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2021-09-04
Test salivari: serve l’ok a quelli rapidi per un utilizzo gratuito e di massa
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Per una volta che il Parlamento e i partiti - a lungo sollecitati dal nostro giornale - sembrano disposti a prendere una decisione ragionevole, verrebbe voglia di fare festa. Preso dall'entusiasmo, uno sarebbe portato a dire: ma allora non è tutto inutile, le campagne giornalistiche e civili servono ancora a qualcosa, magari si riesce ad andare oltre le polarizzazioni e indurre anche forze litigiose a convergere su qualcosa di concreto. Purtroppo, però, superato il primo momento di euforia, la realtà ti riporta subito con i piedi per terra.
Stiamo parlando della campagna della Verità a favore dei tamponi salivari rapidi. Questo giornale, che qualche fazioso accusa di indicare solo problemi, in realtà si fa costantemente carico di proporre soluzioni, percorsi razionali e praticabili. E a maggior ragione l'abbiamo fatto per tutta questa estate, prevedendo (profezia purtroppo azzeccata) un settembre nero, una ripresa fatta di tensioni sociali e problemi irrisolti. Ecco, l'altro giorno, in commissione alla Camera, il governo, riformulando due emendamenti (uno della Lega e uno dei grillini), ha accolto la direzione di marcia che La Verità aveva indicato, includendo anche i tamponi salivari tra gli strumenti che danno diritto a ottenere il green pass.
Purtroppo, però, una volta imboccata la strada giusta, anziché premere l'acceleratore, il governo ha schiacciato il pedale del freno. In che senso? Nel senso che l'ok ai tamponi salivari è stato limitato a quelli cosiddetti molecolari. Apparentemente, può sembrare un dettaglio. I più magnanimi potrebbero dire: accontentiamoci di questo primo passo, o comunque prendiamo atto dell'accoglimento del principio. E in effetti, già nell'edizione di ieri, La Verità ha valorizzato la notizia, riconoscendo all'esecutivo un primo comportamento improntato alla buona volontà.
Ma purtroppo non basta. I tamponi salivari molecolari sono quelli che richiedono un passaggio in laboratorio: il campione di saliva, come si dice con brutto anglicismo, va «processato». Il che impone dalle 12 alle 36 ore per ottenere la risposta. Morale: anche quando l'esito è confortante (cioè negativo), tutta l'operazione diventa una mezza presa in giro, considerando che il valore del tampone è di sole 48 ore, che vanno conteggiate non dal momento in cui uno riceve la risposta, ma da quello in cui viene fatto il test.
Ciò che invece serviva e serve è che il Parlamento dia semaforo verde al tampone salivare rapido, quello che assicura la risposta in soli 10 minuti. Tecnicamente, si parla di «lollipop»: un vero e proprio lecca lecca, che consente dopo pochi minuti di sapere se si è negativi o no.
Non è una questione di lana caprina. Tra i due strumenti la differenza è enorme. Si pensi, nel secondo caso (quello del lecca lecca), agli effetti benefici in una situazione in cui più persone sono chiuse per molte ore al giorno in uno stesso spazio, ad esempio a scuola o in azienda. Se c'è un caso di positività, adesso, c'è il rischio altissimo di finire tutti in quarantena (o, nel caso della scuola, in didattica a distanza). Al contrario, con l'adozione del tampone salivare rapido, saremmo davanti a un piccolo uovo di Colombo: test immediato (e non invasivo) per tutti, e possibilità di proseguire le attività regolarmente circa un quarto d'ora dopo.
Che cosa servirebbe allora? Tre passaggi. Primo: che governo e Parlamento diano l'ok a questo strumento. Secondo: che i costi non siano a carico del cittadino, come invece accade oggi. Terzo: che sia nel settore privato sia nel settore pubblico questo mezzo non sia usato solo «a campione», ma in modo sistematico e a tappeto, come strumento costante di screening. Per il momento, è solo previsto un programma di «scuole sentinella», con appena 110.000 studenti che saranno sottoposti al test ogni 15 giorni. Per avere un'idea degli ordini di grandezza differenti, la Francia prevede da questo settembre (e parliamo solo della scuola) di usare 600.000 tamponi salivari a settimana.
La verità è che due cose remano contro i tamponi salivari rapidi. La prima è un retropensiero della comunità scientifica: alcuni sono convinti che l'adozione su larga scala del tampone salivare a risposta immediata rappresenterebbe un disincentivo alla vaccinazione. Tesi curiosa: come se il vaccino, anziché un mezzo, fosse divenuto un fine in sé.
La seconda è un retropensiero più politico, non meno odioso: la semplicità di questo tipo di screening avrebbe l'effetto di farci riavvicinare alla normalità, di toglierci la «scimmia» del Covid dalla spalla. Finirebbe l'emergenza: alla quale qualcuno, ai piani alti della politica romana, sembra essersi affezionato. Uno stato d'eccezione semiperenne, la riduzione dei dissenzienti a fastidiosi dissidenti: non disturbate il manovratore, insomma. Proprio per questo, a maggior ragione, è giunta l'ora di voltare pagina.
Scoppia la grana dei tamponi inutili
Il tampone effettuato gratuitamente nei gazebo della Croce rossa italiana (Cri) è valido per ottenere il green pass, ma nella stragrande maggioranza dei casi, chi ne avrebbe diritto (perché l'esito è negativo) non ottiene il lasciapassare.
È successo in questi giorni a una nostra lettrice. Per una questione lavorativa doveva esibire il green pass ma, non avendo ancora la vaccinazione, si è recata a fare il test al presidio della Cri, di fronte alla stazione di Torino Porta nuova. Tutto è andato benissimo: tempistiche e referto in tempi record. Con sua grande sorpresa però, una volta a casa e collegata al sito del ministero per ottenere il green pass, ha notato che nel documento in suo possesso non c'erano i codici per scaricare la carta verde. Nel chiedere chiarimenti al numero verde della Croce rossa italiana ha ottenuto una risposta semplice: a Torino non c'è l'accordo con l'Azienda sanitaria e quindi il test non è valido per ottenere il green pass. La giovane donna si è quindi recata in una farmacia e, con 15 euro, ha rifatto il test e ottenuto i codici per il lasciapassare di 48 ore.
In effetti, un'informazione in più sul sito della Croce rossa, per spiegare che i tamponi rapidi gratuiti non rilasciano sempre il green pass, sarebbe opportuna. Chi, dovendo prendere un Frecciarossa, contasse sul tampone di fronte alla stazione per avere il pass, obbligatorio dal primo settembre anche nei treni a lunga percorrenza, potrebbe perdere sia tempo che il treno.
Attualmente, senza alcun costo, limite d'età o prescrizione medica, chiunque può sottoporsi al tampone antigenico rapido nelle strutture allestite dalla Croce rossa in 12 stazioni (Roma Termini, Milano Centrale, Bari, Bologna, Cagliari, Firenze Santa Maria Novella, Palermo, Reggio Calabria, Torino Porta nuova, Venezia Santa Lucia, Genova Piazza Principe e Napoli Centrale). «Il test che si esegue», spiega Davide Del Brocco, responsabile della Croce rossa di questo progetto, «è tra quelli approvati per ottenere il pass, ma per il suo rilascio serve l'accreditamento delle postazioni presso le autorità competenti». Attualmente sono autorizzate le stazioni di Roma e Milano (ovvero due su 12). Le altre postazioni attendono il via libera nei prossimi giorni, ma «la normativa è molto complicata», dice Del Brocco. Sulle difficoltà burocratiche nessuno nutriva dubbi, ma la questione grave è che manca, a livello governativo, la capacità di gestire e mettere a sistema questo e altri aiuti che arrivano da vari enti che forniscono servizi utili e gratuiti al cittadino. «L'iniziativa», continua Del Brocco, «è stata messa a punto grazie al finanziamento della Commissione europea alla Croce rossa internazionale, che ha stanziato, per l'Italia, 9 milioni di franchi svizzeri (circa 8,3 milioni di euro) con lo scopo di fare screening alla popolazione per tracciare il virus e consentire, alle fasce più vulnerabili che non possono andare in farmacia a pagare il tampone, di farlo gratuitamente». Il progetto, iniziato ad aprile 2021 con le postazioni di Roma e Milano, arrivato oggi in 12 principali scali ferroviari, è nato quindi con un obiettivo diverso da quello di fornire il green pass. «Cerchiamo di sostenere i Paesi nel tracciamento del virus. Abbiamo anche delle strutture mobili che impieghiamo in base alle necessità, come per testare chi è arrivato dall'Afghanistan, ma anche per eventi di qualche giorno», precisa il responsabile della Croce rossa. «Il pass è stato un peso aggiuntivo e l'interlocuzione non è stata semplice». Attualmente questi presidi fanno più di 4.000 tamponi al giorno, oltre i 3.000 iniziali. A Milano «carichiamo i dati in modo massivo e si ottiene velocemente il trasferimento dei codici per il green pass. A Roma la gestione è manuale e ci mettiamo 4 o 5 minuti in più per tampone», osserva Del Brocco. «Se ci fosse un sistema centralizzato e automatizzato, potremmo fare tranquillamente 5.000 tamponi (e green pass, ndr) al giorno, ma ogni Regione ha un suo sistema: manuale, app, massivo».
C'è però un'altra questione da non sottovalutare. Questo progetto della Croce rossa termina il 30 settembre. «La nostra volontà è di poter continuare, ma non è ancora certo», conclude il capo dell'operazione. Se non cambia nulla, quando tutti i centri saranno accreditati, non ci sarà più il progetto.
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Il via libera della commissione alla Camera, chiesto dalla «Verità», è positivo. Ma non deve limitare l'accesso al pass solo con i molecolari. Dopodiché bisogna investire su questa idea se si vuole evitare che sia una farsaSolo due gazebo della Croce rossa italiana su 12 rilasciano il certificato dopo l'esame Per colpa della burocrazia mancano gli accreditamenti, a eccezione di Roma e MilanoLo speciale contiene due articoliPer una volta che il Parlamento e i partiti - a lungo sollecitati dal nostro giornale - sembrano disposti a prendere una decisione ragionevole, verrebbe voglia di fare festa. Preso dall'entusiasmo, uno sarebbe portato a dire: ma allora non è tutto inutile, le campagne giornalistiche e civili servono ancora a qualcosa, magari si riesce ad andare oltre le polarizzazioni e indurre anche forze litigiose a convergere su qualcosa di concreto. Purtroppo, però, superato il primo momento di euforia, la realtà ti riporta subito con i piedi per terra. Stiamo parlando della campagna della Verità a favore dei tamponi salivari rapidi. Questo giornale, che qualche fazioso accusa di indicare solo problemi, in realtà si fa costantemente carico di proporre soluzioni, percorsi razionali e praticabili. E a maggior ragione l'abbiamo fatto per tutta questa estate, prevedendo (profezia purtroppo azzeccata) un settembre nero, una ripresa fatta di tensioni sociali e problemi irrisolti. Ecco, l'altro giorno, in commissione alla Camera, il governo, riformulando due emendamenti (uno della Lega e uno dei grillini), ha accolto la direzione di marcia che La Verità aveva indicato, includendo anche i tamponi salivari tra gli strumenti che danno diritto a ottenere il green pass. Purtroppo, però, una volta imboccata la strada giusta, anziché premere l'acceleratore, il governo ha schiacciato il pedale del freno. In che senso? Nel senso che l'ok ai tamponi salivari è stato limitato a quelli cosiddetti molecolari. Apparentemente, può sembrare un dettaglio. I più magnanimi potrebbero dire: accontentiamoci di questo primo passo, o comunque prendiamo atto dell'accoglimento del principio. E in effetti, già nell'edizione di ieri, La Verità ha valorizzato la notizia, riconoscendo all'esecutivo un primo comportamento improntato alla buona volontà.Ma purtroppo non basta. I tamponi salivari molecolari sono quelli che richiedono un passaggio in laboratorio: il campione di saliva, come si dice con brutto anglicismo, va «processato». Il che impone dalle 12 alle 36 ore per ottenere la risposta. Morale: anche quando l'esito è confortante (cioè negativo), tutta l'operazione diventa una mezza presa in giro, considerando che il valore del tampone è di sole 48 ore, che vanno conteggiate non dal momento in cui uno riceve la risposta, ma da quello in cui viene fatto il test. Ciò che invece serviva e serve è che il Parlamento dia semaforo verde al tampone salivare rapido, quello che assicura la risposta in soli 10 minuti. Tecnicamente, si parla di «lollipop»: un vero e proprio lecca lecca, che consente dopo pochi minuti di sapere se si è negativi o no. Non è una questione di lana caprina. Tra i due strumenti la differenza è enorme. Si pensi, nel secondo caso (quello del lecca lecca), agli effetti benefici in una situazione in cui più persone sono chiuse per molte ore al giorno in uno stesso spazio, ad esempio a scuola o in azienda. Se c'è un caso di positività, adesso, c'è il rischio altissimo di finire tutti in quarantena (o, nel caso della scuola, in didattica a distanza). Al contrario, con l'adozione del tampone salivare rapido, saremmo davanti a un piccolo uovo di Colombo: test immediato (e non invasivo) per tutti, e possibilità di proseguire le attività regolarmente circa un quarto d'ora dopo. Che cosa servirebbe allora? Tre passaggi. Primo: che governo e Parlamento diano l'ok a questo strumento. Secondo: che i costi non siano a carico del cittadino, come invece accade oggi. Terzo: che sia nel settore privato sia nel settore pubblico questo mezzo non sia usato solo «a campione», ma in modo sistematico e a tappeto, come strumento costante di screening. Per il momento, è solo previsto un programma di «scuole sentinella», con appena 110.000 studenti che saranno sottoposti al test ogni 15 giorni. Per avere un'idea degli ordini di grandezza differenti, la Francia prevede da questo settembre (e parliamo solo della scuola) di usare 600.000 tamponi salivari a settimana. La verità è che due cose remano contro i tamponi salivari rapidi. La prima è un retropensiero della comunità scientifica: alcuni sono convinti che l'adozione su larga scala del tampone salivare a risposta immediata rappresenterebbe un disincentivo alla vaccinazione. Tesi curiosa: come se il vaccino, anziché un mezzo, fosse divenuto un fine in sé. La seconda è un retropensiero più politico, non meno odioso: la semplicità di questo tipo di screening avrebbe l'effetto di farci riavvicinare alla normalità, di toglierci la «scimmia» del Covid dalla spalla. Finirebbe l'emergenza: alla quale qualcuno, ai piani alti della politica romana, sembra essersi affezionato. Uno stato d'eccezione semiperenne, la riduzione dei dissenzienti a fastidiosi dissidenti: non disturbate il manovratore, insomma. 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Tutto è andato benissimo: tempistiche e referto in tempi record. Con sua grande sorpresa però, una volta a casa e collegata al sito del ministero per ottenere il green pass, ha notato che nel documento in suo possesso non c'erano i codici per scaricare la carta verde. Nel chiedere chiarimenti al numero verde della Croce rossa italiana ha ottenuto una risposta semplice: a Torino non c'è l'accordo con l'Azienda sanitaria e quindi il test non è valido per ottenere il green pass. La giovane donna si è quindi recata in una farmacia e, con 15 euro, ha rifatto il test e ottenuto i codici per il lasciapassare di 48 ore. In effetti, un'informazione in più sul sito della Croce rossa, per spiegare che i tamponi rapidi gratuiti non rilasciano sempre il green pass, sarebbe opportuna. Chi, dovendo prendere un Frecciarossa, contasse sul tampone di fronte alla stazione per avere il pass, obbligatorio dal primo settembre anche nei treni a lunga percorrenza, potrebbe perdere sia tempo che il treno. Attualmente, senza alcun costo, limite d'età o prescrizione medica, chiunque può sottoporsi al tampone antigenico rapido nelle strutture allestite dalla Croce rossa in 12 stazioni (Roma Termini, Milano Centrale, Bari, Bologna, Cagliari, Firenze Santa Maria Novella, Palermo, Reggio Calabria, Torino Porta nuova, Venezia Santa Lucia, Genova Piazza Principe e Napoli Centrale). «Il test che si esegue», spiega Davide Del Brocco, responsabile della Croce rossa di questo progetto, «è tra quelli approvati per ottenere il pass, ma per il suo rilascio serve l'accreditamento delle postazioni presso le autorità competenti». Attualmente sono autorizzate le stazioni di Roma e Milano (ovvero due su 12). Le altre postazioni attendono il via libera nei prossimi giorni, ma «la normativa è molto complicata», dice Del Brocco. Sulle difficoltà burocratiche nessuno nutriva dubbi, ma la questione grave è che manca, a livello governativo, la capacità di gestire e mettere a sistema questo e altri aiuti che arrivano da vari enti che forniscono servizi utili e gratuiti al cittadino. «L'iniziativa», continua Del Brocco, «è stata messa a punto grazie al finanziamento della Commissione europea alla Croce rossa internazionale, che ha stanziato, per l'Italia, 9 milioni di franchi svizzeri (circa 8,3 milioni di euro) con lo scopo di fare screening alla popolazione per tracciare il virus e consentire, alle fasce più vulnerabili che non possono andare in farmacia a pagare il tampone, di farlo gratuitamente». Il progetto, iniziato ad aprile 2021 con le postazioni di Roma e Milano, arrivato oggi in 12 principali scali ferroviari, è nato quindi con un obiettivo diverso da quello di fornire il green pass. «Cerchiamo di sostenere i Paesi nel tracciamento del virus. Abbiamo anche delle strutture mobili che impieghiamo in base alle necessità, come per testare chi è arrivato dall'Afghanistan, ma anche per eventi di qualche giorno», precisa il responsabile della Croce rossa. «Il pass è stato un peso aggiuntivo e l'interlocuzione non è stata semplice». Attualmente questi presidi fanno più di 4.000 tamponi al giorno, oltre i 3.000 iniziali. A Milano «carichiamo i dati in modo massivo e si ottiene velocemente il trasferimento dei codici per il green pass. A Roma la gestione è manuale e ci mettiamo 4 o 5 minuti in più per tampone», osserva Del Brocco. «Se ci fosse un sistema centralizzato e automatizzato, potremmo fare tranquillamente 5.000 tamponi (e green pass, ndr) al giorno, ma ogni Regione ha un suo sistema: manuale, app, massivo». C'è però un'altra questione da non sottovalutare. Questo progetto della Croce rossa termina il 30 settembre. «La nostra volontà è di poter continuare, ma non è ancora certo», conclude il capo dell'operazione. Se non cambia nulla, quando tutti i centri saranno accreditati, non ci sarà più il progetto.
Il presidente della Regione Toscana, Eugenio Giani, risponde al Maestro Riccardo Muti e si impegna a lavorare con il ministero degli Esteri per avviare contatti ai più alti livelli con la Francia per riportare a Firenze le spoglie del grande compositore Cherubini.
Michele Emiliano (Ansa)
Fino ad oggi, però, nessun risultato. Forse la comunicazione non è stata così «forte» come fu la lettera che proprio l’allora governatore dem inviò a tutti i dirigenti e dipendenti della Regione, delle sue agenzie e società partecipate, invitandoli a interrompere i rapporti con il governo di Netanyahu «a causa del genocidio di inermi palestinesi e con tutti quei soggetti ad esso riconducibili che non siano apertamente e dichiaratamente motivati dalla volontà di organizzare iniziative per far cessare il massacro nella Striscia di Gaza».
Ora, dopo l’addio di Emiliano e l’arrivo del neo governatore Antonio Decaro, gli sprechi non sarebbero stati eliminati dalle sette società nel mirino, parzialmente o interamente controllate dalla Regione Puglia: Acquedotto spa, InnovaPuglia, Aeroporti di Puglia, Puglia valore immobiliare, Terme di Santa Cesarea, Puglia sviluppo e Aseco. Infatti, secondo il report approdato in giunta regionale nel corso dell’ultima seduta, è stato evidenziato che non c’è stata riduzione di spesa di funzionamento in nessuna di queste, anzi in tre hanno addirittura superato i limiti per consulenze (Puglia sviluppo, Acquedotto e Terme di Santa Cesarea), mentre il dato peggiore è sulle spese di acquisto, manutenzione, noleggio delle auto o di acquisto di buoni taxi. Quattro società non hanno comunicato alcun dato, mentre Aeroporti ha certificato lo sforamento. Nel dettaglio, Acquedotto pugliese, anziché contenere le spese di funzionamento, le ha incrementate di 17 milioni di euro rispetto al 2024. La giustificazione? Il maggior costo del personale «riconducibile al rinnovo del contratto collettivo nazionale», ma pure «l’incremento delle risorse in forza alla società, spese legali, assicurazioni, convegni, pubblicità e marketing, buoni pasto, costi postali non ribaltabili all’utenza nell’ambito della tariffa del Servizio idrico integrato».
Per quanto riguarda le consulenze, invece, Aqp sostiene che, essendo entrati i Comuni nell’assetto societario, nella fase di trasformazione sono stati necessari 639.000 euro per le consulenze.
Aeroporti di Puglia attribuisce l’aumento di spese all’organizzazione del G7, anche se l’incremento dell’8,44%, secondo la società, «è comunque inferiore all’aumento del traffico registrato nel 2024 rispetto al 2023 (+10,51%) e quindi dei ricavi. Spese superate, alla faccia del risparmio, anche per auto e taxi: 120.000 euro in più. Costi lievitati anche per InnovaPuglia, la controllata che si occupa di programmazione strategica a sostegno dell’innovazione: 12 milioni di euro nel 2024 a fronte dei 7 milioni del 2023, passando, in termini percentuali sul valore della produzione, dal 18,21% al 43,68%. Di Aseco, la società in house controllata da Aqp e Ager che si occupa di smaltimento di fanghi e frazione organica dei rifiuti urbani, non si hanno dati aggiornati al punto che è stata sollecitata dalla stessa Regione a comunicarli.
Insomma, secondo la Regione, se aumentano i costi vanno ridotti i servizi poiché il Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica prevede quella di contenere le spese di funzionamento individuando specifici obiettivi di spesa come quelli per il personale e quelli per consulenze, studi e ricerche. E la stessa Regione, che ha potere di vigilanza e di controllo, dove accerta «il mancato e ingiustificato raggiungimento degli obiettivi di contenimento della spesa» può «revocare gli incarichi degli organi di direzione, amministrazione e controllo nominati nelle società». La palla passa a Decaro.
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Inizialmente, la presentazione della strategia della Commissione avrebbe dovuto avvenire mercoledì, ma la lettera di Friedrich Merz del 28 novembre diretta a Ursula von der Leyen ha costretto a ritardare la comunicazione. In quel giorno Merz, appena ottenuto dal Bundestag il via libera alla costosa riforma delle pensioni, si era subito rivolto a Von der Leyen chiedendo modifiche pesanti alle regole sul bando delle auto Ice al 2035. Questa contemporaneità ha reso evidente che il via libera alla richiesta di rilassamento delle regole sulle auto arrivava dalla Spd come contropartita al sì della Cdu alla riforma delle pensioni, come spiegato sulla Verità del 2 dicembre.
Se il contenuto della revisione dovesse essere quello circolato ieri, vorrebbe dire che la posizione tedesca è stata interamente accolta. I punti di cui Bloomberg parla, infatti, sono quelli contenuti nella lettera di Merz.
Non è ancora chiaro quale sarà la quota di veicoli ibridi plug-in e ad autonomia estesa che potranno essere immatricolati dopo il 2035, né se la data del 2040 sarà mantenuta. Anche i dettagli tecnici chiave sugli e-fuel e sui biocarburanti avanzati non ci sono. Resta poi ancora da precisare (da anni) quale metodo sarà utilizzato per il Life cycle assessment (Lca), ovvero i criteri con cui si valutano le emissioni nell’intero ciclo di vita dei veicoli elettrici. Non si tratta di un banale dettaglio tecnico, ma dell’architrave delle nuove regole, da cui dipenderanno tecnologie e modelli in futuro. Un Lca avrebbe già dovuto essere definito entro il 31 dicembre di quest’anno dalla Commissione, ma ancora non si è visto nulla. Contabilizzare l’acciaio green nella produzione di veicoli significa dotarsi di un metodo Lca condiviso, così finalmente si saprà quanto emette davvero un veicolo elettrico (sempre se il Lca è fatto bene).
Qualche giorno fa, sei governi Ue, tra cui quello italiano, affiancato da Polonia, Ungheria, Slovacchia, Bulgaria e Repubblica Ceca, in scia alla Germania, avevano chiesto alla Commissione di proporre un allentamento delle regole sulle auto, consentendo gli ibridi plug-in e le auto con autonomia estesa anche dopo il 2035. In una situazione in cui l’assalto al mercato europeo da parte dei marchi cinesi è appena iniziato, le case del Vecchio continente faticano a tenere il passo. L’incertezza normativa è però anche peggio di una regola fatta male. L’industria europea dell’auto si sta preparando a mantenere in produzione modelli con il motore a scoppio anche dopo il 2035, con la relativa componentistica, ma tutta la filiera, che coinvolge milioni di lavoratori in Europa e fuori, ha bisogno di certezze.
Intanto, l’applicazione al settore auto della norma «made in Europe», che dovrebbe servire a proteggere l’industria europea stabilendo quote minime di componenti fatti al 100% in Europa, è stata rinviata a fine gennaio. La regola, fortemente voluta dalla Francia ma che lascia la Germania fredda, si intreccia con la richiesta di dazi sulle merci cinesi fatta da Macron. Avanti (o indietro) in ordine sparso.
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