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2023-10-14
Tajani: «Arabi uniti contro i terroristi». E il Vaticano schiera la sua diplomazia
Antonio Tajani in Israele (Ansa)
L’Italia cerca di acquisire un ruolo diplomatico significativo nella crisi israeliana. Ieri, il titolare della Farnesina, Antonio Tajani, si è recato nello Stato ebraico. «Ho ribadito al ministro israeliano degli esteri Cohen la solidarietà e la vicinanza del governo italiano e di tutta l’Italia alle vittime di questa tragedia e ho detto che faremo di tutto per liberare gli ostaggi nelle mani di Hamas», ha detto Tajani, equiparando Hamas all’Isis e alla Gestapo. «Israele ha diritto a difendersi e sono convinto che avrà una reazione proporzionata e farà di tutto per colpire solo Hamas», ha anche affermato, per poi aggiungere: «Credo che sia giusto che Hezbollah rimanga dentro i confini del Libano». Hezbollah è storicamente sostenuto da quell’Iran che fonti del New York Times hanno confermato ieri essere coinvolto nell’attacco di Hamas.
La logica che sta seguendo Tajani è essenzialmente quella degli accordi di Abramo: cercare di giocare di sponda con i Paesi arabi considerati più moderati, per isolare Hamas e l’Iran: «Un’alleanza contro il terrorismo può e deve esserci ma deve coinvolgere i Paesi arabi». «Vogliamo che ci sia una de-escalation, perché non vogliamo che scoppi un’altra guerra di ampio raggio, fermo restando il diritto di Israele a difendersi. E contiamo anche sull’Arabia Saudita, contiamo sulla Giordania, contiamo sull’Egitto», aveva detto già domenica. Si tratta di una strategia ambiziosa e non facile da attuare: l’attacco di Hamas, spalleggiato da Teheran, era infatti principalmente finalizzato a far deragliare la normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita, mediata dagli Usa: una normalizzazione che, secondo Reuters, Riad avrebbe appena congelato. Tuttavia il capo della Farnesina sta cercando di ricomporre tali fratture.
È d’altronde in questo contesto che Tony Blinken ha incontrato ieri il re di Giordania Abd Allah II, il presidente dell’Anp Mahmoud Abbas e l’emiro del Qatar Tamim bin Hamad Al Thani: ricordiamo che Doha intrattiene solidi legami con l’Iran e che ha anche opachi rapporti con Hamas. L’obiettivo del segretario di Stato Usa è quello di «aiutare a prevenire la diffusione del conflitto, garantire il rilascio immediato e sicuro degli ostaggi e identificare meccanismi per la protezione dei civili».
Nel frattempo, l’Ue continua a rivelarsi spaccata. Il capo della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e il presidente dell’Europarlamento, Roberta Metsola, si sono recate ieri in Israele per esprimere solidarietà. Il problema è che, al di là delle dichiarazioni di facciata, la Commissione si è di recente divisa sulla questione della sospensione degli aiuti ai palestinesi. Inoltre, al suo interno figurano alcuni fautori del controverso accordo sul nucleare iraniano, come Josep Borrell e Paolo Gentiloni. Tra l’altro, dopo un colloquio ieri a Pechino con il ministro degli Esteri cinese Wang Yi, proprio Borrell ha definito «irrealistica» l’evacuazione di circa un milione di palestinesi verso il Sud di Gaza, invocata dal governo israeliano. Eppure, nonostante queste spaccature, Borrell è riuscito a definire l’Ue una «potenza geopolitica».
Tentativi di mediazione sono arrivati intanto dal segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin, che ha incontrato l’ambasciatore israeliano presso la Santa Sede, Raphael Schutz. «È diritto di chi è attaccato difendersi, ma anche la legittima difesa deve rispettare il parametro della proporzionalità», ha detto Parolin. «La liberazione degli ostaggi israeliani e la protezione della vita degli innocenti a Gaza sono il cuore del problema creatosi con l’attacco di Hamas e la risposta dell’esercito israeliano», ha proseguito, aggiungendo che «la Santa Sede è pronta a qualsiasi mediazione necessaria».
Cresce nel frattempo la tensione tra Usa e Iran. Parlando da Israele, dove ieri ha incontrato Benjamin Netanyahu, il capo del Pentagono, Lloyd Austin, non ha lasciato spazio a dubbi. «Non c’è mai alcuna giustificazione per il terrorismo. E questo è particolarmente vero per la furia di Hamas», ha detto, per poi aggiungere: «Hamas non parla a nome del popolo palestinese, o delle sue legittime speranze di dignità, sicurezza, statualità e pace al fianco di Israele». «Abbiamo una sola parola per qualsiasi Paese, o qualsiasi gruppo o chiunque cerchi di trarre vantaggio da questa atrocità: non fatelo», ha concluso.
Un avvertimento verosimilmente rivolto a Hezbollah e allo stesso Iran. D’altronde, poche ore prima il ministro degli Esteri iraniano, Hossein Amir-Abdollahian, si era incontrato a Beirut proprio con il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah. Lo stesso Abdollahian aveva inoltre lanciato delle minacce, affermando: «Se questi crimini di guerra organizzati commessi dall’entità sionista non si fermano immediatamente, allora possiamo immaginare qualsiasi possibilità». Nel frattempo, il vice capo di Hezbollah, Naim Qassem, ha detto che la sua organizzazione è «pienamente preparata» a unirsi ad Hamas contro Israele. L’Iran e i suoi proxy puntano a incrementare la tensione, per allontanare da Israele quei Paesi arabi che ci si stavano avvicinando. Per recuperare la logica degli accordi di Abramo è necessario che l’amministrazione Biden e la Commissione Ue abbandonino finalmente ogni tipo di appeasement verso i khomeinisti. Forse la Casa Bianca inizia a comprenderlo, visto che ha bloccato i sei miliardi di dollari di asset iraniani che aveva scongelato a settembre. Bruxelles invece quando lo capirà?
Putin: «Ad Hamas armi per l’Ucraina»
L’ammissione di Vladimir Putin, «Israele ha il diritto di difendersi, e a garanzie sulla sua esistenza pacifica», con il passare delle ore è finita stemperata da una serie di distinguo, compresa «la necessità di creare una Palestina indipendente».
Fa gioco, al capo del Cremlino, deplorare il conflitto in corso distraendo l’attenzione dell’Occidente dall’Ucraina, nel suo primo viaggio all’estero da quando è stato incriminato dalla Corte penale internazionale.
Parlando al vertice della Comunità degli Stati indipendenti a Bishkek, ha difeso l’invasione russa. «L’invio di truppe era giustificabile a causa degli anni di combattimenti tra l’esercito ucraino e le forze separatiste nell’est del Paese», è stata la sua dichiarazione ai giornalisti. «La nostra operazione militare speciale non è l’inizio di una guerra, ma un tentativo di fermarla», ha provato a spiegare.
Quanto al drammatico conflitto in Medio Oriente, ha detto che «la cosa più importante», in questo momento, è un «immediato cessate il fuoco e la stabilizzazione della situazione sul terreno». Putin definisce «inaccettabili» gli appelli ad usare tattiche da «assedio di Leningrado» contro la Striscia di Gaza, ma soprattutto gioisce perché dai media, concentrati sugli orrori compiuti dai terroristi, sono quasi del tutto scomparse notizie sul fronte russo ucraino.
E ci sarebbero le armi, fornite dall’Ucraina ad Hamas attraverso il mercato nero, ipotesi che il presidente russo sembra confermare. «Abbiamo informazioni sicure», ha affermato. Per poi correggere il tiro: «Non ho alcuna simpatia nei confronti dell’attuale leadership ucraina, ma dubito che ciò sia fatto a livello di governo. Il livello della corruzione in Ucraina è conosciuto, è molto alto».
Certo, l'attacco subìto da Israele è «senza precedenti, non solo per dimensioni ma anche per il grado di brutalità», riconosce lo zar, convinto che l'obiettivo dei negoziati debba essere «l’attuazione della formula dei due Stati delle Nazioni Unite che implica la creazione di uno Stato Palestinese con Gerusalemme est come capitale», lavorando per risolvere queste questioni «con modalità pacifiche».
Però, il capo del Cremlino ha rotto il silenzio solo per denunciare le «catastrofiche» morti civili e criticare i passi di Washington verso un accordo di pace in Medio Oriente. È salito in cattedra per proporsi anche come mediatore, dichiarando che Mosca «è pronta a coordinarsi con tutti i partner dalla mentalità costruttiva».
Per Putin, gli Stati Uniti sarebbero causa integrante dell’attuale conflitto tra Israele e i terroristi islamici. «Non è stato utilizzato il quartetto di mediatori internazionali» formato da Nazioni Unite, Usa, Russia e Ue, ha accusato secondo quanto riporta la Tass.
I legami di Mosca con la Siria, uno stretto alleato dell’arcinemico di Israele, l’Iran, non hanno impedito buoni rapporti tra Putin e Netanyahu. Più di un milione di persone dalla Russia e da altre parti dell’ex Unione Sovietica si sono trasferite in Israele, fattore importante nel consolidare le relazioni.
Dopo l’invasione dell’Ucraina, le autorità israeliane hanno espresso sostegno a Kiev ma rifiutato di fornirle armi. Mosca ora sollecita una rapida fine dei combattimenti, senza attribuire colpe e sperando di agire come pacificatore, ma davvero vuole che si metta fine alla guerra? La destabilizzazione dell’Occidente è solo funzionale alla Russia, e se un nuovo conflitto si estende in tutto il Medio Oriente aiuti e sostegno all’Ucraina non sarebbero più una priorità.
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Il vicepremier: «Isolare i violenti». Pietro Parolin: «Pronti a mediare». Antony Blinken in Giordania e Qatar. L’Ue si muove ma non tocca palla.Vladimir Putin si gode l’instabilità dell’area: «C’è un mercato nero anche se non penso vi sia dietro il governo di Kiev». «Israele ha diritto a difendersi, ma serve un cessate il fuoco».Lo speciale contiene due articoli.L’Italia cerca di acquisire un ruolo diplomatico significativo nella crisi israeliana. Ieri, il titolare della Farnesina, Antonio Tajani, si è recato nello Stato ebraico. «Ho ribadito al ministro israeliano degli esteri Cohen la solidarietà e la vicinanza del governo italiano e di tutta l’Italia alle vittime di questa tragedia e ho detto che faremo di tutto per liberare gli ostaggi nelle mani di Hamas», ha detto Tajani, equiparando Hamas all’Isis e alla Gestapo. «Israele ha diritto a difendersi e sono convinto che avrà una reazione proporzionata e farà di tutto per colpire solo Hamas», ha anche affermato, per poi aggiungere: «Credo che sia giusto che Hezbollah rimanga dentro i confini del Libano». Hezbollah è storicamente sostenuto da quell’Iran che fonti del New York Times hanno confermato ieri essere coinvolto nell’attacco di Hamas. La logica che sta seguendo Tajani è essenzialmente quella degli accordi di Abramo: cercare di giocare di sponda con i Paesi arabi considerati più moderati, per isolare Hamas e l’Iran: «Un’alleanza contro il terrorismo può e deve esserci ma deve coinvolgere i Paesi arabi». «Vogliamo che ci sia una de-escalation, perché non vogliamo che scoppi un’altra guerra di ampio raggio, fermo restando il diritto di Israele a difendersi. E contiamo anche sull’Arabia Saudita, contiamo sulla Giordania, contiamo sull’Egitto», aveva detto già domenica. Si tratta di una strategia ambiziosa e non facile da attuare: l’attacco di Hamas, spalleggiato da Teheran, era infatti principalmente finalizzato a far deragliare la normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita, mediata dagli Usa: una normalizzazione che, secondo Reuters, Riad avrebbe appena congelato. Tuttavia il capo della Farnesina sta cercando di ricomporre tali fratture. È d’altronde in questo contesto che Tony Blinken ha incontrato ieri il re di Giordania Abd Allah II, il presidente dell’Anp Mahmoud Abbas e l’emiro del Qatar Tamim bin Hamad Al Thani: ricordiamo che Doha intrattiene solidi legami con l’Iran e che ha anche opachi rapporti con Hamas. L’obiettivo del segretario di Stato Usa è quello di «aiutare a prevenire la diffusione del conflitto, garantire il rilascio immediato e sicuro degli ostaggi e identificare meccanismi per la protezione dei civili».Nel frattempo, l’Ue continua a rivelarsi spaccata. Il capo della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e il presidente dell’Europarlamento, Roberta Metsola, si sono recate ieri in Israele per esprimere solidarietà. Il problema è che, al di là delle dichiarazioni di facciata, la Commissione si è di recente divisa sulla questione della sospensione degli aiuti ai palestinesi. Inoltre, al suo interno figurano alcuni fautori del controverso accordo sul nucleare iraniano, come Josep Borrell e Paolo Gentiloni. Tra l’altro, dopo un colloquio ieri a Pechino con il ministro degli Esteri cinese Wang Yi, proprio Borrell ha definito «irrealistica» l’evacuazione di circa un milione di palestinesi verso il Sud di Gaza, invocata dal governo israeliano. Eppure, nonostante queste spaccature, Borrell è riuscito a definire l’Ue una «potenza geopolitica». Tentativi di mediazione sono arrivati intanto dal segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin, che ha incontrato l’ambasciatore israeliano presso la Santa Sede, Raphael Schutz. «È diritto di chi è attaccato difendersi, ma anche la legittima difesa deve rispettare il parametro della proporzionalità», ha detto Parolin. «La liberazione degli ostaggi israeliani e la protezione della vita degli innocenti a Gaza sono il cuore del problema creatosi con l’attacco di Hamas e la risposta dell’esercito israeliano», ha proseguito, aggiungendo che «la Santa Sede è pronta a qualsiasi mediazione necessaria». Cresce nel frattempo la tensione tra Usa e Iran. Parlando da Israele, dove ieri ha incontrato Benjamin Netanyahu, il capo del Pentagono, Lloyd Austin, non ha lasciato spazio a dubbi. «Non c’è mai alcuna giustificazione per il terrorismo. E questo è particolarmente vero per la furia di Hamas», ha detto, per poi aggiungere: «Hamas non parla a nome del popolo palestinese, o delle sue legittime speranze di dignità, sicurezza, statualità e pace al fianco di Israele». «Abbiamo una sola parola per qualsiasi Paese, o qualsiasi gruppo o chiunque cerchi di trarre vantaggio da questa atrocità: non fatelo», ha concluso. Un avvertimento verosimilmente rivolto a Hezbollah e allo stesso Iran. D’altronde, poche ore prima il ministro degli Esteri iraniano, Hossein Amir-Abdollahian, si era incontrato a Beirut proprio con il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah. Lo stesso Abdollahian aveva inoltre lanciato delle minacce, affermando: «Se questi crimini di guerra organizzati commessi dall’entità sionista non si fermano immediatamente, allora possiamo immaginare qualsiasi possibilità». Nel frattempo, il vice capo di Hezbollah, Naim Qassem, ha detto che la sua organizzazione è «pienamente preparata» a unirsi ad Hamas contro Israele. L’Iran e i suoi proxy puntano a incrementare la tensione, per allontanare da Israele quei Paesi arabi che ci si stavano avvicinando. Per recuperare la logica degli accordi di Abramo è necessario che l’amministrazione Biden e la Commissione Ue abbandonino finalmente ogni tipo di appeasement verso i khomeinisti. Forse la Casa Bianca inizia a comprenderlo, visto che ha bloccato i sei miliardi di dollari di asset iraniani che aveva scongelato a settembre. 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Parlando al vertice della Comunità degli Stati indipendenti a Bishkek, ha difeso l’invasione russa. «L’invio di truppe era giustificabile a causa degli anni di combattimenti tra l’esercito ucraino e le forze separatiste nell’est del Paese», è stata la sua dichiarazione ai giornalisti. «La nostra operazione militare speciale non è l’inizio di una guerra, ma un tentativo di fermarla», ha provato a spiegare. Quanto al drammatico conflitto in Medio Oriente, ha detto che «la cosa più importante», in questo momento, è un «immediato cessate il fuoco e la stabilizzazione della situazione sul terreno». Putin definisce «inaccettabili» gli appelli ad usare tattiche da «assedio di Leningrado» contro la Striscia di Gaza, ma soprattutto gioisce perché dai media, concentrati sugli orrori compiuti dai terroristi, sono quasi del tutto scomparse notizie sul fronte russo ucraino. E ci sarebbero le armi, fornite dall’Ucraina ad Hamas attraverso il mercato nero, ipotesi che il presidente russo sembra confermare. «Abbiamo informazioni sicure», ha affermato. Per poi correggere il tiro: «Non ho alcuna simpatia nei confronti dell’attuale leadership ucraina, ma dubito che ciò sia fatto a livello di governo. Il livello della corruzione in Ucraina è conosciuto, è molto alto». Certo, l'attacco subìto da Israele è «senza precedenti, non solo per dimensioni ma anche per il grado di brutalità», riconosce lo zar, convinto che l'obiettivo dei negoziati debba essere «l’attuazione della formula dei due Stati delle Nazioni Unite che implica la creazione di uno Stato Palestinese con Gerusalemme est come capitale», lavorando per risolvere queste questioni «con modalità pacifiche». Però, il capo del Cremlino ha rotto il silenzio solo per denunciare le «catastrofiche» morti civili e criticare i passi di Washington verso un accordo di pace in Medio Oriente. È salito in cattedra per proporsi anche come mediatore, dichiarando che Mosca «è pronta a coordinarsi con tutti i partner dalla mentalità costruttiva». Per Putin, gli Stati Uniti sarebbero causa integrante dell’attuale conflitto tra Israele e i terroristi islamici. «Non è stato utilizzato il quartetto di mediatori internazionali» formato da Nazioni Unite, Usa, Russia e Ue, ha accusato secondo quanto riporta la Tass. I legami di Mosca con la Siria, uno stretto alleato dell’arcinemico di Israele, l’Iran, non hanno impedito buoni rapporti tra Putin e Netanyahu. Più di un milione di persone dalla Russia e da altre parti dell’ex Unione Sovietica si sono trasferite in Israele, fattore importante nel consolidare le relazioni. Dopo l’invasione dell’Ucraina, le autorità israeliane hanno espresso sostegno a Kiev ma rifiutato di fornirle armi. Mosca ora sollecita una rapida fine dei combattimenti, senza attribuire colpe e sperando di agire come pacificatore, ma davvero vuole che si metta fine alla guerra? La destabilizzazione dell’Occidente è solo funzionale alla Russia, e se un nuovo conflitto si estende in tutto il Medio Oriente aiuti e sostegno all’Ucraina non sarebbero più una priorità.
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Getty Images
Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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