Tra tutte le soluzioni appare la peggiore possibile, almeno per chi ancora pone la libertà in cima alla lista dei propri valori, ma al tempo stesso l’unica che si possa adottare qualora l’ideologia woke e i suoi addentellati (dal politicamente corretto alle derive del me too) dovessero seguitare a dominare, come attualmente accade, la vita pubblica occidentale. La soluzione è quella di imporre per legge, in Europa e negli Usa, una netta separazione tra i sessi, in particolare in ambito sportivo: gli uomini da una parte, le donne dall’altra, senza possibilità di interazione e soprattutto di contatto. In tal modo si stabilirebbe anche un cortocircuito perfetto, di cui già da tempo gli osservatori più avvertiti avevano colto le avvisaglie, tra il sedicente progressismo della political correctness e il rivendicato oscurantismo delle realtà più retrive - peraltro nient’affatto minoritarie - del mondo musulmano. Se le cose dovessero proseguire con l’andazzo attuale, e tutto fa pensare che purtroppo è ciò che succederà, gli individui di sesso maschile andrebbero difatti incontro a uno stato di discriminazione speculare a quello (non a caso poco o nulla preso di mira dagli assertori del woke) patito dalle persone di sesso femminile in buona parte dei paesi islamici. Di essere discriminato perché uomo, d’altronde, è quanto già capitato all’ormai ex commissario tecnico della Nazionale femminile di calcio spagnola Jorge Vilda, per di più all’indomani della vittoria, da parte della squadra da lui guidata, dei Mondiali svoltisi ad agosto in Australia e in Nuova Zelanda. Il malcapitato Vilda, dunque, anziché essere innalzato sugli altari è stato silurato dalla Real Federación Española de Fútbol per essersi macchiato di due gravissime «colpe». La prima è quella di essere stato notato applaudire l’ex (anche lui) presidente della Federcalcio iberica Luis Rubiales durante un’assemblea straordinaria tenutasi lo scorso 25 agosto. Rubiales, come è noto, è stato sospeso dalla Fifa per tre mesi per avere baciato sulle labbra la calciatrice Jennifer Hermoso durante la premiazione della squadra spagnola in Australia. Che Rubiales, nel corso della cerimonia, si sia dimostrato fin troppo esuberante nel felicitarsi con le sue giocatrici - non soltanto la Hermoso - non c’è dubbio, e il provvedimento nei suoi confronti può anche essere ritenuto fondato (anche se è opinione comune che la sua carriera nel calcio sia da considerarsi addirittura terminata). Ma, a parte che la stessa Hermoso è stranamente passata dal definire il bacio ricevuto «un gesto reciproco del tutto spontaneo per la gioia immensa che dà vincere un Mondiale», al denunciare l’ex presidente all’autorità giudiziaria (forse istigata da ambienti ultrafemministi oggi molto influenti in Spagna e a lei presumibilmente non alieni, essendo la Hermoso omosessuale), un conto è dare un bacio non pattuito e un altro è limitarsi ad applaudire qualcuno, come fatto da Vilda, perché si condivide ciò che in quel momento quel qualcuno sta dicendo (e Rubiales stava dicendo, sua legittima opinione, che quello di cui subiva gli attacchi è un «falso femminismo»). L’altra «colpa» di Vilda - e qui dai metodi di controllo nordcoreani evocati dagli applausi «inopportuni» di cui sopra si passa direttamente alla creazione ad hoc di reati mai commessi come poteva avvenire nell’Urss staliniana - sarebbe quella di avere palpato la sua vice, Monteserrat Tomé, mentre i due festeggiavano un gol segnato dalla loro squadra. Si è proceduto così: si è preso un fermo immagine del momento in cui i due colleghi si abbracciavano per «dimostrare» che Vilda aveva approfittato di quell’occasione gioiosa per agguantare il seno della Tomé. Insomma, niente euforia per il gol, che può ovviamente portare a compiere movimenti scoordinati e a toccare parti del corpo altrui che normalmente non si toccherebbero (sarà capitato decine di volte a chiunque abbia giocato a pallone o anche solo esultato per un gol della sua squadra davanti alla tv), bensì fredda e lussuriosa determinazione a sfruttare la circostanza per assicurarsi, nientemeno, una tastata di tetta. In pratica, il riprovevole Vilda - prontamente rimpiazzato proprio dalla Tomé come ct della Roja - non avrebbe giubilato per il gol in sé, ma perché grazie al gol avrebbe potuto palpeggiare la sua collaboratrice… È del tutto evidente che siamo di fronte a un purissimo delirio paranoico rivolto contro il maschio in quanto tale. E allora, se questo delirio deve imporsi, causando la distruzione non solo di carriere ma anche di esistenze, da uomo auspico - a malincuore ma a mia tutela - che si arrivi quanto prima alla separazione dei sessi. Il che sarebbe anche, in un certo senso, la riaffermazione della diversità esistente fra maschile e femminile, quindi una paradossale sconfitta per chi promuove, tra le altre cose, la cosiddetta fluidità di genere. Ma ciò ai sostenitori del woke non creerebbe problemi: per chi coltiva follia e fanatismo, anziché ragione e buon senso, la coerenza è da sempre l’ultima delle preoccupazioni.
C’è una guerra culturale in corso: si combatte nelle università (americane e britanniche soprattutto), nelle redazioni dei giornali e delle case editrici, sui set cinematografici e sui palchi delle manifestazioni d’intrattenimento. A condurre l’offensiva, da fin troppo tempo, sono le pattuglie liberal-progressiste che pretendono di riscrivere la storia, modificare la lingua e imporre una presunta «diversità» per decreto.
Questo temibile esercito può contare su una avanguardia particolarmente pericolosa: le teste di cuoio del politicamente corretto, i cosiddetti woke, ovvero i «risvegliati», gli illuminati convinti di portare dentro di sé una scintilla divina e di avere il diritto di stabilire come il mondo intero debba comportarsi e, soprattutto, come debba pensare. Un esempio mostruoso di come lavorino lo ha fornito, pochi giorni fa, la decisione della casa editrice Puffin di riscrivere i romanzi del geniale Roald Dahl espungendo tutti i termini ritenuti offensivi per le minoranze, tra cui «grasso» e «brutto». L’allucinante vicenda ha prodotto reazioni indignate un po’ ovunque, persino a sinistra. Tra i primi a criticare aspramente il comportamento di Puffin è stato Salman Rushdie, uno che la lotta per la libertà di pensiero l’ha condotta con il proprio corpo, ricavandone una condanna a morte e un attacco all’arma bianca. In Italia tra gli arrabbiati si è distinto Michele Serra, il quale ha invitato a boicottare chiunque approvi la «nuova censura».
Purtroppo, dalle nostre parti, le reazioni all’intolleranza liberal si limitano quasi sempre a una generica condanna degli episodi più vergognosi. Tutto il resto - le censure meno visibili e più insidiose - di solito passa in cavalleria o, addirittura, viene appoggiato dagli intellettuali militanti. Fortunatamente, altrove la risposta «immunitaria» al temibile virus dell’uniformità culturale è decisamente più potente e convinta.
È il caso di quanto sta accadendo in un prestigioso ateneo statunitense, la University of North Carolina. Già all’inizio di febbraio, la storica università ha annunciato l’intenzione di creare una Civic life and leadership school, pensata come uno spazio in cui gli studenti e i professori possano confrontarsi sentendosi liberi di esprimere le proprie visioni senza timore di subire censure ideologiche o di essere indottrinati.
Ma la decisione più rilevante, l’ateneo l’ha presa proprio in questi giorni. Il consiglio di amministrazione ha deciso di vietare le cosiddette Dei, cioè le «dichiarazioni di diversità, equità e inclusione». Non solo: saranno cambiati anche i criteri per l’assunzione di personale e per l’ammissione degli allievi. L’Università di North Carolina dichiara che «non solleciterà né richiederà ai dipendenti, a coloro che richiedono l’ammissione accademica o cercano un impiego» di fare dichiarazioni preventive riguardanti «convinzioni, affiliazioni, ideali o questioni del dibattito politico contemporaneo o dell’azione sociale». Detta in maniera semplice: i criteri per «l’ammissione, l’assunzione o avanzamento professionale» non saranno più politico-ideologici.
Che ci sia bisogno di mettere nero su bianco in un regolamento accademico cose di questo genere dà l’idea della gravità del problema. Ma così funziona negli Stati Uniti, in particolare da quando, nel giugno del 2021, l’amministrazione Biden ha licenziato un ordine esecutivo al fine di «promuovere la diversità, l’equità, l’inclusione, e l’accessibilità». Ecco: «diversità» e «inclusione» sono le parole d’ordine di un nuovo autoritarismo fatto di quote, dichiarazioni politicamente corrette e paletti alla libertà di pensiero. Sono una scusa per censurare chi non condivide le idee dominanti sull’immigrazione, le rivendicazioni transgender, i «nuovi diritti» e altre bellezze simili. Ecco perché è così rilevante che un’importante università decida di rifiutare questi criteri: significa che potrà accogliere studenti, professori e dipendenti che abbiano idee diverse e che potrà consentire, al proprio interno, uno scambio di opinioni libero da pressioni ideologiche e mordacchie politiche.
Si potrebbe dire, dunque, che dagli Stati Uniti arrivi il male, ma anche la cura. Ancora una volta, tuttavia, tocca constatare come da noi la situazione sia piuttosto diversa. Grazie al cielo, almeno per ora, non tocchiamo le punte di delirio a cui si arriva Oltreoceano o in Gran Bretagna.
D’altra parte, però, forse proprio perché è meno evidente, la minaccia alla libertà di pensiero e la furia iconoclasta dell’ideologia continuano ad avanzare. Non c’è nemmeno bisogno di ricordare quale cappa pesante abbia sigillato le discussioni sulla gestione dell’emergenza sanitaria e sulla guerra in Ucraina. Altrettanto soffocante è la presa esercitata sul dibattito pubblico del cosiddetto antifascismo militante. Da giorni ci si azzuffa perché il ministro Giuseppe Valditara si è permesso di commentare la circolare in cui - dopo una scazzottata che ha coinvolto alcuni ragazzi delle superiori di opposta appartenenza politica - una dirigente scolastica fiorentina ha tirato in ballo Antonio Gramsci e il «ritorno del fascismo».
Ebbene: questo è il livello da noi e non è migliore di quello che si riscontra negli Usa. Magari non si riscrivono i classici della letteratura, ma basta mezza parola storta, mezza opinione sgradita per essere accusati di essere razzisti o para nazisti. Benché sconfitta nelle urne e sgradita ai più, la cultura politica dominante nel mondo dell’informazione, dell’arte, della cultura e dell’intrattenimento è sempre la stessa, e continua a dettare legge con violenza.
Negli Usa i dirigenti di un’importante università mettono al bando l’ideologia per statuto. Qui, invece, i dirigenti scolastici l’ideologia la propagandano e passano per eroi.




