2021-09-19
Ti discriminano, ma solo un pochino. Chi non gradisce si prepari al peggio
Dai membri dell'esecutivo e dai giornali piovono minacce velate verso chi ha dubbi sulle iniezioni. E insulti nei confronti dei cosiddetti no vax. A cui l'ex vicesindaco di Milano Ada Lucia De Cesaris vorrebbe togliere pure i figli.Finalmente abbiamo capito quale sia la cifra di questo governo: la dolcezza. Il ministro Renato Brunetta ci ha deliziato parlando di spinta dolce, ora arriva l'evoluzione per bocca del ministro del Lavoro, Andrea Orlando, il quale ha illustrato agli italiani le meraviglie della discriminazione dolce. In che cosa consiste? In una costrizione accuratamente calibrata, che si ferma un gradino prima di diventare patentemente inaccettabile. Deve sembrare che sia tutto ragionevole, tutto giustificato, tutto tollerabile, anche se per un pelo. «Ho sempre ritenuto che sia giusto calmierare e pensare a un tampone a prezzo ancor più basso, dichiara Orlando, per ribadire di essere uno di sinistra, attento al popolo. Ovviamente segue un «ma» grande come una balena: «Sono contrario ai tamponi gratis», dettaglia il ministro, «perché è un errore dire che se ti vaccini o no è la stessa cosa. Possiamo anche discutere su quanto debba essere questa divisione però alla fine una divisione c'è. Perché dire che se non ti vaccini va bene lo stesso non è giusto». Capito? Sarebbe sbagliato, perfino ingiusto, non discriminare chi non si vaccina. Che poi il non vaccinato stia esercitando un diritto costituzionale importa poco: bisogna comunque rimarcare la sua sostanziale (biologica, verrebbe da dire) diversità. Egli è diverso, deviante, non può passarla liscia. Va sanzionato, ma con garbo, almeno a livello istituzionale. In fondo, sembra dire il ministro, il super green pass (cioè il lasciapassare da cui dipende la possibilità di muoversi, lavorare, guadagnare e, di conseguenza, mangiare) è ben piccola cosa a confronto di ciò che i renitenti meriterebbero. L'approccio dolce funziona così: non minaccia direttamente, si limita a far balenare scenari peggiori. In alto infatti ci sono i ministri che mantengono toni civili, ma nel frattempo alla base si scatena l'inferno. Si invocano linciaggi, cannoneggiamenti. I giornali si divertono a manganellare i dissenzienti come ha fatto ieri sul Corriere della Sera Fabrizio Roncone, buttando nel medesimo paiolo Gianluigi Paragone, Simone Pillon (colpevole addirittura di avere dei santini in tasca! Orrore!) e vari altri politici di diverso orientamento, tutti colpevoli di essere contro il green pass. Un chiaro esempio di giornalismo anglosassone: il governo si adopera per scavalcare il Parlamento, ma il grande giornale deve preoccuparsi di dileggiare i pochi oppositori, mica del fatto che si stia stressando l'ordine democratico. Già: il Palazzo è dolce, ma fuori vale tutto. C'è persino un ex vicesindaco di Milano, Ada Lucia De Cesaris (in giunta con Giuliano Pisapia), pronta a sostenere con serenità sui social che alle madri «no vax che fanno capannello davanti alle scuole vada tolta la patria potestà». Capite che se le alternative fatte balenare sono queste, la discriminazione shabby chic di Orlando appare quasi una forma di amore. A donne che sono preoccupate, e che comunque (ripetiamolo che giova) non stanno violando alcuna legge quando dubitano delle azioni del governo, si pensa di levare i figli. Non sono le uniche frustrate o scontente, queste mamme. Anche tra i vaccinati tanti sono nervosi e stanchi, ma a costoro i media e i politici all'unisono dicono di sfogare la rabbia sui porci no vax. Ecco, per dire, come ragiona Assia Neumann Dayan, che scrive su Linkiesta, rivolta ai no vax: «Ma noi che abbiamo fatto tutto giusto, chiusi in casa a fare la Dad, e poi ci siamo vaccinati, e poi ci siamo fatti i tamponi che non si sa mai, noi, ma davvero vi dobbiamo voler bene?». Che è un po' come dire: se non sopportate più le varie restrizioni a cui vi hanno sottoposto, non rivolgetevi contro il governo, ma odiate i vostri vicini. Fanno così, i sinceri democratici: istigano, alludono, fanno balenare, intimidiscono col sorriso. No, non obbligano nessuno, loro. Però fanno capire che è meglio se ti adegui, perché poi potrebbe finire male. Sentite che scrive, sempre sul Corriere della Sera, Aldo Cazzullo: «L'alternativa al green pass non è il liberi tutti, ma il vaccino obbligatorio. Siccome incentivare è meglio che costringere, è giusto che l'ingresso sui luoghi di lavoro sia consentito solo a chi ha il green pass». Riecco la rana sottovuoto: la cottura procede un poco alla volta, ma procede. Al cittadino dubbioso viene ricordato che lo si potrebbe far saltare alla fiamma, per distrarlo dal fatto che lo stiano comunque cucinando per le feste. A ribadire il concetto è il solito Orlando, per il quale l'obbligo vaccinale «è un'ipotesi che non può essere esclusa, ma mi auguro di non arrivare a quel punto, per non scavare una trincea ancora più profonda nella nostra società tra vaccinati e non». Tradotto vuol dire: non mettiamo l'obbligo, però se non ti vaccini adesso fra poco ti obblighiamo. E allora, scusate, non sarebbe meglio obbligare direttamente, magari prevedendo una tutela seria per chi dovesse eventualmente risultare danneggiato dalla puntura? Ah, no, certo: loro non obbligano. Loro sono dolci. Fanno la guerra e la chiamano pace, suppurano odio ma parlano di giustizia, minacciano ma sono ragionevoli. Sono dolci, come l'eutanasia.
Giancarlo Giorgetti (Ansa)
Giorgetti ha poi escluso la possibilità di una manovra correttiva: «Non c'è bisogno di correggere una rotta che già gli arbitri ci dicono essere quella rotta giusta» e sottolinea l'obiettivo di tutelare e andare incontro alle famiglie e ai lavoratori con uno sguardo alle famiglie numerose». Per quanto riguarda l'ipotesi di un intervento in manovra sulle banche ha detto: «Io penso che chiunque faccia l'amministratore pubblico debba valutare con attenzione ogni euro speso dalla pubblica amministrazione. Però queste sono valutazioni politiche, ribadisco che saranno fatte solo quando il quadro di priorità sarà definito e basta aspettare due settimane».
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Il direttore generale di Renexia Riccardo Toto e il direttore de La Verità Maurizio Belpietro
Toto ha presentato il progetto di eolico offshore galleggiante al largo delle coste siciliane, destinato a produrre circa 2,7 gigawatt di energia rinnovabile. Un’iniziativa che, secondo il direttore di Renexia, rappresenta un’opportunità concreta per creare nuova occupazione e una filiera industriale nazionale: «Stiamo avviando una fabbrica in Abruzzo che genererebbe 3.200 posti di lavoro. Le rinnovabili oggi sono un’occasione per far partire un mercato che può valere fino a 45 miliardi di euro di valore aggiunto per l’economia italiana».
L’intervento ha sottolineato l’importanza di integrare le rinnovabili nel mix energetico, senza prescindere dal gas, dalle batterie e in futuro anche dal nucleare: elementi essenziali non solo per la sicurezza energetica ma anche per garantire crescita e competitività. «Non esiste un’economia senza energia - ha detto Toto - È utopistico pensare di avere solo veicoli elettrici o di modificare il mercato per legge». Toto ha inoltre evidenziato la necessità di una decisione politica chiara per far partire l’eolico offshore, con un decreto che stabilisca regole precise su dove realizzare i progetti e investimenti da privilegiare sul territorio italiano, evitando l’importazione di componenti dall’estero. Sul decreto Fer 2, secondo Renexia, occorre ripensare i tempi e le modalità: «Non dovrebbe essere lanciato prima del 2032. Serve un piano che favorisca gli investimenti in Italia e la nascita di una filiera industriale completa». Infine, Toto ha affrontato il tema della transizione energetica e dei limiti imposti dalla legislazione internazionale: la fine dei motori a combustione nel 2035, ad esempio, appare secondo lui irrealistica senza un sistema energetico pronto. «Non si può pensare di arrivare negli Usa con aerei a idrogeno o di avere un sistema completamente elettrico senza basi logiche e infrastrutturali solide».
L’incontro ha così messo in luce le opportunità dell’eolico offshore come leva strategica per innovazione, lavoro e crescita economica, sottolineando l’urgenza di politiche coerenti e investimenti mirati per trasformare l’Italia in un hub energetico competitivo in Europa.
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Da sinistra, Leonardo Meoli (Group Head of Sustainability Business Integration), Marzia Ravanelli (direttrice Quality & Sustainability) di Bonifiche Feraresi, Giuliano Zulin (La Verità) e Nicola Perizzolo (project engineer)
Al panel su Made in Italy e sostenibilità, moderato da Giuliano Zulin, vicedirettore de La Verità, tre grandi realtà italiane si sono confrontate sul tema della transizione sostenibile: Bonifiche Ferraresi, la più grande azienda agricola italiana, Barilla, colosso del food, e Generali, tra i principali gruppi assicurativi europei. Tre prospettive diverse – la terra, l’industria alimentare e la finanza – che hanno mostrato come la sostenibilità, oggi, sia al centro delle strategie di sviluppo e soprattutto della valorizzazione del Made in Italy. «Non sono d’accordo che l’agricoltura sia sempre sostenibile – ha esordito Marzia Ravanelli, direttrice del Gruppo Quality & Sustainability di Bonifiche Ferraresi –. Per sfamare il pianeta servono produzioni consistenti, e per questo il tema della sostenibilità è diventato cruciale. Noi siamo partiti dalla terra, che è la nostra anima e la nostra base, e abbiamo cercato di portare avanti un modello di valorizzazione del Made in Italy e del prodotto agricolo, per poi arrivare anche al prodotto trasformato. Il nostro obiettivo è sempre stato quello di farlo nel modo più sostenibile possibile».
Per Bf, quotata in Borsa e con oltre 11.000 ettari coltivati, la sostenibilità passa soprattutto dall’innovazione. «Attraverso l’agricoltura 4.0 – ha spiegato Ravanelli – siamo in grado di dare al terreno solo quello di cui ha bisogno, quando ne ha bisogno. Così riduciamo al minimo l’uso delle risorse: dall’acqua ai fitofarmaci. Questo approccio è un grande punto di svolta: per anni è stato sottovalutato, oggi è diventato centrale». Ma non si tratta solo di coltivare. L’azienda sta lavorando anche sull’energia: «Abbiamo dotato i nostri stabilimenti di impianti fotovoltaici e stiamo realizzando un impianto di biometano a Jolanda di Savoia, proprio dove si trova la maggior parte delle nostre superfici agricole. L’agricoltura, oltre a produrre cibo, può produrre energia, riducendo i costi e aumentando l’autonomia. È questa la sfida del futuro». Dall’agricoltura si passa all’industria alimentare.
Nicola Perizzolo, project engineer di Barilla, ha sottolineato come la sostenibilità non sia una moda, ma un percorso strutturale, con obiettivi chiari e risorse ingenti. «La proprietà, anni fa, ha preso una posizione netta: vogliamo essere un’azienda di un certo tipo e fare business in un certo modo. Oggi questo significa avere un board Esg che definisce la strategia e un piano concreto che ci porterà al 2030, con un investimento da 168 milioni di euro».Non è un impegno “di facciata”. Perizzolo ha raccontato un esempio pratico: «Quando valutiamo un investimento, per esempio l’acquisto di un nuovo forno per i biscotti, inseriamo nei costi anche il valore della CO₂ che verrà emessa. Questo cambia le scelte: non prendiamo più il forno standard, ma pretendiamo soluzioni innovative dai fornitori, anche se più complicate da gestire. Il risultato è che consumiamo meno energia, pur garantendo al consumatore lo stesso prodotto. È stato uno stimolo enorme, altrimenti avremmo continuato a fare quello che si è sempre fatto».
Secondo Perizzolo, la sostenibilità è anche una leva reputazionale e sociale: «Barilla è disposta ad accettare tempi di ritorno più lunghi sugli investimenti legati alla sostenibilità. Lo facciamo perché crediamo che ci siano benefici indiretti: la reputazione, l’attrattività verso i giovani, la fiducia dei consumatori. Gli ingegneri che partecipano alle selezioni ci chiedono se quello che dichiariamo è vero. Una volta entrati, verificano con mano che lo è davvero. Questo fa la differenza».
Se agricoltura e industria alimentare sono chiamate a garantire filiere più pulite e trasparenti, la finanza deve fare la sua parte nel sostenerle. Leonardo Meoli, Group Head of Sustainability Business Integration di Generali, ha ricordato come la compagnia assicurativa lavori da anni per integrare la sostenibilità nei modelli di business: «Ogni nostra attività viene valutata sia dal punto di vista economico, sia in termini di impatto ambientale e sociale. Abbiamo stanziato 12 miliardi di euro in tre anni per investimenti legati alla transizione energetica, e siamo molto focalizzati sul supporto alle imprese e agli individui nella resilienza e nella protezione dai rischi climatici». Il mercato, ha osservato Meoli, risponde positivamente: «Vediamo che i volumi dei prodotti assicurativi con caratteristiche ESG crescono, soprattutto in Europa e in Asia. Ma è chiaro che non basta dire che un prodotto è sostenibile: deve anche garantire un ritorno economico competitivo. Quando riusciamo a unire le due cose, il cliente risponde bene».
Dalle parole dei tre manager emerge una convinzione condivisa: la sostenibilità non è un costo da sopportare, ma un investimento che rafforza la competitività del Made in Italy. «Non si tratta solo di rispettare regole o rincorrere mode – ha sintetizzato Ravanelli –. Si tratta di creare un modello di sviluppo che tenga insieme produzione, ambiente e società. Solo così possiamo guardare al futuro».In questo incrocio tra agricoltura, industria e finanza, il Made in Italy trova la sua forza. Il marchio non è più soltanto sinonimo di qualità e tradizione, ma sempre di più di innovazione e responsabilità. Dalle campagne di Jolanda di Savoia ai forni di Mulino Bianco, fino alle grandi scelte di investimento globale, la transizione passa per la capacità delle imprese italiane di essere sostenibili senza smettere di essere competitive. È la sfida del presente, ma soprattutto del futuro.
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