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2022-05-20
Telefonata del Pentagono ai russi: «Difficile respingerli dal Donbass»
Da sinistra, Valery Gerasimov e Mark Milley (Ansa)
Per definizione, nelle situazioni difficili da decifrare, non c’è da essere ottimisti o pessimisti: occorre registrare razionalmente gli elementi offerti dalla cronaca, preparandosi a differenti scenari. Resta - purtroppo prevalente - quello di un conflitto lungo: depone in questa direzione il sostanziale stallo sul terreno, che non fa immaginare nel Donbass una netta prevalenza di uno dei due eserciti, e la difficoltà anche solo di immaginare una qualunque spartizione di territori che veda gli invasori russi e gli aggrediti ucraini concordi su una qualche soluzione reciprocamente accettabile. E tuttavia - sul lato opposto - ieri si sono affastellati alcuni elementi che fanno pensare a un filo di dialogo: magari esile, ma non inesistente. Gli elementi che vanno in questa direzione sono almeno sei.
Il primo è la telefonata tra il capo di stato maggiore delle forze armate russe, Valery Gerasimov, e l’omologo statunitense, Mark Milley. Lo ha reso noto il ministero della Difesa russo precisando che il contatto è arrivato «su iniziativa della parte americana». Le parti, si legge in una nota, hanno discusso di «questioni di reciproco interesse, inclusa la situazione in Ucraina». Secondo le agenzie, un funzionario del Pentagono avrebbe detto che sarà difficile respingere i russi dal Donbass: «Siamo assolutamente determinati a fare tutto il possibile per aiutare gli ucraini a difendersi», ma «resteremo prudenti nelle nostre previsioni». Questa telefonata fa seguito a quella della scorsa settimana tra i due ministri della Difesa, Lloyd Austin e Sergei Shoigu. Secondo fonti Usa, da diverse settimane il Pentagono aveva sollecitato la Difesa di Mosca, ma Shoigu ha preso la telefonata solo la scorsa settimana, seguito a ruota, ieri, da Gerasimov. Gli ottimisti possono dedurne che settori della Difesa russa percepiscano le proprie difficoltà sul campo, e - in qualche misura - siano entrate nell’ordine di idee per lo meno di parlare con Washington. Va anche tenuto presente che, pur senza dichiararlo, c’è sicuramente un qualche contatto costante tra alti ufficiali russi e ucraini: quanto meno per prevenire incidenti non voluti, o per evitare che una situazione già tesissima venga portata a un punto di non ritorno da eventi accidentali. Non a caso, ieri gli invasori hanno confermato di essere «pronti a nuovi colloqui con Kiev».
Il secondo elemento da tenere presente è rappresentato da un rinnovato attivismo vaticano. Il segretario di Stato Pietro Parolin, a margine di un evento alla Cattolica di Milano, ha fatto sapere che per il momento in Ucraina «c’è l’arcivescovo Paul Richard Gallagher: è partito questa mattina (ieri per chi legge, ndr) e credo ritornerà domenica. Vedremo anche in seguito alla sua missione che cosa conviene fare». E ancora: «Per il momento non c’è da parte del Papa l’intenzione di andare in Ucraina, ma si valuterà anche alla luce di questa missione».
Il terzo elemento è un colloquio, avvenuto sempre ieri, tra il capo dell’Oms, Tedros Ghebreyesus, e il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov. Ha riferito Ghebreyesus: «Ho chiesto un accesso sicuro a Mariupol, Kherson, Zaporizhia e altre aree assediate per portare aiuti umanitari: i civili devono ricevere protezione». Intendiamoci: già altre volte la promessa di consentire assistenza ai civili è stata disattesa da parte russa, ma si può sperare che, in questa fase, Mosca sia interessata a fornire qualche - magari laterale - segno di disponibilità su questo piano.
Il quarto elemento è più ambiguo e difficile da decifrare. Il portavoce del Cremlino, Dmitrij Peskov, citato dall’agenzia Interfax, ha dichiarato che «il futuro dei territori ucraini controllati dalle forze russe sarà deciso solo in base alla volontà dei residenti locali». L’affermazione è naturalmente suscettibile di interpretazioni opposte: si può sperare in consultazioni serie e sotto controllo di forze internazionali davvero terze, o invece si può temere un’ipotesi di referendum-farsa in costanza di occupazione russa.
Il quinto elemento ha a che fare con un colloquio tra il primo ministro britannico, Boris Johnson, e il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky: conversazione - ha riferito Downing Street - non solo sui temi legati alla situazione sul terreno e su quella che viene definita «un’architettura di sicurezza di lungo termine per l’Ucraina», ma pure sul modo di garantire percorsi via mare e via terra per il grano ucraino. E qui si arriva a uno degli snodi decisivi della trattativa, se un negoziato prenderà corpo: consentire la funzionalità dei porti. Su questo argomento, però, da Mosca trapela per ora solo un segnale di sfida: li riapriremo quando saranno revocate le sanzioni.
Il sesto elemento è un inatteso atto di fiducia verso Mosca da parte ucraina. Il brigadiere generale Oleksii Gromov, capo del dipartimento operativo dello Stato maggiore di Kiev, avrebbe detto che «le misure per evacuare i soldati ucraini da Mariupol continuano» e avrebbe aggiunto che «sappiamo che il nostro nemico è insidioso, ma crediamo che la parola data verrà mantenuta». Insomma, a Kiev non si sarebbe persa la speranza sul rispetto dei patti relativi alla sorte delle truppe uscite dall’acciaieria e trasportate nei territori sotto controllo russo.
Va infine segnalato (e qui si torna ai segnali negativi) che il già citato portavoce del Cremlino, Peskov, ha dichiarato che il Cremlino «non sa nulla del piano italiano», con riferimento ai quattro step per arrivare in tempi rapidi al cessate il fuoco presentato all’Onu dal ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. «Ne abbiamo appreso l’esistenza dai media», ha laconicamente fatto sapere Peskov.
Adesso lo zar sfodera le armi laser
Giunti all’ottantacinquesimo giorno di guerra, secondo il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, «la Russia non ha raggiunto i suoi obiettivi in Ucraina: ha dovuto abbandonare Kiev e Kharkiv e l’offensiva nel Donbass è in stallo. Ma non crediamo che Mosca abbia rinunciato ai suoi piani e dunque dobbiamo prepararci a sostenere l’Ucraina sul medio e lungo periodo». A lui ha fatto eco il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, che durante un discorso notturno alla nazione ha affermato: «La Russia ha lanciato più di 2.000 missili durante il suo attacco all’Ucraina, gran parte del suo arsenale». Fin qui le parole, mentre la guerra continua a mietere vittime. Il capo dell’amministrazione militare regionale, Pavlo Kyrylenko, ha dichiarato all’agenzia Interfax Ukraine che lo scorso 18 maggio «i russi hanno ucciso dieci civili del Donbass, sette a Lyman e tre a Bakhmut. Tra i morti ci sono due bambini, uno a Lyman e uno a Bakhmut», mentre altre sette persone sono state ferite ieri, 19 maggio.
Ieri, la compagnia ferroviaria statale ucraina ha riferito che sta conservando «centinaia di corpi di soldati russi in auto frigorifere da tre mesi», ma che la madrepatria non sta reclamando i cadaveri, benché la società voglia restituirli ai parenti.
Intanto le forze russe, nonostante lo stallo di questi giorni, hanno continuato a bombardare con artiglieria e mortai gli insediamenti nelle regioni di Chernihiv e Sumy e hanno condotto attacchi missilistici contro l’insediamento di Desna. Anche ieri l’esercito russo ha continuato a bombardare la regione ucraina di Sumy (Est) lungo l’intero confine con la Russia. Il capo dell’amministrazione militare regionale, Dmytro Zhyvytskyi, su Telegram ha scritto: «I nemici russi sembrano impazziti. I bombardamenti sono continuati lungo l’intero confine della regione di Sumy».
Nella giornata di ieri ha parlato anche il vicepremier russo, Yury Borisov, che ha annunciato che «la Russia sta impiegando armi laser nella sua operazione speciale in Ucraina, in particolare il sistema laser Zadira, in grado di colpire obiettivi a una distanza di 5 chilometri». Premesso che si tratta ancora di due prototipi, l’eventuale impiego del sistema laser Zadira in Ucraina rappresenta perfettamente lo scenario asimmetrico che si ritrovano ad affrontare le truppe russe. Secondo l’analista strategico Franco Iacch, «Mosca è pienamente consapevole dell’efficacia dei missili del tipo Pantsyr e Tor, ma tali caratteristiche hanno un prezzo esorbitante se paragonate alle minacce come uno sciame di droni commerciali. Le armi a energia diretta sono concepite per livellare la strategia di logoramento che prevede l’adattamento della tecnologia civile a buon mercato e facilmente reperibile da scagliare contro i costosi sistemi di fascia alta, progettati per la guerra convenzionale tra Stati, così da migliorare la letalità prolungata nei conflitti ad alta intensità». Questo li rende ideali per abbattere bersagli piccoli e veloci come i droni e nel ruolo di controrazzo, artiglieria e mortaio? «La tecnologia laser», continua Iacch, «è in fase di sviluppo da decenni, ma ad oggi non rappresenta la riposta definitiva alla minaccia aerea improvvisata e al fuoco indiretto a basso costo a causa delle limitazioni a cui è soggetta (condizioni meteo, accumulo termico, portata e fonte di energia, ad esempio)».
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Mosca, in difficoltà sul campo, ripropone colloqui con Kiev, ma sfida l’Occidente sui porti: «Togliete le sanzioni e li riapriremo». La resistenza: «Sui soldati di Azovstal ci fidiamo dei nemici». Il Vaticano rilancia i negoziati.Adesso lo zar sfodera le armi laser. La minaccia del vicepremier: «I nostri sistemi colpiscono a chilometri di distanza». Il segretario dell’Alleanza atlantica: «C’è uno stallo, però gli invasori non molleranno».Lo speciale comprende due articoli. Per definizione, nelle situazioni difficili da decifrare, non c’è da essere ottimisti o pessimisti: occorre registrare razionalmente gli elementi offerti dalla cronaca, preparandosi a differenti scenari. Resta - purtroppo prevalente - quello di un conflitto lungo: depone in questa direzione il sostanziale stallo sul terreno, che non fa immaginare nel Donbass una netta prevalenza di uno dei due eserciti, e la difficoltà anche solo di immaginare una qualunque spartizione di territori che veda gli invasori russi e gli aggrediti ucraini concordi su una qualche soluzione reciprocamente accettabile. E tuttavia - sul lato opposto - ieri si sono affastellati alcuni elementi che fanno pensare a un filo di dialogo: magari esile, ma non inesistente. Gli elementi che vanno in questa direzione sono almeno sei.Il primo è la telefonata tra il capo di stato maggiore delle forze armate russe, Valery Gerasimov, e l’omologo statunitense, Mark Milley. Lo ha reso noto il ministero della Difesa russo precisando che il contatto è arrivato «su iniziativa della parte americana». Le parti, si legge in una nota, hanno discusso di «questioni di reciproco interesse, inclusa la situazione in Ucraina». Secondo le agenzie, un funzionario del Pentagono avrebbe detto che sarà difficile respingere i russi dal Donbass: «Siamo assolutamente determinati a fare tutto il possibile per aiutare gli ucraini a difendersi», ma «resteremo prudenti nelle nostre previsioni». Questa telefonata fa seguito a quella della scorsa settimana tra i due ministri della Difesa, Lloyd Austin e Sergei Shoigu. Secondo fonti Usa, da diverse settimane il Pentagono aveva sollecitato la Difesa di Mosca, ma Shoigu ha preso la telefonata solo la scorsa settimana, seguito a ruota, ieri, da Gerasimov. Gli ottimisti possono dedurne che settori della Difesa russa percepiscano le proprie difficoltà sul campo, e - in qualche misura - siano entrate nell’ordine di idee per lo meno di parlare con Washington. Va anche tenuto presente che, pur senza dichiararlo, c’è sicuramente un qualche contatto costante tra alti ufficiali russi e ucraini: quanto meno per prevenire incidenti non voluti, o per evitare che una situazione già tesissima venga portata a un punto di non ritorno da eventi accidentali. Non a caso, ieri gli invasori hanno confermato di essere «pronti a nuovi colloqui con Kiev».Il secondo elemento da tenere presente è rappresentato da un rinnovato attivismo vaticano. Il segretario di Stato Pietro Parolin, a margine di un evento alla Cattolica di Milano, ha fatto sapere che per il momento in Ucraina «c’è l’arcivescovo Paul Richard Gallagher: è partito questa mattina (ieri per chi legge, ndr) e credo ritornerà domenica. Vedremo anche in seguito alla sua missione che cosa conviene fare». E ancora: «Per il momento non c’è da parte del Papa l’intenzione di andare in Ucraina, ma si valuterà anche alla luce di questa missione». Il terzo elemento è un colloquio, avvenuto sempre ieri, tra il capo dell’Oms, Tedros Ghebreyesus, e il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov. Ha riferito Ghebreyesus: «Ho chiesto un accesso sicuro a Mariupol, Kherson, Zaporizhia e altre aree assediate per portare aiuti umanitari: i civili devono ricevere protezione». Intendiamoci: già altre volte la promessa di consentire assistenza ai civili è stata disattesa da parte russa, ma si può sperare che, in questa fase, Mosca sia interessata a fornire qualche - magari laterale - segno di disponibilità su questo piano. Il quarto elemento è più ambiguo e difficile da decifrare. Il portavoce del Cremlino, Dmitrij Peskov, citato dall’agenzia Interfax, ha dichiarato che «il futuro dei territori ucraini controllati dalle forze russe sarà deciso solo in base alla volontà dei residenti locali». L’affermazione è naturalmente suscettibile di interpretazioni opposte: si può sperare in consultazioni serie e sotto controllo di forze internazionali davvero terze, o invece si può temere un’ipotesi di referendum-farsa in costanza di occupazione russa. Il quinto elemento ha a che fare con un colloquio tra il primo ministro britannico, Boris Johnson, e il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky: conversazione - ha riferito Downing Street - non solo sui temi legati alla situazione sul terreno e su quella che viene definita «un’architettura di sicurezza di lungo termine per l’Ucraina», ma pure sul modo di garantire percorsi via mare e via terra per il grano ucraino. E qui si arriva a uno degli snodi decisivi della trattativa, se un negoziato prenderà corpo: consentire la funzionalità dei porti. Su questo argomento, però, da Mosca trapela per ora solo un segnale di sfida: li riapriremo quando saranno revocate le sanzioni.Il sesto elemento è un inatteso atto di fiducia verso Mosca da parte ucraina. Il brigadiere generale Oleksii Gromov, capo del dipartimento operativo dello Stato maggiore di Kiev, avrebbe detto che «le misure per evacuare i soldati ucraini da Mariupol continuano» e avrebbe aggiunto che «sappiamo che il nostro nemico è insidioso, ma crediamo che la parola data verrà mantenuta». Insomma, a Kiev non si sarebbe persa la speranza sul rispetto dei patti relativi alla sorte delle truppe uscite dall’acciaieria e trasportate nei territori sotto controllo russo. Va infine segnalato (e qui si torna ai segnali negativi) che il già citato portavoce del Cremlino, Peskov, ha dichiarato che il Cremlino «non sa nulla del piano italiano», con riferimento ai quattro step per arrivare in tempi rapidi al cessate il fuoco presentato all’Onu dal ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. «Ne abbiamo appreso l’esistenza dai media», ha laconicamente fatto sapere Peskov.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/telefonata-del-pentagono-ai-russi-difficile-respingerli-dal-donbass-2657356493.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="adesso-lo-zar-sfodera-le-armi-laser" data-post-id="2657356493" data-published-at="1652988242" data-use-pagination="False"> Adesso lo zar sfodera le armi laser Giunti all’ottantacinquesimo giorno di guerra, secondo il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, «la Russia non ha raggiunto i suoi obiettivi in Ucraina: ha dovuto abbandonare Kiev e Kharkiv e l’offensiva nel Donbass è in stallo. Ma non crediamo che Mosca abbia rinunciato ai suoi piani e dunque dobbiamo prepararci a sostenere l’Ucraina sul medio e lungo periodo». A lui ha fatto eco il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, che durante un discorso notturno alla nazione ha affermato: «La Russia ha lanciato più di 2.000 missili durante il suo attacco all’Ucraina, gran parte del suo arsenale». Fin qui le parole, mentre la guerra continua a mietere vittime. Il capo dell’amministrazione militare regionale, Pavlo Kyrylenko, ha dichiarato all’agenzia Interfax Ukraine che lo scorso 18 maggio «i russi hanno ucciso dieci civili del Donbass, sette a Lyman e tre a Bakhmut. Tra i morti ci sono due bambini, uno a Lyman e uno a Bakhmut», mentre altre sette persone sono state ferite ieri, 19 maggio. Ieri, la compagnia ferroviaria statale ucraina ha riferito che sta conservando «centinaia di corpi di soldati russi in auto frigorifere da tre mesi», ma che la madrepatria non sta reclamando i cadaveri, benché la società voglia restituirli ai parenti. Intanto le forze russe, nonostante lo stallo di questi giorni, hanno continuato a bombardare con artiglieria e mortai gli insediamenti nelle regioni di Chernihiv e Sumy e hanno condotto attacchi missilistici contro l’insediamento di Desna. Anche ieri l’esercito russo ha continuato a bombardare la regione ucraina di Sumy (Est) lungo l’intero confine con la Russia. Il capo dell’amministrazione militare regionale, Dmytro Zhyvytskyi, su Telegram ha scritto: «I nemici russi sembrano impazziti. I bombardamenti sono continuati lungo l’intero confine della regione di Sumy». Nella giornata di ieri ha parlato anche il vicepremier russo, Yury Borisov, che ha annunciato che «la Russia sta impiegando armi laser nella sua operazione speciale in Ucraina, in particolare il sistema laser Zadira, in grado di colpire obiettivi a una distanza di 5 chilometri». Premesso che si tratta ancora di due prototipi, l’eventuale impiego del sistema laser Zadira in Ucraina rappresenta perfettamente lo scenario asimmetrico che si ritrovano ad affrontare le truppe russe. Secondo l’analista strategico Franco Iacch, «Mosca è pienamente consapevole dell’efficacia dei missili del tipo Pantsyr e Tor, ma tali caratteristiche hanno un prezzo esorbitante se paragonate alle minacce come uno sciame di droni commerciali. Le armi a energia diretta sono concepite per livellare la strategia di logoramento che prevede l’adattamento della tecnologia civile a buon mercato e facilmente reperibile da scagliare contro i costosi sistemi di fascia alta, progettati per la guerra convenzionale tra Stati, così da migliorare la letalità prolungata nei conflitti ad alta intensità». Questo li rende ideali per abbattere bersagli piccoli e veloci come i droni e nel ruolo di controrazzo, artiglieria e mortaio? «La tecnologia laser», continua Iacch, «è in fase di sviluppo da decenni, ma ad oggi non rappresenta la riposta definitiva alla minaccia aerea improvvisata e al fuoco indiretto a basso costo a causa delle limitazioni a cui è soggetta (condizioni meteo, accumulo termico, portata e fonte di energia, ad esempio)».
iStock
La nuova applicazione, in parte accessibile anche ai non clienti, introduce servizi innovativi come un assistente virtuale basato su Intelligenza artificiale, attivo 24 ore su 24, e uno screening audiometrico effettuabile direttamente dallo smartphone. L’obiettivo è duplice: migliorare la qualità del servizio clienti e promuovere una maggiore consapevolezza dell’importanza della prevenzione uditiva, riducendo le barriere all’accesso ai controlli iniziali.
Il lancio avviene in un contesto complesso per il settore. Nei primi nove mesi dell’anno Amplifon ha registrato una crescita dei ricavi dell’1,8% a cambi costanti, ma il titolo ha risentito dell’andamento negativo che ha colpito in Borsa i principali operatori del comparto. Lo sguardo di lungo periodo restituisce però un quadro diverso: negli ultimi dieci anni il titolo Amplifon ha segnato un incremento dell’80% (ieri +0,7% fra i migliori cinque del Ftse Mib), al netto dei dividendi distribuiti, che complessivamente sfiorano i 450 milioni di euro. Nello stesso arco temporale, tra il 2014 e il 2024, il gruppo ha triplicato i ricavi, arrivando a circa 2,4 miliardi di euro.
Il progetto della nuova app è stato sviluppato da Amplifon X, la divisione di ricerca e sviluppo del gruppo. Con sedi a Milano e Napoli, Amplifon X riunisce circa 50 professionisti tra sviluppatori, data analyst e designer, impegnati nella creazione di soluzioni digitali avanzate per l’audiologia. L’Intelligenza artificiale rappresenta uno dei pilastri di questa strategia, applicata non solo alla diagnosi e al supporto al paziente, ma anche alla gestione delle esigenze quotidiane legate all’uso degli apparecchi acustici.
Accanto alla tecnologia, resta centrale il ruolo degli audioprotesisti, figure chiave per Amplifon. Le competenze tecniche ed empatiche degli specialisti della salute dell’udito continuano a essere considerate un elemento insostituibile del modello di servizio, con il digitale pensato come strumento di supporto e integrazione, non come sostituzione del rapporto umano.
Fondato a Milano nel 1950, il gruppo Amplifon opera oggi in 26 Paesi con oltre 10.000 centri audiologici, impiegando più di 20.000 persone. La prevenzione e l’assistenza rappresentano i cardini della strategia industriale, e la nuova Amplifon App si inserisce in questa visione come leva per ampliare l’accesso ai servizi e rafforzare la relazione con i pazienti lungo tutto il ciclo di cura.
Il rilascio della nuova applicazione è avvenuto in modo progressivo. Dopo il debutto in Francia, Nuova Zelanda, Portogallo e Stati Uniti, la app è stata estesa ad Australia, Belgio, Germania, Italia, Olanda, Regno Unito, Spagna e Svizzera, con l’obiettivo di garantire un’esperienza digitale omogenea nei principali mercati del gruppo.
Ma l’innovazione digitale di Amplifon non si ferma all’app. Negli ultimi anni il gruppo ha sviluppato soluzioni come gli audiometri digitali OtoPad e OtoKiosk, certificati Ce e Fda, e i nuovi apparecchi Ampli-Mini Ai, miniaturizzati, ricaricabili e in grado di adattarsi in tempo reale all’ambiente sonoro. Entro la fine del 2025 è inoltre previsto il lancio in Cina di Amplifon Product Experience (Ape), la linea di prodotti a marchio Amplifon già introdotta in Argentina e Cile e oggi presente in 15 dei 26 Paesi in cui il gruppo opera.
Già per Natale il gruppo aveva lanciato la speciale campagna globale The Wish (Il regalo perfetto) Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, oggi nel mondo circa 1,5 miliardi di persone convivono con una forma di perdita uditiva (o ipoacusia) e il loro numero è destinato a salire a 2,5 miliardi nel 2050.
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Francesco Borgonovo, Gianluca Zanella e Luigi Grimaldi fanno il punto sul caso Garlasco: tra nuove indagini, DNA, impronte e filoni paralleli, l’inchiesta si muove ormai su più livelli. Un’analisi rigorosa per capire a che punto siamo, cosa è cambiato davvero e quali nodi restano ancora da sciogliere.
Ansa
Ieri abbiamo raccontato che ha intestati circa 90 immobili acquistati alle aste giudiziarie senza dover accendere mutui. Ora La Verità è in grado di svelare che Abu Rawwa per operare ha aperto un’agenzia immobiliare e investe insieme a un giovane palestinese che appartiene a una famiglia molto religiosa e molto attiva nella difesa della causa palestinese. Ben 12 dei 90 immobili di cui è diventato proprietario per via giudiziaria Abu Rawwa, infatti, sono cointestati (al 50%) con Osama Qasim. Otto sono appartamenti. Alloggi residenziali inseriti nello stesso stabile, con metrature diverse e distribuiti su più piani. Blocchi compatti di unità abitative spalmati su tre strade dello stesso comune della provincia di Reggio Emilia: Castellarano.
Il resto delle proprietà non è abitativo. Ci sono due locali di servizio: accessori funzionali alle case. Gli ultimi due immobili sono strutture non ancora definite, volumi ampi, uno dei quali particolarmente esteso: 603 metri quadri. Entrambi i locali non sono pronti per essere abitati, né sono destinati a un uso immediato. Sono spazi da completare o da trasformare. Un’operazione da immobiliaristi.
Abu Rawwa e Qasim compaiono in visure camerali diverse. Il primo è amministratore unico e socio al 100% dell’Immobiliare My home srls, impresa costituita il 6 dicembre 2023 e iscritta al Registro imprese di Modena il 13 dicembre di quello stesso anno. Capitale sociale da 2.000 euro. Attività dichiarata: «Compravendita di beni immobili effettuata su beni propri», con una specificazione ampia che comprende edifici residenziali, non residenziali, strutture commerciali e terreni. La sede legale è a Sassuolo, in circonvallazione Nord Est. Un solo addetto risultante dai dati Inps.
Osama Qasim, nato a Sassuolo il 3 febbraio 1993, è invece amministratore unico della Qasim srls, società costituita il 24 maggio 2022 con capitale sociale da 3.000 euro. Anche qui l’attività prevalente è immobiliare: «Compravendita di beni immobili effettuata su beni propri». La sede è sempre a Sassuolo, in circonvallazione Nord Est, ma il civico è differente. I soci sono tre: Osama (che è il legale rappresentante e nel frattempo gestisce anche una società di ristorazione a Modena) detiene il 20%, Khawla Ghannam (60 anni), la mamma, il 60%, e Zahi Qasim (62 anni), il papà, il 20%. Un nucleo familiare di cui si sono interessati, negli anni, numerosi giornalisti ma anche la polizia. Su Internet si trova ancora un articolo dell’Herald tribune sulla famiglia Qasim, ripreso in Italia dal Secolo XIX, proprio il giornale di Genova. Risale a 20 anni fa, ma è molto interessante. Anche perché ci racconta che la famiglia di Osama è molto religiosa e ha ricevuto nel tempo anche la visita della polizia italiana dopo alcuni attentati dei tagliagole islamici.
Il padre, Zahi, classe 1963, all’epoca era caposquadra in fabbrica a Sassuolo ed era già «uno degli esponenti più impegnati della comunità». Sua moglie, Khawla, era un’insegnante che «parla fluentemente tre lingue». Osama, all’epoca era un bambino di 12 anni. Il cronista scriveva che il fratello, «l’esuberante Ali, un anno, adora gattonare sulle piastrelle della sala, decorata con illustrazioni di proverbi tratti dal Corano». I Qasim non offrirono né cibo, né bevande al giornalista «perché per loro era in corso il Ramadan». «Ci piacerebbe molto essere italiani», aveva dichiarato Ghannam, con indosso «un hijab color porpora». Ed ecco il passaggio più interessante dell’articolo: «La loro vita, sebbene economicamente agiata, è costellata da continui episodi che ricordano loro che non sono pienamente integrati in un Paese che definiscono casa da 20 anni. A seguito degli attentati a Londra di questa estate (del 2005, ndr), Qasim è stato più volte interrogato dalla polizia che gli ha anche perquisito la casa. L’uomo afferma anche che il suo cellulare è sotto controllo. Quando ha invitato a cena alcuni amici di Torino in occasione del Ramadan, la polizia lo ha chiamato per chiedergli chi fossero quelle persone e l’hanno rimproverato di non aver comunicato che avrebbe avuto ospiti. I tentativi di Qasim di comprare un edificio per aprirvi una scuola islamica domenicale sono stati ostacolati per quattro anni dalle istituzioni locali che ritenevano che il luogo non fosse idoneo per via della mancanza di spazi da adibire al parcheggio». Zahi disse: «È chiaro che tutto questo mi dà fastidio: succede perché sono musulmano e non accadrebbe lo stesso se fossi europeo».
Ricordiamo che all’epoca un islamico sospettato di aver preso parte agli attentati di Londra è stato catturato in Italia, dove si era rifugiato. Ghannam ha spiegato che l’inserimento non è stato sempre facile e che «suo figlio è stato spesso preso in giro per il suo nome, Osama, soprattutto dopo gli attentati dell’11 settembre». Quando i Qasim si trasferirono nel loro attuale appartamento, «i vicini italiani si mostrarono freddi e ostili. Tuttavia, il loro atteggiamento è migliorato nel tempo». Zahi ha anche dichiarato di «esser sempre stato trattato con rispetto a lavoro, e gli è stato persino consentito di pregare cinque volte al giorno».
L’articolo contiene anche un’altra notizia interessante: «La famiglia ha una casa a Ramallah e torna laggiù durante le vacanze estive». Anche se la famiglia non si sentiva sicura in Israele: «Ci sono aspetti dell’Islam che vanno bene in Palestina, ma non qui», ha concesso l’uomo con il cronista. Ha anche detto di credere che «gli arresti e il coprifuoco siano soltanto serviti ad aggravare la situazione in Francia». E ha spiegato che «è sbagliato ricorrere alla polizia». Il motivo? «Quando parli con gli altri li fai sentire parte della società. Se li fai sentire emarginati, prima o poi si ribelleranno». Alla fine l’intervistato aveva consegnato al cronista il motto che ripeteva al figlio Osama: «Ignora le offese, lavora più sodo dei tuoi compagni. In fondo i palestinesi sono abituati a essere controllati: pensa solo di essere a Ramallah». Papà Qasim è stato un grande animatore del centro «al Medina» (dell’Associazione della comunità islamica di Sassuolo), fondato nel 1993 da un gruppo di migranti nordafricani, chiuso e poi riaperto varie volte. Qui si riunivano per pregare a turni sino a 600 fedeli per volta. Nel 2018 Zahi, a Casalgrande, è stato tra i promotori del Villaggio islamico, che l’associazione islamica di Sassuolo voleva tirare su nell’area di un ex salumificio. E fu proprio Zahi, col piglio dell’immobiliarista, a spiegare: «Abbiamo comprato l’area per un guadagno, come qualsiasi altro cittadino. A Casalgrande, Veggia e Villalunga abbiamo comprato all’asta circa 6-7 appartamenti».
L’idea di acquistare dai tribunali qualche anno dopo è stata fatta propria dal figlio Osama e da Abu Rawwa. Le indagini della Procura di Genova dovranno stabilire se in questo shopping compulsivo c’entri Hamas.
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Ansa
Tema che dovrebbe stare a cuore di chi si batte per la Palestina, e quindi di tanti ProPal. E invece a quanto pare no. Poco importa se il flusso di denaro che dall’Italia è volato a Gaza avrebbe permesso di acquistare armi e immobili anziché portare cibo e servizi ai civili. La propria solidarietà, più che a quanti avrebbero avuto diritto agli aiuti e a quanto pare non li hanno mai ricevuti, meglio portarla al presidente dei palestinesi in Italia. Colui che nell’ipotesi della procura è l’ideatore di una grande operazione di triangolazione di fondi. E così ieri è scattato il tam tam via social e in 200 si sono radunati davanti al carcere Marassi di Genova per gridare contro quella che viene considerata una vera e propria «offensiva contro tutte le realtà e tutti gli attivisti cosiddetti “ProPal” scatenata dalla propaganda di regime». Tra gli organizzatori del meeting solidale, l’Unione democratica arabo palestinese e Si Cobas Genova che in un post spiega l’architettura che muoverebbe l’indagine della procura.
«Già con la repressione degli ultimi mesi […] è emersa chiaramente la volontà di individuare un nuovo nemico pubblico numero uno nella cosiddetta saldatura tra sinistra radicale e islam. Associare tutta la popolazione che ha manifestato e scioperato contro il genocidio palestinese, e in particolare gli organizzatori di queste mobilitazioni, al terrorismo islamico». Il riferimento è alla revoca del permesso di soggiorno ad Abbas, coordinatore sindacale e destinatario di un foglio di via per due anni da Brescia. Già il 12 dicembre, in occasione del provvedimento, Si Cobas aveva lanciato il medesimo slogan. «La vostra repressione non fermerà le nostre lotte». Ben prima della notizia dell’operazione Domino ma tant’è. L’accusa è buona per tutte le stagioni. E tutte le mobilitazioni. Anche a Piacenza, dove una serie di sigle e associazioni puntano il dito contro la regia di Israele. Tra gli altri Usb, Sgb, Laboratorio popolare della cultura e dell’arte, Collettivo Schiaffo, Resisto, Collettivo 26x1, ControTendenza e Una voce per Gaza. «L’impianto accusatorio - commentano - si basa essenzialmente, come scritto dagli stessi inquirenti, su documenti forniti da Israele», posizione ribadita anche dalle sedi locali di Potere al popolo e Rifondazione comunista in linea con quelle nazionali. «Un’indagine basata su documenti forniti da uno Stato accusato di genocidio dagli organismi internazionali e guidato da un premier condannato e ricercato come criminale di guerra, è in partenza completamente squalificata». Iniziata sabato a Milano poche ore dopo la notizia degli arresti al grido di «Liberi subito» e «La solidarietà non è terrorismo», l’onda delle mobilitazioni in soccorso di Hannoun viaggia in parallelo alle adesioni social, come quella di Alaeddine Kaabouri, consigliere comunale di Thiene, Vicenza, sul suo profilo Instagram. «Criminalizzare tutto questo significa colpire l’idea stessa di solidarietà internazionale e trasformare l’aiuto umanitario in un reato. Sostenere il popolo palestinese non è terrorismo: è un dovere umano e politico».
Intanto, oggi Hannoun incontra il Gip per delle dichiarazioni spontanee. Non si sottoporrà a interrogatorio perché non sono ancora stati recapitati tutti gli atti depositati, spiegano gli avvocati Emanuele Tambuscio e Fabio Sommovigo che tengono a precisare che l’attivista ha sempre operato in maniera tracciabile e con associazioni registrate, molte delle quali anche in Israele. Spiegano inoltre che non sarebbe stato in procinto di fuggire per la Turchia, come sostenuto dalla procura, perché il viaggio sarebbe stato parte di regolari attività di beneficenza. Dal 7 ottobre 2023 non aveva più possibilità di operare dall’Italia e, a causa del blocco dei conti, doveva portare i contanti in Turchia o in Egitto. In difesa del leader dei palestinesi in Italia, ieri è sceso anche il figlio e alcuni suoi familiari, che hanno preso parte ad un corteo sempre attorno al carcere di Genova dove non sono mancati cori anche contro la premier Giorgia Meloni: «Meloni fascista, sei tu la terrorista».
Se i «fondi per Gaza» finiti ad Hamas abbiano aiutato i palestinesi, lo chiarirà la procura ma certo è che nelle piazze a oggi non si scorge cenno alcuno che entri nel merito delle iniziative «finto benefiche» di Hannoun. Che pur essendo attualmente solo «presunte», con tutti i condizionali del caso, qualora dovessero essere confermate, costituirebbero un vero e proprio tradimento del popolo palestinese in nome del quale si continua a scendere in piazza.
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