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2023-05-16
La vita e la famiglia di Sylvester Stallone in un reality show
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Ride Sylvester Stallone, il viso reso immobile dal ricorso al botox. Ride Al Pacino e ride Dolph Lundgren. Si danno di gomito, ma non c’è copione che li costringa a farlo. Amici lo sono per davvero, in un mondo che agli spettatori, fino ad ora, è stato precluso. Un mondo cui Stallone ha deciso di garantire un accesso esclusivo, lo stesso che è stato delle Kardashian, di Fedez e Chiara Ferragni, delle Casalinghe di Beverly Hills. Sly, settantasette anni a luglio, ha deciso di acconsentire a riempirsi la casa di telecamere e mostrare loro scampoli della sua vita familiare. Un reality, nuovo di zecca, la possibilità di vedere come viva, dove viva quest’uomo che il pubblico chiama Rambo.
The Family Stallone è la fine del mito, così come lo conoscevamo. Nessuna violenza, nessun modello di maschio tossico. Stallone, una bella casa in California, con i rampicanti ad adornarne l’ingresso, non è Rocky Balboa, Rambo, il mafioso crudele di Tulsa King. È un padre di famiglia, così innamorato delle tre figlie – Sophie, Sistine e Scarlet – da non volerne conoscere i fidanzati. «Un tempo, gli orari massacranti dei progetti cui lavoravo mi entusiasmavano. Pensavo fossero avventure fantastiche. Adesso, li vedo come una punizione. Non voglio più stare via a lungo, voglio stare con le persone che amo», spiega nella prima puntata del reality, aggiungendo come la decisione finale, la scelta di aprirsi ad un genere mai fatto prima sia maturata in famiglia. Per la famiglia. «Faccio questo lavoro da molto, dal sessanta per cento della mia vita. Le mie figlie nel frattempo sono cresciute. Ho pensato sarebbe stato fantastico fare qualcosa con loro, qualcosa al quale non avrebbero potuto sottrarsi. Dal set di un reality, non sarebbero potute scappare, avrebbero dovuto stare con me», dice ancora, e sorride, nel modo un po’ inquietante che il botox gli consente. Poi, la telecamera si sposta e a comparire in video sono le figlie, ex bambine adorate, cresciute con quella che chiamano «disciplina militare». «Papà ci voleva sportive e competitive», spiegano. Dunque, la corsa, i piegamenti, il golf e il biliardo, gli appostamenti sul balcone di casa, al secondo piano: una sagoma che ha indotto alla fuga il primo ragazzo della maggiore, impedendogli di baciarla. «Non l’ho mai più rivisto», ammette Sophie, definendo «difficile» crescere con un cognome come Stallone. Con un padre che è leggenda, con una professione, quella di attore, che ha reso impossibile la normale routine familiare.
«Il nostro non è un mondo normale», prova a sintetizzare il candidato all’Oscar, senza abbandonarsi però alla retorica della star sofferente, cui una vita di piacevoli banalità sia interdetta. Stallone non si lamenta, non rinnega, non rimpiange. Aggiusta il tiro, caso mai. E, negli episodi di The Family Stallone, mostra quel lato di sé che una carriera da macho gli ha imposto di tenere nascosto. Spazzola il gatto, sollevandogli dolcemente la coda, imbocca il cane con la propria forchetta, se lo tiene sulle ginocchia la sera, a cena. Gli serve risotto, e le figlie ridono. Sly fa spallucce, consapevole – alla vigilia degli ottanta anni – di esserselo guadagnato il diritto di essere quel che Hollywood vorrebbe impedirgli: un uomo di famiglia, arrogante solo nell’aspetto, un padre innamorato, che l’età oggi ha liberato dal dovere della severità.
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Una pizza che pare plastica, Al Pacino seduto a un tavolo, Sylvester Stallone al suo fianco. The Family Stallone, su Paramount+ da giovedì 18 maggio, ha la sua essenza in un pranzo fra amici: nella surrealtà del tutto, nelle battute sui gangster italo-americani, su ruoli diventati maschere.Ride Sylvester Stallone, il viso reso immobile dal ricorso al botox. Ride Al Pacino e ride Dolph Lundgren. Si danno di gomito, ma non c’è copione che li costringa a farlo. Amici lo sono per davvero, in un mondo che agli spettatori, fino ad ora, è stato precluso. Un mondo cui Stallone ha deciso di garantire un accesso esclusivo, lo stesso che è stato delle Kardashian, di Fedez e Chiara Ferragni, delle Casalinghe di Beverly Hills. Sly, settantasette anni a luglio, ha deciso di acconsentire a riempirsi la casa di telecamere e mostrare loro scampoli della sua vita familiare. Un reality, nuovo di zecca, la possibilità di vedere come viva, dove viva quest’uomo che il pubblico chiama Rambo. The Family Stallone è la fine del mito, così come lo conoscevamo. Nessuna violenza, nessun modello di maschio tossico. Stallone, una bella casa in California, con i rampicanti ad adornarne l’ingresso, non è Rocky Balboa, Rambo, il mafioso crudele di Tulsa King. È un padre di famiglia, così innamorato delle tre figlie – Sophie, Sistine e Scarlet – da non volerne conoscere i fidanzati. «Un tempo, gli orari massacranti dei progetti cui lavoravo mi entusiasmavano. Pensavo fossero avventure fantastiche. Adesso, li vedo come una punizione. Non voglio più stare via a lungo, voglio stare con le persone che amo», spiega nella prima puntata del reality, aggiungendo come la decisione finale, la scelta di aprirsi ad un genere mai fatto prima sia maturata in famiglia. Per la famiglia. «Faccio questo lavoro da molto, dal sessanta per cento della mia vita. Le mie figlie nel frattempo sono cresciute. Ho pensato sarebbe stato fantastico fare qualcosa con loro, qualcosa al quale non avrebbero potuto sottrarsi. Dal set di un reality, non sarebbero potute scappare, avrebbero dovuto stare con me», dice ancora, e sorride, nel modo un po’ inquietante che il botox gli consente. Poi, la telecamera si sposta e a comparire in video sono le figlie, ex bambine adorate, cresciute con quella che chiamano «disciplina militare». «Papà ci voleva sportive e competitive», spiegano. Dunque, la corsa, i piegamenti, il golf e il biliardo, gli appostamenti sul balcone di casa, al secondo piano: una sagoma che ha indotto alla fuga il primo ragazzo della maggiore, impedendogli di baciarla. «Non l’ho mai più rivisto», ammette Sophie, definendo «difficile» crescere con un cognome come Stallone. Con un padre che è leggenda, con una professione, quella di attore, che ha reso impossibile la normale routine familiare. «Il nostro non è un mondo normale», prova a sintetizzare il candidato all’Oscar, senza abbandonarsi però alla retorica della star sofferente, cui una vita di piacevoli banalità sia interdetta. Stallone non si lamenta, non rinnega, non rimpiange. Aggiusta il tiro, caso mai. E, negli episodi di The Family Stallone, mostra quel lato di sé che una carriera da macho gli ha imposto di tenere nascosto. Spazzola il gatto, sollevandogli dolcemente la coda, imbocca il cane con la propria forchetta, se lo tiene sulle ginocchia la sera, a cena. Gli serve risotto, e le figlie ridono. Sly fa spallucce, consapevole – alla vigilia degli ottanta anni – di esserselo guadagnato il diritto di essere quel che Hollywood vorrebbe impedirgli: un uomo di famiglia, arrogante solo nell’aspetto, un padre innamorato, che l’età oggi ha liberato dal dovere della severità.
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Tra Natale ed Epifania il turismo italiano supera i 7 miliardi di euro di giro d’affari. Crescono presenze, viaggi interni ed esperienze artigianali, con città d’arte e montagne in testa alle preferenze.
Le settimane comprese tra il Natale e l’Epifania si confermano uno dei momenti più redditizi dell’anno per il turismo italiano. Secondo le stime di Cna Turismo e Commercio, il giro d’affari generato tra feste, fine anno e Befana supera i 7 miliardi di euro. Un risultato che non fotografa soltanto l’andamento economico del settore, ma racconta anche un’evoluzione nelle scelte e nelle aspettative dei viaggiatori.
Nel periodo festivo sono attesi oltre 5 milioni di turisti che trascorreranno almeno una notte in una struttura ricettiva: circa 3,7 milioni sono italiani, mentre 1,3 milioni arrivano dall’estero. A questi si aggiunge una platea ben più ampia di persone in movimento: oltre 20 milioni di individui si sposteranno per escursioni giornaliere, soggiorni nelle seconde case o visite a parenti e amici.
Per quanto riguarda i flussi internazionali, la componente europea resta prevalente, con arrivi soprattutto da Francia, Germania, Spagna e Regno Unito. Fuori dal continente, si segnalano presenze significative da Stati Uniti, Canada e Cina. Le preferenze delle destinazioni confermano una tendenza ormai consolidata. In cima alle scelte ci sono le città e i borghi d’arte, seguiti dalle località di montagna. Due modi diversi di vivere le vacanze natalizie: da un lato l’attrazione per il patrimonio culturale, i mercatini e le atmosfere urbane illuminate dalle feste; dall’altro la ricerca della neve, degli sport invernali e di un contatto più diretto con l’ambiente naturale.
Alla base di questo successo concorrono diversi fattori. L’Italia continua a esercitare un forte richiamo quando si parla di tradizioni natalizie: dai presepi, in particolare quelli napoletani, ai mercatini dell’arco alpino, passando per i centri storici addobbati e le celebrazioni religiose che trovano a Roma uno dei loro punti centrali. Un insieme di elementi che costruisce un’offerta culturale difficilmente replicabile. Proprio la dimensione religiosa e identitaria del Natale italiano rappresenta un elemento di attrazione per molti visitatori nordamericani e per i turisti provenienti da Paesi di tradizione cattolica, spesso alla ricerca di un’esperienza percepita come più autentica rispetto a celebrazioni considerate eccessivamente commerciali. A questo si aggiunge la varietà climatica del Paese: temperature più miti al Sud e nelle isole per chi vuole evitare il freddo, condizioni ideali sulle Alpi per gli amanti dello sci e della montagna. Un segnale particolarmente rilevante arriva dalla crescita delle cosiddette esperienze, soprattutto quelle legate all’artigianato. Sempre più viaggiatori scelgono di affiancare alla visita dei luoghi la partecipazione diretta ad attività tradizionali: dalla preparazione della pasta fresca alle lavorazioni del vetro di Murano, fino alla ceramica umbra e toscana. È un approccio che indica un cambiamento nel modo di viaggiare, meno orientato alla semplice osservazione e più alla partecipazione.
Questo interesse incrocia diverse tendenze attuali: il bisogno di autenticità in un contesto sempre più standardizzato, la volontà di riportare a casa un’esperienza che vada oltre il souvenir e l’attenzione verso il “saper fare” italiano, riconosciuto come patrimonio immateriale di valore internazionale.
Sul piano economico incidono anche fattori più generali. La ripresa del potere d’acquisto delle classi medie in Europa e negli Stati Uniti, dopo anni di incertezza, ha sostenuto la propensione alla spesa per le vacanze. Il rafforzamento del dollaro favorisce i turisti statunitensi, mentre la fase di stabilizzazione successiva alla pandemia ha contribuito a ricostruire la fiducia nei viaggi. Il periodo natalizio rappresenta inoltre uno degli esempi più riusciti di destagionalizzazione, obiettivo perseguito da tempo dagli operatori del settore. Le strutture ricettive registrano livelli di occupazione elevati in settimane che in passato erano considerate marginali. Anche i collegamenti giocano un ruolo chiave: l’espansione dei voli low cost e il miglioramento dell’offerta ferroviaria rendono più accessibili non solo le grandi città, ma anche destinazioni meno centrali, favorendo una distribuzione più ampia dei flussi.
Accanto ai dati positivi emergono però alcune criticità. La concentrazione dei visitatori rischia di mettere sotto pressione alcune mete, mentre altre restano ai margini. Il turismo di prossimità, rappresentato dai milioni di italiani che si spostano senza pernottare in alberghi o strutture ricettive, costituisce un bacino ancora parzialmente inesplorato. Allo stesso tempo, la crescente domanda di esperienze personalizzate richiede investimenti in formazione e una maggiore integrazione tra operatori locali.
Le festività di fine anno restano comunque un motore fondamentale per l’economia del turismo, in grado di coinvolgere l’intera filiera: ristorazione, artigianato, trasporti e offerta culturale. Un patrimonio che, per continuare a produrre risultati nel tempo, richiede una strategia capace di innovare senza snaturare quell’autenticità che rappresenta il vero punto di forza del sistema italiano.
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I computer che guidano i mezzi non sono più stati in grado di calcolare come muoversi anche perché i sensori di bordo leggono lo stato dei semafori e questi erano spenti. Dunque Waymo in sé non ha alcuna colpa, e soltanto domenica pomeriggio è stato ripristinato il servizio. Dunque questa volta non c’è un problema di sicurezza per gli occupanti e neppure un pericolo per chi si trova a guidare, piuttosto, invece, c’è la dimostrazione che le nuove tecnologie sono terribilmente dipendenti da altre: in questo caso il rilevamento delle luci dei semafori, indispensabili per affrontare gli incroci e le svolte. Qui si rivela la differenza tra l’umano che conduce la meccanica e l’intelligenza artificiale: innanzi a un imprevisto, seppure con tutti i suoi limiti e difetti, un essere umano avrebbe improvvisato e tentato una soluzione, mentre la macchina (fortunatamente) ha obbedito alle leggi di controllo. Il problema non ha coinvolto i robotaxi Tesla, che invece agiscono con sistemi differenti, più simili ai ragionamenti umani, ovvero sono più indipendenti dalle infrastrutture della circolazione. Naturalmente Waymo può trarre da questo evento diverse considerazioni. La prima riguarda l’effettiva dipendenza del sistema di guida dalle infrastrutture esterne; la seconda è la valutazione di come i mezzi automatizzati hanno reagito alla mancanza di informazioni. Infine, come sarà possibile modificare i software di controllo affinché, qualora capiti un nuovo incidente tecnico, le auto possano completare in sicurezza il servizio. Dall’esterno della vicenda è invece possibile valutare anche altro: le tecnologie digitali applicate alle dinamiche automobilistiche non sono ancora sufficientemente autonome. Sia chiaro, lo stesso vale per navi e aeroplani, ma mentre per questi ultimi gli algoritmi dei droni stanno già portando a una ricaduta di tecnologia che viene trasferita ai velivoli pilotati, nel campo automobilistico c’è ancora molto lavoro da fare. Proprio ieri, sempre negli Usa, il pilota di un velivolo King Air da nove posti è stato colpito da un malore. La chiamano “pilot incapacitation” e a bordo non c’era nessun altro che potesse prendere il controllo e atterrare. Ed è qui che la tecnologia ha salvato aeroplano e occupanti: il passeggero che sedeva accanto all’uomo ha premuto il tasto del sistema “Autoland”, l’autopilota ha scelto la pista idonea per lunghezza più vicina alla posizione dell’aereo e alla rotta percorsa, ha avvertito il centro di controllo e anche messo il passeggero nelle condizioni di dichiarare la necessità di un’ambulanza sul posto. L’alternativa sarebbe stato un disastro aereo con diverse vittime. La notizia potrebbe sembrare senza alcuna correlazione con quanto accaduto a San Francisco, ma così non è: il produttore del sistema di navigazione dell’aeroplano è Garmin, ovvero il medesimo che fornisce navigatori al settore automotive. E che prima o poi vedremo fornire uno dei suoi prodotti a qualche costruttore di automobili.
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Era inoltre il 22 dicembre, quando il Times of Israel ha riferito che «Israele ha avvertito l'amministrazione Trump che il corpo delle Guardie della rivoluzione Islamica dell'Iran potrebbe utilizzare un'esercitazione militare in corso incentrata sui missili come copertura per lanciare un attacco contro Israele». «Le probabilità di un attacco iraniano sono inferiori al 50%, ma nessuno è disposto a correre il rischio e a dire che si tratta solo di un'esercitazione», ha in tal senso affermato ad Axios un funzionario di Gerusalemme.
Tutto questo, mentre il 17 dicembre il direttore del Mossad, David Barnea, aveva dichiarato che lo Stato ebraico deve «garantire» che Teheran non si doti dell’arma atomica. «L'idea di continuare a sviluppare una bomba nucleare batte ancora nei loro cuori. Abbiamo la responsabilità di garantire che il progetto nucleare, gravemente danneggiato, in stretta collaborazione con gli americani, non venga mai attivato», aveva detto.
Insomma, la tensione tra Gerusalemme e Teheran sta tornando a salire. Ricordiamo che, lo scorso giugno, le due capitali avevano combattuto la «guerra dei dodici giorni»: guerra, nel cui ambito gli Stati Uniti avevano colpito tre siti nucleari iraniani, per poi mediare un cessate il fuoco con l’aiuto del Qatar. Non dimentichiamo inoltre che Trump punta a negoziare un nuovo accordo sul nucleare di Teheran con l’obiettivo di scongiurare l’eventualità che gli ayatollah possano conseguire l’arma atomica. Uno scenario, quest’ultimo, assai temuto tanto dagli israeliani quanto dai sauditi.
Il punto è che le rinnovate tensioni tra Israele e Teheran si stanno verificando in una fase di fibrillazione tra lo Stato ebraico e la Casa Bianca. Trump è rimasto irritato a causa del recente attacco militare di Gerusalemme a Gaza, mentre Netanyahu non vede di buon occhio la possibile vendita di caccia F-35 al governo di Doha. Bisognerà quindi vedere se, nei prossimi giorni, il dossier iraniano riavvicinerà o meno il presidente americano e il premier israeliano.
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