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2022-05-20
Telefonata del Pentagono ai russi: «Difficile respingerli dal Donbass»
Da sinistra, Valery Gerasimov e Mark Milley (Ansa)
Per definizione, nelle situazioni difficili da decifrare, non c’è da essere ottimisti o pessimisti: occorre registrare razionalmente gli elementi offerti dalla cronaca, preparandosi a differenti scenari. Resta - purtroppo prevalente - quello di un conflitto lungo: depone in questa direzione il sostanziale stallo sul terreno, che non fa immaginare nel Donbass una netta prevalenza di uno dei due eserciti, e la difficoltà anche solo di immaginare una qualunque spartizione di territori che veda gli invasori russi e gli aggrediti ucraini concordi su una qualche soluzione reciprocamente accettabile. E tuttavia - sul lato opposto - ieri si sono affastellati alcuni elementi che fanno pensare a un filo di dialogo: magari esile, ma non inesistente. Gli elementi che vanno in questa direzione sono almeno sei.
Il primo è la telefonata tra il capo di stato maggiore delle forze armate russe, Valery Gerasimov, e l’omologo statunitense, Mark Milley. Lo ha reso noto il ministero della Difesa russo precisando che il contatto è arrivato «su iniziativa della parte americana». Le parti, si legge in una nota, hanno discusso di «questioni di reciproco interesse, inclusa la situazione in Ucraina». Secondo le agenzie, un funzionario del Pentagono avrebbe detto che sarà difficile respingere i russi dal Donbass: «Siamo assolutamente determinati a fare tutto il possibile per aiutare gli ucraini a difendersi», ma «resteremo prudenti nelle nostre previsioni». Questa telefonata fa seguito a quella della scorsa settimana tra i due ministri della Difesa, Lloyd Austin e Sergei Shoigu. Secondo fonti Usa, da diverse settimane il Pentagono aveva sollecitato la Difesa di Mosca, ma Shoigu ha preso la telefonata solo la scorsa settimana, seguito a ruota, ieri, da Gerasimov. Gli ottimisti possono dedurne che settori della Difesa russa percepiscano le proprie difficoltà sul campo, e - in qualche misura - siano entrate nell’ordine di idee per lo meno di parlare con Washington. Va anche tenuto presente che, pur senza dichiararlo, c’è sicuramente un qualche contatto costante tra alti ufficiali russi e ucraini: quanto meno per prevenire incidenti non voluti, o per evitare che una situazione già tesissima venga portata a un punto di non ritorno da eventi accidentali. Non a caso, ieri gli invasori hanno confermato di essere «pronti a nuovi colloqui con Kiev».
Il secondo elemento da tenere presente è rappresentato da un rinnovato attivismo vaticano. Il segretario di Stato Pietro Parolin, a margine di un evento alla Cattolica di Milano, ha fatto sapere che per il momento in Ucraina «c’è l’arcivescovo Paul Richard Gallagher: è partito questa mattina (ieri per chi legge, ndr) e credo ritornerà domenica. Vedremo anche in seguito alla sua missione che cosa conviene fare». E ancora: «Per il momento non c’è da parte del Papa l’intenzione di andare in Ucraina, ma si valuterà anche alla luce di questa missione».
Il terzo elemento è un colloquio, avvenuto sempre ieri, tra il capo dell’Oms, Tedros Ghebreyesus, e il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov. Ha riferito Ghebreyesus: «Ho chiesto un accesso sicuro a Mariupol, Kherson, Zaporizhia e altre aree assediate per portare aiuti umanitari: i civili devono ricevere protezione». Intendiamoci: già altre volte la promessa di consentire assistenza ai civili è stata disattesa da parte russa, ma si può sperare che, in questa fase, Mosca sia interessata a fornire qualche - magari laterale - segno di disponibilità su questo piano.
Il quarto elemento è più ambiguo e difficile da decifrare. Il portavoce del Cremlino, Dmitrij Peskov, citato dall’agenzia Interfax, ha dichiarato che «il futuro dei territori ucraini controllati dalle forze russe sarà deciso solo in base alla volontà dei residenti locali». L’affermazione è naturalmente suscettibile di interpretazioni opposte: si può sperare in consultazioni serie e sotto controllo di forze internazionali davvero terze, o invece si può temere un’ipotesi di referendum-farsa in costanza di occupazione russa.
Il quinto elemento ha a che fare con un colloquio tra il primo ministro britannico, Boris Johnson, e il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky: conversazione - ha riferito Downing Street - non solo sui temi legati alla situazione sul terreno e su quella che viene definita «un’architettura di sicurezza di lungo termine per l’Ucraina», ma pure sul modo di garantire percorsi via mare e via terra per il grano ucraino. E qui si arriva a uno degli snodi decisivi della trattativa, se un negoziato prenderà corpo: consentire la funzionalità dei porti. Su questo argomento, però, da Mosca trapela per ora solo un segnale di sfida: li riapriremo quando saranno revocate le sanzioni.
Il sesto elemento è un inatteso atto di fiducia verso Mosca da parte ucraina. Il brigadiere generale Oleksii Gromov, capo del dipartimento operativo dello Stato maggiore di Kiev, avrebbe detto che «le misure per evacuare i soldati ucraini da Mariupol continuano» e avrebbe aggiunto che «sappiamo che il nostro nemico è insidioso, ma crediamo che la parola data verrà mantenuta». Insomma, a Kiev non si sarebbe persa la speranza sul rispetto dei patti relativi alla sorte delle truppe uscite dall’acciaieria e trasportate nei territori sotto controllo russo.
Va infine segnalato (e qui si torna ai segnali negativi) che il già citato portavoce del Cremlino, Peskov, ha dichiarato che il Cremlino «non sa nulla del piano italiano», con riferimento ai quattro step per arrivare in tempi rapidi al cessate il fuoco presentato all’Onu dal ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. «Ne abbiamo appreso l’esistenza dai media», ha laconicamente fatto sapere Peskov.
Adesso lo zar sfodera le armi laser
Giunti all’ottantacinquesimo giorno di guerra, secondo il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, «la Russia non ha raggiunto i suoi obiettivi in Ucraina: ha dovuto abbandonare Kiev e Kharkiv e l’offensiva nel Donbass è in stallo. Ma non crediamo che Mosca abbia rinunciato ai suoi piani e dunque dobbiamo prepararci a sostenere l’Ucraina sul medio e lungo periodo». A lui ha fatto eco il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, che durante un discorso notturno alla nazione ha affermato: «La Russia ha lanciato più di 2.000 missili durante il suo attacco all’Ucraina, gran parte del suo arsenale». Fin qui le parole, mentre la guerra continua a mietere vittime. Il capo dell’amministrazione militare regionale, Pavlo Kyrylenko, ha dichiarato all’agenzia Interfax Ukraine che lo scorso 18 maggio «i russi hanno ucciso dieci civili del Donbass, sette a Lyman e tre a Bakhmut. Tra i morti ci sono due bambini, uno a Lyman e uno a Bakhmut», mentre altre sette persone sono state ferite ieri, 19 maggio.
Ieri, la compagnia ferroviaria statale ucraina ha riferito che sta conservando «centinaia di corpi di soldati russi in auto frigorifere da tre mesi», ma che la madrepatria non sta reclamando i cadaveri, benché la società voglia restituirli ai parenti.
Intanto le forze russe, nonostante lo stallo di questi giorni, hanno continuato a bombardare con artiglieria e mortai gli insediamenti nelle regioni di Chernihiv e Sumy e hanno condotto attacchi missilistici contro l’insediamento di Desna. Anche ieri l’esercito russo ha continuato a bombardare la regione ucraina di Sumy (Est) lungo l’intero confine con la Russia. Il capo dell’amministrazione militare regionale, Dmytro Zhyvytskyi, su Telegram ha scritto: «I nemici russi sembrano impazziti. I bombardamenti sono continuati lungo l’intero confine della regione di Sumy».
Nella giornata di ieri ha parlato anche il vicepremier russo, Yury Borisov, che ha annunciato che «la Russia sta impiegando armi laser nella sua operazione speciale in Ucraina, in particolare il sistema laser Zadira, in grado di colpire obiettivi a una distanza di 5 chilometri». Premesso che si tratta ancora di due prototipi, l’eventuale impiego del sistema laser Zadira in Ucraina rappresenta perfettamente lo scenario asimmetrico che si ritrovano ad affrontare le truppe russe. Secondo l’analista strategico Franco Iacch, «Mosca è pienamente consapevole dell’efficacia dei missili del tipo Pantsyr e Tor, ma tali caratteristiche hanno un prezzo esorbitante se paragonate alle minacce come uno sciame di droni commerciali. Le armi a energia diretta sono concepite per livellare la strategia di logoramento che prevede l’adattamento della tecnologia civile a buon mercato e facilmente reperibile da scagliare contro i costosi sistemi di fascia alta, progettati per la guerra convenzionale tra Stati, così da migliorare la letalità prolungata nei conflitti ad alta intensità». Questo li rende ideali per abbattere bersagli piccoli e veloci come i droni e nel ruolo di controrazzo, artiglieria e mortaio? «La tecnologia laser», continua Iacch, «è in fase di sviluppo da decenni, ma ad oggi non rappresenta la riposta definitiva alla minaccia aerea improvvisata e al fuoco indiretto a basso costo a causa delle limitazioni a cui è soggetta (condizioni meteo, accumulo termico, portata e fonte di energia, ad esempio)».
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Mosca, in difficoltà sul campo, ripropone colloqui con Kiev, ma sfida l’Occidente sui porti: «Togliete le sanzioni e li riapriremo». La resistenza: «Sui soldati di Azovstal ci fidiamo dei nemici». Il Vaticano rilancia i negoziati.Adesso lo zar sfodera le armi laser. La minaccia del vicepremier: «I nostri sistemi colpiscono a chilometri di distanza». Il segretario dell’Alleanza atlantica: «C’è uno stallo, però gli invasori non molleranno».Lo speciale comprende due articoli. Per definizione, nelle situazioni difficili da decifrare, non c’è da essere ottimisti o pessimisti: occorre registrare razionalmente gli elementi offerti dalla cronaca, preparandosi a differenti scenari. Resta - purtroppo prevalente - quello di un conflitto lungo: depone in questa direzione il sostanziale stallo sul terreno, che non fa immaginare nel Donbass una netta prevalenza di uno dei due eserciti, e la difficoltà anche solo di immaginare una qualunque spartizione di territori che veda gli invasori russi e gli aggrediti ucraini concordi su una qualche soluzione reciprocamente accettabile. E tuttavia - sul lato opposto - ieri si sono affastellati alcuni elementi che fanno pensare a un filo di dialogo: magari esile, ma non inesistente. Gli elementi che vanno in questa direzione sono almeno sei.Il primo è la telefonata tra il capo di stato maggiore delle forze armate russe, Valery Gerasimov, e l’omologo statunitense, Mark Milley. Lo ha reso noto il ministero della Difesa russo precisando che il contatto è arrivato «su iniziativa della parte americana». Le parti, si legge in una nota, hanno discusso di «questioni di reciproco interesse, inclusa la situazione in Ucraina». Secondo le agenzie, un funzionario del Pentagono avrebbe detto che sarà difficile respingere i russi dal Donbass: «Siamo assolutamente determinati a fare tutto il possibile per aiutare gli ucraini a difendersi», ma «resteremo prudenti nelle nostre previsioni». Questa telefonata fa seguito a quella della scorsa settimana tra i due ministri della Difesa, Lloyd Austin e Sergei Shoigu. Secondo fonti Usa, da diverse settimane il Pentagono aveva sollecitato la Difesa di Mosca, ma Shoigu ha preso la telefonata solo la scorsa settimana, seguito a ruota, ieri, da Gerasimov. Gli ottimisti possono dedurne che settori della Difesa russa percepiscano le proprie difficoltà sul campo, e - in qualche misura - siano entrate nell’ordine di idee per lo meno di parlare con Washington. Va anche tenuto presente che, pur senza dichiararlo, c’è sicuramente un qualche contatto costante tra alti ufficiali russi e ucraini: quanto meno per prevenire incidenti non voluti, o per evitare che una situazione già tesissima venga portata a un punto di non ritorno da eventi accidentali. Non a caso, ieri gli invasori hanno confermato di essere «pronti a nuovi colloqui con Kiev».Il secondo elemento da tenere presente è rappresentato da un rinnovato attivismo vaticano. Il segretario di Stato Pietro Parolin, a margine di un evento alla Cattolica di Milano, ha fatto sapere che per il momento in Ucraina «c’è l’arcivescovo Paul Richard Gallagher: è partito questa mattina (ieri per chi legge, ndr) e credo ritornerà domenica. Vedremo anche in seguito alla sua missione che cosa conviene fare». E ancora: «Per il momento non c’è da parte del Papa l’intenzione di andare in Ucraina, ma si valuterà anche alla luce di questa missione». Il terzo elemento è un colloquio, avvenuto sempre ieri, tra il capo dell’Oms, Tedros Ghebreyesus, e il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov. Ha riferito Ghebreyesus: «Ho chiesto un accesso sicuro a Mariupol, Kherson, Zaporizhia e altre aree assediate per portare aiuti umanitari: i civili devono ricevere protezione». Intendiamoci: già altre volte la promessa di consentire assistenza ai civili è stata disattesa da parte russa, ma si può sperare che, in questa fase, Mosca sia interessata a fornire qualche - magari laterale - segno di disponibilità su questo piano. Il quarto elemento è più ambiguo e difficile da decifrare. Il portavoce del Cremlino, Dmitrij Peskov, citato dall’agenzia Interfax, ha dichiarato che «il futuro dei territori ucraini controllati dalle forze russe sarà deciso solo in base alla volontà dei residenti locali». L’affermazione è naturalmente suscettibile di interpretazioni opposte: si può sperare in consultazioni serie e sotto controllo di forze internazionali davvero terze, o invece si può temere un’ipotesi di referendum-farsa in costanza di occupazione russa. Il quinto elemento ha a che fare con un colloquio tra il primo ministro britannico, Boris Johnson, e il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky: conversazione - ha riferito Downing Street - non solo sui temi legati alla situazione sul terreno e su quella che viene definita «un’architettura di sicurezza di lungo termine per l’Ucraina», ma pure sul modo di garantire percorsi via mare e via terra per il grano ucraino. E qui si arriva a uno degli snodi decisivi della trattativa, se un negoziato prenderà corpo: consentire la funzionalità dei porti. Su questo argomento, però, da Mosca trapela per ora solo un segnale di sfida: li riapriremo quando saranno revocate le sanzioni.Il sesto elemento è un inatteso atto di fiducia verso Mosca da parte ucraina. Il brigadiere generale Oleksii Gromov, capo del dipartimento operativo dello Stato maggiore di Kiev, avrebbe detto che «le misure per evacuare i soldati ucraini da Mariupol continuano» e avrebbe aggiunto che «sappiamo che il nostro nemico è insidioso, ma crediamo che la parola data verrà mantenuta». Insomma, a Kiev non si sarebbe persa la speranza sul rispetto dei patti relativi alla sorte delle truppe uscite dall’acciaieria e trasportate nei territori sotto controllo russo. Va infine segnalato (e qui si torna ai segnali negativi) che il già citato portavoce del Cremlino, Peskov, ha dichiarato che il Cremlino «non sa nulla del piano italiano», con riferimento ai quattro step per arrivare in tempi rapidi al cessate il fuoco presentato all’Onu dal ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. «Ne abbiamo appreso l’esistenza dai media», ha laconicamente fatto sapere Peskov.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/telefonata-del-pentagono-ai-russi-difficile-respingerli-dal-donbass-2657356493.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="adesso-lo-zar-sfodera-le-armi-laser" data-post-id="2657356493" data-published-at="1652988242" data-use-pagination="False"> Adesso lo zar sfodera le armi laser Giunti all’ottantacinquesimo giorno di guerra, secondo il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, «la Russia non ha raggiunto i suoi obiettivi in Ucraina: ha dovuto abbandonare Kiev e Kharkiv e l’offensiva nel Donbass è in stallo. Ma non crediamo che Mosca abbia rinunciato ai suoi piani e dunque dobbiamo prepararci a sostenere l’Ucraina sul medio e lungo periodo». A lui ha fatto eco il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, che durante un discorso notturno alla nazione ha affermato: «La Russia ha lanciato più di 2.000 missili durante il suo attacco all’Ucraina, gran parte del suo arsenale». Fin qui le parole, mentre la guerra continua a mietere vittime. Il capo dell’amministrazione militare regionale, Pavlo Kyrylenko, ha dichiarato all’agenzia Interfax Ukraine che lo scorso 18 maggio «i russi hanno ucciso dieci civili del Donbass, sette a Lyman e tre a Bakhmut. Tra i morti ci sono due bambini, uno a Lyman e uno a Bakhmut», mentre altre sette persone sono state ferite ieri, 19 maggio. Ieri, la compagnia ferroviaria statale ucraina ha riferito che sta conservando «centinaia di corpi di soldati russi in auto frigorifere da tre mesi», ma che la madrepatria non sta reclamando i cadaveri, benché la società voglia restituirli ai parenti. Intanto le forze russe, nonostante lo stallo di questi giorni, hanno continuato a bombardare con artiglieria e mortai gli insediamenti nelle regioni di Chernihiv e Sumy e hanno condotto attacchi missilistici contro l’insediamento di Desna. Anche ieri l’esercito russo ha continuato a bombardare la regione ucraina di Sumy (Est) lungo l’intero confine con la Russia. Il capo dell’amministrazione militare regionale, Dmytro Zhyvytskyi, su Telegram ha scritto: «I nemici russi sembrano impazziti. I bombardamenti sono continuati lungo l’intero confine della regione di Sumy». Nella giornata di ieri ha parlato anche il vicepremier russo, Yury Borisov, che ha annunciato che «la Russia sta impiegando armi laser nella sua operazione speciale in Ucraina, in particolare il sistema laser Zadira, in grado di colpire obiettivi a una distanza di 5 chilometri». Premesso che si tratta ancora di due prototipi, l’eventuale impiego del sistema laser Zadira in Ucraina rappresenta perfettamente lo scenario asimmetrico che si ritrovano ad affrontare le truppe russe. Secondo l’analista strategico Franco Iacch, «Mosca è pienamente consapevole dell’efficacia dei missili del tipo Pantsyr e Tor, ma tali caratteristiche hanno un prezzo esorbitante se paragonate alle minacce come uno sciame di droni commerciali. Le armi a energia diretta sono concepite per livellare la strategia di logoramento che prevede l’adattamento della tecnologia civile a buon mercato e facilmente reperibile da scagliare contro i costosi sistemi di fascia alta, progettati per la guerra convenzionale tra Stati, così da migliorare la letalità prolungata nei conflitti ad alta intensità». Questo li rende ideali per abbattere bersagli piccoli e veloci come i droni e nel ruolo di controrazzo, artiglieria e mortaio? «La tecnologia laser», continua Iacch, «è in fase di sviluppo da decenni, ma ad oggi non rappresenta la riposta definitiva alla minaccia aerea improvvisata e al fuoco indiretto a basso costo a causa delle limitazioni a cui è soggetta (condizioni meteo, accumulo termico, portata e fonte di energia, ad esempio)».
D’altronde, quando la Casa Bianca aveva minacciato la prima volta un intervento militare, era stato addirittura il consigliere della Segreteria di Stato vaticana, padre Giulio Albanese, a descrivere alla Stampa l’«equilibrio quasi perfetto tra cristiani e musulmani» in Nigeria, turbato dal tycoon allo scopo di «consolidare consenso in casa». E allora, come funziona davvero tale fulgido esempio di coesistenza tra confessioni diverse?
Un dato dice tutto: i cristiani rischiano 6 volte e mezzo di più dei musulmani di finire uccisi e cinque volte di più di essere rapiti. Lo si evince dai report dell’Osservatorio per la libertà religiosa in Africa (Orfa). Quelli della Fondazione Porte aperte sono altrettanto sconvolgenti: nel 2025, l’82% degli omicidi e dei rapimenti di fedeli di Gesù nel mondo è risultato concentrato in Nigeria. Nei primi sette mesi dell’anno, hanno perso la vita oltre 7.000 cristiani. È una tendenza ormai consolidata. Tra ottobre 2019 e settembre 2023 - sempre stando alle ricerche Orfa, illustrate anche dal portale Aciafrica - la violenza religiosa, nella nazione affacciata sul Golfo di Guinea, ha provocato la morte di 55.910 persone in 9.970 attentati. I cristiani ammazzati sono stati 16.769, i musulmani 6.235. Di 7.722 vittime civili non si conosceva la religione. Nello stesso periodo, i rapiti cristiani sono stati 21.621. La World watch list, per il 2024, ha contato 3.100 vittime cristiane, oltre a 2.380 sequestrati. La relazione di Aics-Aiuto alla Chiesa che soffre sottolineava che, lo scorso anno, la Nigeria era all’ottavo posto nella ignominiosa classifica del Global terrorism index. «Sebbene anche i musulmani siano vittime delle violenze», precisava il documento, «i cristiani rappresentano il bersaglio di gran lunga prevalente».
Ciò non significa che gli islamici se la spassino, oppure che i jihadisti non approfittino della povertà per attirare miliziani e conseguire obiettivi politici ed economici, tipo il controllo delle risorse naturali. Le sofferenze dei musulmani sono atroci. Per dire: la sera del 21 dicembre, 28 persone, tra cui donne e bambini, sono state catturate nello Stato di Plateau, nel centro del Paese, mentre si recavano a un raduno per la festività maomettana del Mawlid, in cui si onora la nascita del «profeta». Pochi giorni prima, le autorità avevano ottenuto il rilascio di 130 tra studenti e insegnanti di alcune scuole cattoliche.
Un mese fa, intervistato da Agensir, padre Tobias Chikezie Ihejirika, prete somasco nigeriano, di stanza nel Foggiano, era stato chiaro: «I responsabili di questi attacchi sono quasi sempre musulmani». E la classe dirigente, esattamente come lamentato da Trump, non ha profuso grandi sforzi per prevenire i massacri: alcuni criminali, riferiva padre Tobias, sono persino «figure protette all’interno del governo. […] Sarebbe di grande aiuto se le organizzazioni internazionali tracciassero il flusso di denaro destinato alla risoluzione dei conflitti e identificassero coloro che ci speculano su. Questi fondi dovrebbero essere impiegati per risolvere i problemi, non per alimentare la violenza». Solito quadretto dell’ipocrisia occidentale: noi ci laviamo la coscienza spedendo aiuti, il denaro finisce in mani sbagliate e gli innocenti continuano a morire. Bombardare è inutile? Ma anche le strade battute finora si sono rivelate vicoli ciechi.
Stando alle indagini più recenti del Pew research center (2020), il 56,1% della popolazione, specie nel Nord della Nigeria, è islamica, con una nettissima prevalenza di sunniti. I cristiani sono il 43,4%, in maggioranza protestanti (74% del totale dei fedeli, contro il 25% di cattolici e l’1% di altre Chiese, compresa la ortodossa).
L’elenco di omicidi e rapimenti è agghiacciante. E in occasione delle festività, la ferocia aumenta. A Pasqua 2025, in vari attentati, erano stati assassinati 170 cristiani. A giugno, 100 o addirittura 200 sfollati erano stati presi di mira da bande armate; molti di loro erano cristiani. Il Natale più sanguinoso, forse, è stato quello di due anni fa: 200 morti e 500 feriti in una scia di attacchi jihadisti. E poi ci sono i sequestri dei sacerdoti. Gli ultimi, tra novembre e dicembre 2025: padre Emmanuel Ezema, della diocesi di Zaria, nella parte nordoccidentale del Paese; e padre Bobbo Paschal, parroco della chiesa di Santo Stefano, nello Stato di Kaduna, Centro-Nord della Nigeria. Proprio il primo martire della Chiesa è stato invocato ieri dal Papa, affinché «sostenga le comunità che maggiormente soffrono per la loro testimonianza cristiana». Trump? Bene: chi ha idee migliori, che non siano restare a guardare?
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Il ministro degli Esteri della Nigeria Yusuf Maitama Tuggar (Getty Images)
Gli attacchi dell’aviazione statunitense sono stati concordati anche con il governo di Abuja, che ha subito confermato i bombardamenti contro i terroristi. Il presidente della Nigeria, Bola Tinubu, aveva cercato di minimizzare il problema, dopo le accuse di Donald Trump, ma la situazione sul campo resta critica per la minoranza cristiana che ancora non ha abbandonato gli Stati del nord come ha già fatto la maggioranza. Yusuf Maitama Tuggar è un diplomatico di lunga esperienza e da circa un anno e mezzo guida il ministero degli Esteri della Nigeria, dopo essere stato ambasciatore in Germania.
Ministro Tuggar, il governo nigeriano ha dichiarato di essere al corrente dell’attacco degli Stati Uniti.
«Il presidente Tinubu e tutto il suo gabinetto ministeriale, così come i vertici delle forze armate, erano stati preventivamente informati delle operazioni militari statunitense. Si tratta di attacchi chirurgici che hanno ucciso un numero ancora imprecisato di pericolosi terroristi. La Nigeria vuole collaborare con gli Stati Uniti, che è un grande alleato e che come noi vuole distruggere il terrorismo islamico. Gli Stati di Sokoto e Kebbi, al confine con Niger e Benin, vivono una situazione complicata per le continue infiltrazioni di gruppi islamisti provenienti dalle nazioni vicine. Non escludiamo che in futuro potremmo operare ancora insieme su obiettivi militari molto precisi e sempre nell’ambito della lotta al terrorismo internazionale. Una cooperazione che comprende scambio di intelligence, coordinamento strategico e altre forme di supporto, tutto sempre nel rispetto del diritto internazionale e della sovranità nazionale».
Gli Stati Uniti accusano lo Stato islamico di voler sterminare i cristiani nigeriani e il vostro governo di non fare abbastanza per difenderli.
«Utilizzare il termine Stato islamico è una semplificazione, perché si tratta di una galassia molto complessa. Nella nostra nazione non c’è una presenza significativa dell’Isis in quell’area. Nel nord-ovest, abbiamo bande criminali, chiamate localmente banditi, e di recente è arrivato un gruppo chiamato Lakurawa. Si tratta di miliziani che hanno iniziato a riversarsi in Nigeria dal Sahel, ma negli ultimi 18 mesi-due anni si sono stabiliti negli Stati di Sokoto e Kebbi. I capi delle tribù locali hanno fatto un errore permettendo a questo gruppo di insediarsi nelle loro province per utilizzarli per difendersi dalla criminalità comune, ma la situazione è degenerata e adesso sono un pericolo per tutti. I Lakurawa sono un gruppo terroristico, ma smentiamo che siano ufficialmente parte della Provincia dello Stato Islamico del Sahel (Issp), l’ex Provincia dello Stato islamico del Grande Sahara (Isgs). Questo gruppo agisce soprattutto nelle zone occidentali vicino al lago Ciad e le nostre forze armate lo stanno costringendo a lasciare il nostro territorio. Voglio smentire ufficialmente che il governo nigeriano faccia poco per difendere i cristiani. Tutti i cittadini hanno uguali diritti e sono sotto la protezione dello Stato. Questi terroristi uccidono anche musulmani ed animisti, perché sono dei criminali».
Tutta l’Africa centrale e occidentale rischia di essere travolta dal terrorismo islamico e molte nazioni appaiono impotenti.
«La Nigeria ha istituito una serie di corpi speciali per la lotta all’estremismo islamico che agisce sul territorio. La settimana scorsa abbiamo liberato 30 studentesse rapite da una scuola, arrestando gli uomini che le avevano prese. Il governo federale e quello locale stanno anche portando avanti una serie di azioni di reintegro per tutti quelli che abbandonano i gruppi armati. Nel Sahel ci sono province in mano ai terroristi che vogliono occupare anche il nord della Nigeria. Per questo motivo collaboriamo con diversi stati confinanti in operazioni militari congiunte e siamo felici che gli Stati Uniti ci vogliono aiutare, ma sempre nel rispetto delle decisioni del governo di Abuja».
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