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2024-09-13
Tajani dà l’ultimatum all’opposizione: «Al candidato dell’Italia si dice sì»
Non si placa il dibattito attorno al nome di Raffaele Fitto per la Commissione europea. Una candidatura, la sua, che sembra ormai essere blindata grazie al sostegno dei popolari che con il premier, Giorgia Meloni, hanno già trovato l’accordo. A dividere, più che il suo nome, è la carica che andrebbe a ricoprire, ovvero la vicepresidenza con delega all’Economia. «È giusto che l’Italia abbia una vicepresidenza esecutiva, perché è la seconda manifattura d’Europa, la terza economia, un Paese fondatore, credo che sia anche utile all’Europa avere un rappresentante italiano che possa dare il massimo contributo con l’esperienza e Fitto è una persona esperta che conosce il Parlamento», ha commentato il vicepremier, ministro degli Esteri, nonché vicepresidente del Ppe, Antonio Tajani, che si dice straconvinto del nome di Fitto, nonostante sia espressione del gruppo dei conservatori, Ecr, facendo parte di Fratelli d’Italia. «I partiti d’opposizione non vogliono votare la Commissione europea? Se ne assumeranno le responsabilità. Si dicono europeisti, ma votando contro non darebbero grande dimostrazione di europeismo», rincara Tajani. «Mi auguro che tutti i parlamentari italiani che fanno parte dei partiti d’opposizione ricordino un principio: Fitto è un candidato dell’Italia, non di un partito. Dovrebbero fare come facemmo noi con Paolo Gentiloni. Silvio Berlusconi volle ascoltare l’audizione di Gentiloni, perché fuori dai confini dell’Italia non contano le divisioni tra partiti, ma conta l’Italia».
A esser contrari sono soprattutto i Verdi che dicono che non appoggeranno la sua candidatura, mentre per i liberali il discorso è un po’ diverso. Per gli esponenti di Renew si tratta di una questione di principio infatti. Loro ritengono che non avendo Ecr appoggiato la maggioranza che ha fatto eleggere Ursula von der Leyen presidente della Commissione europea, non è giusto che i conservatori abbiano un posto di peso al pari di chi invece l’ha sostenuta e votata in Parlamento. Tanto che settimana scorsa, appresa la notizia, la francese Valérie Hayer, presidente del gruppo liberale dell’Assemblea comunitaria, aveva commentato: «Spero che le voci non siano vere. Questo significherebbe che Ursula von der Leyen metterebbe tra i pesi massimi della Commissione europea un commissario di estrema destra che, tra l’altro, non l’ha sostenuta», aveva aggiunto, definendo la cosa «incomprensibile» e anche «inaccettabile».
I socialisti invece sono afflitti da una crisi. Per posizione si situerebbero senza grandi dubbi contro la sua candidatura, come già rimostrato più volte. C’è un tema di interessi però: non hanno i numeri per fare opposizione. O meglio: li avrebbero a costo di sacrificare la loro candidata socialista, Teresa Ribera, candidata al portafoglio della Concorrenza.
Per quanto riguarda la proposta di affidare una vicepresidenza esecutiva della Commissione europea a Fitto, «stiamo negoziando e ci sono diverse questioni sul tavolo. Tuttavia, alla fine, dobbiamo vedere la proposta, vogliamo parlare di priorità e posizioni. Non riusciamo a capire come un governo che non ha sostenuto Von der Leyen possa ora avere un posto in Commissione allo stesso livello di noi o del Ppe», ha detto una fonte qualificata del gruppo dei Socialisti e democratici al Parlamento europeo. «Von der Leyen è diventata presidente della Commissione europea grazie al sostegno delle forze pro-europee. È stata molto chiara nel dire che vuole lavorare con le forze pro europee. Ecco perché non va bene per noi che ci sia un vicepresidente esecutivo dell’Ecr». La strategia è evidente: adesso, vista la situazione, sarebbero per appoggiare nome e delega ma non come vicepresidenza esecutiva. Secondo altre fonti interne a Bruxelles invece, la proposta di assegnare una vicepresidenza esecutiva a Fitto non sarebbe un grosso ostacolo nella chiusura della lista dei commissari e delle deleghe da parte di Von der Leyen. L’esecutivo Ue infatti ribadisce che lo stallo è soprattutto tecnico, perché vuole avere il nome confermato dal governo sloveno: la scelta della candidata Marta Kos dovrà passare al vaglio della Ccommissione per gli Affari europei del Parlamento sloveno domani. Un passaggio non scontato, visto che il partito di opposizione, i Democratici (Sds), insiste affinché il governo fornisca le motivazioni della sostituzione di Tomaz Vesel prima che possa pronunciarsi il Parlamento. Secondo Bruxelles le critiche avanzate da socialisti, liberali e verdi non sarebbero insormontabili e si confida sul fatto che il presidente Von der Leyen spiegherà ai gruppi della sua maggioranza il perché di tale scelta.
Lei è pronta a tirare dritto e spiegare alla sua maggioranza perché è necessario tenere a bordo l’Italia e il suo governo. Per il peso tra i 27, certo ma anche per allontanare del tutto Ecr dal campo sovranista e integrarlo sempre più in quello europeista.
Secondo il ragionamento che si segue, dal momento che al Parlamento europeo ci sono già stati due vicepresidenti di Ecr, le critiche fin qui portate non avrebbero grande rilevanza. Anche per questo dai socialisti si registrano passi indietro e segnali di ammorbidimento: «Saremo responsabili», assicurano. La condizione? «Fitto dovrà dimostrare al Parlamento se è pro Ue e dovrà essere preparato».
Roma vuole la poltrona più pesante
È la vicepresidenza esecutiva l’obiettivo più importante da raggiungere per l’Italia. Fondamentale per i poteri che quel ruolo può conferire al nostro Paese, diversi e più importanti rispetto a quelli che si otterrebbero con una semplice nomina da commissario, a prescindere dal portafoglio che si conquista. Il vicepresidente della Commissione europea infatti, oltre a essere membro della Commissione, rappresenta anche il presidente e guida la Commissione in sua assenza. Per prassi gli si attribuisce la responsabilità di un portafoglio stabilito dal presidente, fatto salvo per il ruolo di Alto rappresentante dell’Unione che, al contrario, automaticamente diventa vicepresidente. Non esiste un regolamento interno né un trattato che stabilisca le funzioni specifiche corrispondenti ai vicepresidenti. È un vuoto giuridico che consente tuttavia al presidente della Commissione di concedere con discrezionalità assolutamente personale il valore aggiunto di un suo vicepresidente. Differenziando quindi il ruolo di semplice vicepresidente, da quello di vicepresidente esecutivo.
Nella formazione dell’elenco dei vicepresidenti, questi non avranno lo stesso potere. Un tempo esisteva la designazione del primo vicepresidente, quello considerato il più importante. Con il tempo questi sono diventati più di uno. Il presidente della Commissione quindi usa distinguere uno o più dei suoi vicepresidenti dagli altri, sia su rigide scale gerarchiche che funzionali, conferendogli una superiorità più o meno chiara su tutto il resto del Collegio dei commissari. Questi sono comunemente chiamati vicepresidenti esecutivi e hanno in genere tre funzioni aggiuntive rispetto a quelle di un comune vicepresidente: una funzione generale di coordinamento politico del collegio e dei suoi membri, con l’assistenza del segretariato generale della Commissione; la sostituzione, su base preferenziale, del presidente della Commissione e la sua rappresentanza istituzionale negli atti in cui è assente, nonché quella del collegio; la direzione della politica di comunicazione comunitaria. L’ultima sostanzialmente conferisce il potere di fare essenzialmente da portavoce autorizzato della Commissione. Dettare la linea politica, insomma.Il primo vicepresidente, o vicepresidente esecutivo, è considerato quindi il «numero due» nella scala gerarchica interna del collegio e il suo peso politico è quindi considerato superiore a quello degli altri commissari, compresi gli altri vicepresidenti.
Nel precedente mandato i vicepresidenti erano sette (27 i membri della Commissione, uno per Paese). Ursula von der Leyen aveva affidato questo incarico a Frans Timmermans (Paesi Bassi) socialista, che deteneva il portafoglio per il green deal europeo. Margrethe Vestager (Danimarca), liberale: a lei la presidente aveva affidato la concorrenza, ruolo confermato perché la danese ricopre quel ruolo dal 2014, quando a fare il presidente della Commissione c’era Jean Claude Juncker. Il terzo vicepresidente era Valdis Dombrovskis, (Lettonia), Partito popolare, a cui era affidato anche il compito di seguire l’economia. Tutti loro avevano anche la delega esecutiva, al contrario degli altri cinque, semplici vicepresidenti, fatto salvo per Josep Borrell, già Alto rappresentante per la politica estera e quindi automaticamente vicepresidente. Vera Jourova (Repubblica Ceca), liberale, commissario per i valori e la trasparenza; Margaritis Schinas (Grecia), popolare, Commissario per la migrazione, l’uguaglianza e la diversità; Maros Sefcovic (Slovacchia), inter istituzionali e l’amministrazione e Dubravka Suica (Croazia), popolare, commissario per la democrazia e la demografia
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Il vicepremier striglia gli europeisti a parole: «L’uomo che ha gestito il Pnrr non rappresenta solo un partito» Renew si impunta: «Ecr non sostenne Ursula». Socialisti combattuti, un no potrebbe far traballare la Ribera. L’obiettivo dichiarato di Palazzo Chigi è la vicepresidenza esecutiva. Chi la ottiene è di fatto un «numero due» in Commissione, con ampi poteri e molta visibilità. Lo speciale contiene due articoli.Non si placa il dibattito attorno al nome di Raffaele Fitto per la Commissione europea. Una candidatura, la sua, che sembra ormai essere blindata grazie al sostegno dei popolari che con il premier, Giorgia Meloni, hanno già trovato l’accordo. A dividere, più che il suo nome, è la carica che andrebbe a ricoprire, ovvero la vicepresidenza con delega all’Economia. «È giusto che l’Italia abbia una vicepresidenza esecutiva, perché è la seconda manifattura d’Europa, la terza economia, un Paese fondatore, credo che sia anche utile all’Europa avere un rappresentante italiano che possa dare il massimo contributo con l’esperienza e Fitto è una persona esperta che conosce il Parlamento», ha commentato il vicepremier, ministro degli Esteri, nonché vicepresidente del Ppe, Antonio Tajani, che si dice straconvinto del nome di Fitto, nonostante sia espressione del gruppo dei conservatori, Ecr, facendo parte di Fratelli d’Italia. «I partiti d’opposizione non vogliono votare la Commissione europea? Se ne assumeranno le responsabilità. Si dicono europeisti, ma votando contro non darebbero grande dimostrazione di europeismo», rincara Tajani. «Mi auguro che tutti i parlamentari italiani che fanno parte dei partiti d’opposizione ricordino un principio: Fitto è un candidato dell’Italia, non di un partito. Dovrebbero fare come facemmo noi con Paolo Gentiloni. Silvio Berlusconi volle ascoltare l’audizione di Gentiloni, perché fuori dai confini dell’Italia non contano le divisioni tra partiti, ma conta l’Italia».A esser contrari sono soprattutto i Verdi che dicono che non appoggeranno la sua candidatura, mentre per i liberali il discorso è un po’ diverso. Per gli esponenti di Renew si tratta di una questione di principio infatti. Loro ritengono che non avendo Ecr appoggiato la maggioranza che ha fatto eleggere Ursula von der Leyen presidente della Commissione europea, non è giusto che i conservatori abbiano un posto di peso al pari di chi invece l’ha sostenuta e votata in Parlamento. Tanto che settimana scorsa, appresa la notizia, la francese Valérie Hayer, presidente del gruppo liberale dell’Assemblea comunitaria, aveva commentato: «Spero che le voci non siano vere. Questo significherebbe che Ursula von der Leyen metterebbe tra i pesi massimi della Commissione europea un commissario di estrema destra che, tra l’altro, non l’ha sostenuta», aveva aggiunto, definendo la cosa «incomprensibile» e anche «inaccettabile».I socialisti invece sono afflitti da una crisi. Per posizione si situerebbero senza grandi dubbi contro la sua candidatura, come già rimostrato più volte. C’è un tema di interessi però: non hanno i numeri per fare opposizione. O meglio: li avrebbero a costo di sacrificare la loro candidata socialista, Teresa Ribera, candidata al portafoglio della Concorrenza. Per quanto riguarda la proposta di affidare una vicepresidenza esecutiva della Commissione europea a Fitto, «stiamo negoziando e ci sono diverse questioni sul tavolo. Tuttavia, alla fine, dobbiamo vedere la proposta, vogliamo parlare di priorità e posizioni. Non riusciamo a capire come un governo che non ha sostenuto Von der Leyen possa ora avere un posto in Commissione allo stesso livello di noi o del Ppe», ha detto una fonte qualificata del gruppo dei Socialisti e democratici al Parlamento europeo. «Von der Leyen è diventata presidente della Commissione europea grazie al sostegno delle forze pro-europee. È stata molto chiara nel dire che vuole lavorare con le forze pro europee. Ecco perché non va bene per noi che ci sia un vicepresidente esecutivo dell’Ecr». La strategia è evidente: adesso, vista la situazione, sarebbero per appoggiare nome e delega ma non come vicepresidenza esecutiva. Secondo altre fonti interne a Bruxelles invece, la proposta di assegnare una vicepresidenza esecutiva a Fitto non sarebbe un grosso ostacolo nella chiusura della lista dei commissari e delle deleghe da parte di Von der Leyen. L’esecutivo Ue infatti ribadisce che lo stallo è soprattutto tecnico, perché vuole avere il nome confermato dal governo sloveno: la scelta della candidata Marta Kos dovrà passare al vaglio della Ccommissione per gli Affari europei del Parlamento sloveno domani. Un passaggio non scontato, visto che il partito di opposizione, i Democratici (Sds), insiste affinché il governo fornisca le motivazioni della sostituzione di Tomaz Vesel prima che possa pronunciarsi il Parlamento. Secondo Bruxelles le critiche avanzate da socialisti, liberali e verdi non sarebbero insormontabili e si confida sul fatto che il presidente Von der Leyen spiegherà ai gruppi della sua maggioranza il perché di tale scelta. Lei è pronta a tirare dritto e spiegare alla sua maggioranza perché è necessario tenere a bordo l’Italia e il suo governo. Per il peso tra i 27, certo ma anche per allontanare del tutto Ecr dal campo sovranista e integrarlo sempre più in quello europeista.Secondo il ragionamento che si segue, dal momento che al Parlamento europeo ci sono già stati due vicepresidenti di Ecr, le critiche fin qui portate non avrebbero grande rilevanza. Anche per questo dai socialisti si registrano passi indietro e segnali di ammorbidimento: «Saremo responsabili», assicurano. La condizione? «Fitto dovrà dimostrare al Parlamento se è pro Ue e dovrà essere preparato».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/tajani-da-lultimatum-2669197764.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="roma-vuole-la-poltrona-piu-pesante" data-post-id="2669197764" data-published-at="1726202954" data-use-pagination="False"> Roma vuole la poltrona più pesante È la vicepresidenza esecutiva l’obiettivo più importante da raggiungere per l’Italia. Fondamentale per i poteri che quel ruolo può conferire al nostro Paese, diversi e più importanti rispetto a quelli che si otterrebbero con una semplice nomina da commissario, a prescindere dal portafoglio che si conquista. Il vicepresidente della Commissione europea infatti, oltre a essere membro della Commissione, rappresenta anche il presidente e guida la Commissione in sua assenza. Per prassi gli si attribuisce la responsabilità di un portafoglio stabilito dal presidente, fatto salvo per il ruolo di Alto rappresentante dell’Unione che, al contrario, automaticamente diventa vicepresidente. Non esiste un regolamento interno né un trattato che stabilisca le funzioni specifiche corrispondenti ai vicepresidenti. È un vuoto giuridico che consente tuttavia al presidente della Commissione di concedere con discrezionalità assolutamente personale il valore aggiunto di un suo vicepresidente. Differenziando quindi il ruolo di semplice vicepresidente, da quello di vicepresidente esecutivo.Nella formazione dell’elenco dei vicepresidenti, questi non avranno lo stesso potere. Un tempo esisteva la designazione del primo vicepresidente, quello considerato il più importante. Con il tempo questi sono diventati più di uno. Il presidente della Commissione quindi usa distinguere uno o più dei suoi vicepresidenti dagli altri, sia su rigide scale gerarchiche che funzionali, conferendogli una superiorità più o meno chiara su tutto il resto del Collegio dei commissari. Questi sono comunemente chiamati vicepresidenti esecutivi e hanno in genere tre funzioni aggiuntive rispetto a quelle di un comune vicepresidente: una funzione generale di coordinamento politico del collegio e dei suoi membri, con l’assistenza del segretariato generale della Commissione; la sostituzione, su base preferenziale, del presidente della Commissione e la sua rappresentanza istituzionale negli atti in cui è assente, nonché quella del collegio; la direzione della politica di comunicazione comunitaria. L’ultima sostanzialmente conferisce il potere di fare essenzialmente da portavoce autorizzato della Commissione. Dettare la linea politica, insomma.Il primo vicepresidente, o vicepresidente esecutivo, è considerato quindi il «numero due» nella scala gerarchica interna del collegio e il suo peso politico è quindi considerato superiore a quello degli altri commissari, compresi gli altri vicepresidenti. Nel precedente mandato i vicepresidenti erano sette (27 i membri della Commissione, uno per Paese). Ursula von der Leyen aveva affidato questo incarico a Frans Timmermans (Paesi Bassi) socialista, che deteneva il portafoglio per il green deal europeo. Margrethe Vestager (Danimarca), liberale: a lei la presidente aveva affidato la concorrenza, ruolo confermato perché la danese ricopre quel ruolo dal 2014, quando a fare il presidente della Commissione c’era Jean Claude Juncker. Il terzo vicepresidente era Valdis Dombrovskis, (Lettonia), Partito popolare, a cui era affidato anche il compito di seguire l’economia. Tutti loro avevano anche la delega esecutiva, al contrario degli altri cinque, semplici vicepresidenti, fatto salvo per Josep Borrell, già Alto rappresentante per la politica estera e quindi automaticamente vicepresidente. Vera Jourova (Repubblica Ceca), liberale, commissario per i valori e la trasparenza; Margaritis Schinas (Grecia), popolare, Commissario per la migrazione, l’uguaglianza e la diversità; Maros Sefcovic (Slovacchia), inter istituzionali e l’amministrazione e Dubravka Suica (Croazia), popolare, commissario per la democrazia e la demografia
Il Castello Mackenzie di Genova. A destra, il dettaglio della torre (Ansa)
Ewan Mackenzie, di padre scozzese, era toscano fin nel midollo. Da Firenze, la città che lo vide nascere nel 1852, assorbì la passione per l’arte e la letteratura del Rinascimento e dell’opera di Dante di cui fu collezionista delle edizioni più rare della Commedia.
Mackenzie si trasferì a Genova come agente dei Lloyds di Londra. Qui alla fine del secolo XIX fonderà un impero in campo assicurativo, l’Alleanza Assicurazioni. Il grande successo imprenditoriale gli permise di coronare il sogno di una vita: quello di dare nuova forma al Rinascimento toscano nella città della Lanterna con la costruzione di una dimora unica nella zona degli antichi bastioni di san Bartolomeo al Castelletto che dominano Genova ed il porto antico. Trovò nell’esordiente architetto fiorentino Gino Coppedè la professionalità giusta per realizzare la sua nuova dimora. Quest’ultimo era figlio d’arte di uno degli ebanisti più quotati dell’epoca, Mariano Coppedé. I lavori di costruzione del capolavoro dell’eclettismo tipico degli anni a cavallo tra i secoli XIX e XX iniziarono nel 1897 per concludersi 9 anni più tardi, nel 1906. Il castello, che cambiò la prospettiva dalla vicina piazza Manin, era un capolavoro di arte ispirata al Medioevo ed al Rinascimento. La torre principale ricordava quella di Palazzo Vecchio a Firenze, mentre mura, nicchie torrette e merletti, compresi i fossati e i ponti, facevano pensare ai manieri medievali. All’interno dominava la boiserie della bottega Coppedé, nelle oltre 80 stanze della dimora. Non mancava un tocco di modernità nell’impianto di riscaldamento centralizzato e nell’acqua calda disponibile in tutta la casa. Il palazzo ospitava anche una piscina riscaldata ed un ascensore di grande capienza. Nei sotterranei erano state ricavate grotte scenografiche, ispirate alla Grotta Azzurra di Capri, con statue mitologiche e giochi d’acqua, e non mancava un luogo dedicato alla preghiera, una cappella in stile neogotico con vetrate artistiche, ed una immensa biblioteca dove erano conservate le edizioni più preziose della Commedia dantesca. Il castello fu abitato dalla famiglia fino alla morte del proprietario avvenuta nel 1935. La figlia di Ewan, Isa Mackenzie, la cedette poco dopo ad una società immobiliare. Dopo l’8 settembre 1943 fu requisito dai tedeschi e scampò per miracolo ai pesantissimi bombardamenti sulla città. Nel dopoguerra fu brevemente occupato dagli Alleati prima di essere destinato a diventare una stazione dei Carabinieri, che rimasero fino al 1956 quando il castello fu dichiarato monumento nazionale. In seguito fu adibito a sede di una società sportiva, la Società Ginnastica Rubattino, e dagli anni Sessanta andò incontro ad un declino durato per tutto il decennio successivo. Solo negli anni seguenti la dimora da sogno di Mackenzie poté essere recuperata al suo splendore originario. Nel 1986 il magnate e collezionista d’arte americano Mitchell Wolfson Jr. rilevò il castello ed iniziò un complesso restauro a partire dal 1991 prima di cederlo a sua volta a Marcello Cambi, famoso restauratore toscano e patron dell’omonima casa d’aste della quale il castello divenne la sede, dopo un’ulteriore restauro da parte del grande architetto genovese Gianfranco Franchini, tra i progettisti assieme a Renzo Piano e Richard Rogers del Centro Georges Pompidou di Parigi.
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