».
Casarini, da convertito, diffonde il verbo. Che non è quello che si è incarnato, ma quello che tutela l’immigrato.
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Riduci