La Lagarde resta ferma anche se ammette che le guerre e la chiusura di Suez possono creare nuovi colli di bottiglia e generare inflazione esterna. Contro la quale la politica monetaria ha ben poco potere. Una coazione a ripetere come dopo il Covid e l’Ucraina.
La Lagarde resta ferma anche se ammette che le guerre e la chiusura di Suez possono creare nuovi colli di bottiglia e generare inflazione esterna. Contro la quale la politica monetaria ha ben poco potere. Una coazione a ripetere come dopo il Covid e l’Ucraina.Nessuna sorpresa, la Bce ieri ha lasciato i tassi di interesse fermi per la terza volta di fila dopo dieci rialzi. I tassi sulle operazioni di rifinanziamento principali, sulle operazioni di rifinanziamento marginale e sui depositi presso la banca centrale sono invariati rispettivamente al 4,5%, al 4,75% e al 4%. Nessun nuovo indizio sui futuri cambiamenti di politica: si tratta quasi di una copia alla lettera della dichiarazione di dicembre. Il taglio potrebbe non arrivare prima dell’estate (se va bene alla riunione del 6 giugno, al più tardi il 18 luglio), ma la direzione si intuirà meglio con le proiezioni di marzo. Vestita di bianco come le colombe alla conferenza stampa dopo la riunione del consiglio direttivo, Christine Lagarde affila le forbici ma ha ribadito che all’interno del Consiglio direttivo c’è consenso sul fatto che sia «prematuro parlare di tagli» e che le decisioni continuano a dipendere dai dati macroeconomici che vengono esaminati di volta in volta: «non guarderemo il calendario», ha puntualizzato. Nella cornice del World Economic Forum della scorsa settimana il numero uno della Bce aveva definito «probabile» che un taglio ai tassi possa arrivare in estate, «ma dobbiamo essere cauti, perché continuiamo a dipendere dai dati e ci sono alcuni indicatori che non sono ancorati al livello in cui vorremmo vederli», aveva precisato. E ieri ha fatto un passo indietro. Anche nel comunicato dell’istituto di Francoforte non ci sono novità: «Le nuove informazioni hanno confermato sostanzialmente la sua valutazione precedente circa le prospettive di inflazione a medio termine», si legge nella nota di fine vertice. Dove si aggiunge che «le decisioni future del Consiglio direttivo assicureranno che i tassi di riferimento siano fissati su livelli sufficientemente restrittivi finché necessario». Il confronto di Lagarde con i giornalisti è però partito dallo scenario di fondo: l’economia della zona euro ha probabilmente ristagnato negli ultimi mesi del 2023 e guardando al breve termine persistono segnali di debolezza per il tessuto economico del blocco. Poi ha detto che «i rischi per la crescita economica restano orientati al ribasso» e che si prevede che la ripresa «comincerà nel corso del 2024». Le ultime indicazioni segnalano come i salari stiano già rallentando lievemente e che l’aumento dei salari sia assorbito dalle aziende e non «scaricato» sui prezzi finali. Ma con la guerra in Medio Oriente e i timori che la situazione nel Mar Rosso possano spingere al rialzo l’inflazione, ha aggiunto, i rischi al rialzo per il carovita includono l’intensificarsi delle tensioni geopolitiche. In particolare, sulla chiusura del Canale di Suez per gli attacchi degli Houthi, la presidente ha spiegato che «la Bce monitora con attenzione l’aumento dei costi di spedizione». Per Lagarde, «se il conflitto si sviluppasse ulteriormente, questo rappresenterebbe un rischio». Dunque, «la guerra della Russia contro l’Ucraina e il tragico conflitto in Medio Oriente costituiscono le principali fonti di rischio geopolitico». Nonostante questo, la numero uno dell’Eurotower ha detto che «l’inflazione dovrebbe rallentare ulteriormente nel corso di quest’anno, man mano che si attenueranno gli effetti dei passati shock energetici, delle interruzioni delle forniture e della ripartenza dell'economia dopo la pandemia, mentre la politica monetaria restrittiva continuerà a frenare la domanda». Le misure delle aspettative di inflazione a breve termine «si sono notevolmente ridotte, mentre quelle a più lungo termine si attestano per lo più intorno al 2%».Attenzione, però. Così si avvia una coazione a ripetere. Perché già nei mesi scorsi la Bce aveva ammesso che si era sbagliata, che ad alimentare la fiammata dei prezzi negli ultimi anni è stata solo in parte la bolletta energetica e che la vera responsabilità era da attribuire ai famigerati colli di bottiglia lungo la filiera dell’offerta emersi dopo i lockdown. I colli di bottiglia e i rincari delle bollette hanno generato la greedflation, ovvero la cosiddetta avidità di profitti che ha spinto le aziende ad alzare i prezzi finali per mantenere o aumentare i margini. Una sorta di legittima difesa da parte delle imprese che si tutelano dai rincari che a loro volta subiscono riversando l’aumento dei costi sugli utenti. Una corsa dei prezzi che la Bce non aveva visto, tanto che ha iniziato ad alzare i tassi solo a luglio del 2022. Fino a quel momento aveva sostenuto che il rialzo dei prezzi era solo un fenomeno transitorio destinato a rientrare presto. Ora ci risiamo. Con Lagarde che sta ferma, e aspetta i problemi.Intanto, come hanno reagito i mercati? Le Borse europee hanno chiuso miste: Francoforte e Parigi sono salite dello 0,11%, Londra ha archiviato la seduta sopra la parità (+0,02%), in calo Madrid (-0,58%) e anche Milano con un -0,59%. Lo spread tra Btp decennali e Bund tedeschi è sceso a 153,4 punti, a fronte dei 155,3 punti della chiusura di mercoledì. Il rendimento scende al 3,82 per cento. «Il mercato sta già anticipando una riduzione dei tassi di interesse», ha commentato il presidente dell’Abi (l’associazione dei banchieri), Antonio Patuelli a Sky tg24. E ha fatto l’esempio del tasso più usato per i mutui, ovvero l’Irs a dieci anni: «A ottobre era del 3,52%, ieri il 2,73% circa 80 punti base, una riduzione rilevante».
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Nel suo ultimo libro Paolo Nori, le cui lezioni su Dostoevskij furono oggetto di una grottesca polemica, esalta i grandi della letteratura: se hanno sconfitto la censura sovietica, figuriamoci i ridicoli epigoni di casa nostra.
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Il progetto del corridoio fra India, Medio Oriente ed Europa e il patto difensivo con il Pakistan entrano nel dossier sulla normalizzazione con Israele, mentre Donald Trump valuta gli effetti su cooperazione militare e stabilità regionale.
Le trattative in corso tra Stati Uniti e Arabia Saudita sulla possibile normalizzazione dei rapporti con Israele si inseriscono in un quadro più ampio che comprende evoluzioni infrastrutturali, commerciali e di sicurezza nel Medio Oriente. Un elemento centrale è l’Imec, ossia il corridoio economico India-Medio Oriente-Europa, presentato nel 2023 come iniziativa multinazionale finalizzata a migliorare i collegamenti logistici tra Asia meridionale, Penisola Arabica ed Europa. Per Riyad, il progetto rientra nella strategia di trasformazione economica legata a Vision 2030 e punta a ridurre la dipendenza dalle rotte commerciali tradizionali del Golfo, potenziando collegamenti ferroviari, marittimi e digitali con nuove aree di scambio.
La piena operatività del corridoio presuppone relazioni diplomatiche regolari tra Arabia Saudita e Israele, dato che uno dei tratti principali dovrebbe passare attraverso porti e nodi logistici israeliani, con integrazione nelle reti di trasporto verso il Mediterraneo. Fonti statunitensi e saudite hanno più volte collegato la normalizzazione alle discussioni in corso con Washington sulla cooperazione militare e sulle garanzie di sicurezza richieste dal Regno, che punta a formalizzare un trattato difensivo bilaterale con gli Stati Uniti.
Nel 2024, tuttavia, Riyad ha firmato in parallelo un accordo di difesa reciproca con il Pakistan, consolidando una cooperazione storicamente basata su forniture militari, addestramento e supporto politico. Il patto prevede assistenza in caso di attacco esterno a una delle due parti. I governi dei due Paesi lo hanno descritto come evoluzione naturale di rapporti già consolidati. Nella pratica, però, l’intesa introduce un nuovo elemento in un contesto regionale dove Washington punta a costruire una struttura di sicurezza coordinata che includa Israele.
Il Pakistan resta un attore complesso sul piano politico e strategico. Negli ultimi decenni ha adottato una postura militare autonoma, caratterizzata da un uso esteso di deterrenza nucleare, operazioni coperte e gestione diretta di dossier di sicurezza nella regione. Inoltre, mantiene legami economici e tecnologici rilevanti con la Cina. Per gli Stati Uniti e Israele, questa variabile solleva interrogativi sulla condivisione di tecnologie avanzate con un Paese che, pur indirettamente, potrebbe avere punti di contatto con Islamabad attraverso il patto saudita.
A ciò si aggiunge il quadro interno pakistano, in cui la questione israelo-palestinese occupa un ruolo centrale nel dibattito politico e nell’opinione pubblica. Secondo analisti regionali, un eventuale accordo saudita-israeliano potrebbe generare pressioni su Islamabad affinché chieda rassicurazioni al partner saudita o adotti posizioni più assertive nei forum internazionali. In questo scenario, l’esistenza del patto di difesa apre la possibilità che il suo richiamo possa essere utilizzato sul piano diplomatico o mediatico in momenti di tensione.
La clausola di assistenza reciproca solleva inoltre un punto tecnico discusso tra osservatori e funzionari occidentali: l’eventualità che un’azione ostile verso Israele proveniente da gruppi attivi in Pakistan o da reticolati non statali possa essere interpretata come causa di attivazione della clausola, coinvolgendo formalmente l’Arabia Saudita in una crisi alla quale potrebbe non avere interesse a partecipare. Analoga preoccupazione riguarda la possibilità che operazioni segrete o azioni militari mirate possano essere considerate da Islamabad come aggressioni esterne. Da parte saudita, funzionari vicini al dossier hanno segnalato la volontà di evitare automatismi che possano compromettere i negoziati con Washington.
Sulle relazioni saudita-statunitensi, la gestione dell’intesa con il Pakistan rappresenta quindi un fattore da chiarire nei colloqui in corso. Washington ha indicato come priorità la creazione di un quadro di cooperazione militare prevedibile, in linea con i suoi interessi regionali e con le esigenze di tutela di Israele. Dirigenti israeliani, da parte loro, hanno riportato riserve soprattutto in relazione alle prospettive di trasferimenti tecnologici avanzati, tra cui sistemi di difesa aerea e centrali per la sorveglianza delle rotte commerciali del Mediterraneo.
Riyadh considera la normalizzazione con Israele parte di un pacchetto più ampio, che comprende garanzie di sicurezza da parte statunitense e un ruolo definito nel nuovo assetto economico regionale. Il governo saudita mantiene l’obiettivo di presentare il riconoscimento di Israele come passo inserito in un quadro di stabilizzazione complessiva del Medio Oriente, con benefici economici e infrastrutturali per più Paesi coinvolti. Tuttavia, la gestione del rapporto con il Pakistan richiede una definizione più precisa delle implicazioni operative del patto di difesa, alla luce del nuovo equilibrio a cui Stati Uniti e Arabia Saudita stanno lavorando.
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