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I produttori sulle barricate per le etichette allarmistiche volute da Dublino, col tacito accordo della Commissione. Intanto, Roma sfida Bruxelles sul Nutriscore, bacchettando «Report» che lo difende. E lancia una legge in quattro punti a tutela del made in Italy.
È una serissima questione di etichetta e c’entra anche il galateo istituzionale e dell’informazione. Il made in Italy esce dal limbo dell’enunciazione e si fa progetto economico con una sfida lanciata all’Europa sul riconoscimento dei prodotti tipici dell’artigianato e il no al Nutriscore, che il governo Meloni vuole sostituire con il Nutrinform il sistema d’informazione ai consumatori ideato dall’Italia. Nel disegno di legge «per la valorizzazione, promozione e tutela del made in Italy» che La Verità è in grado di anticipare un elemento essenziale è la protezione dei marchi, l’identificazione dei prodotti e dell’origine, la lotta alla contraffazione. Nel disegno di legge che il ministro Adolfo Urso ha stilato di concerto col presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, coinvolgendo mezzo governo (dall’Economia di Giancarlo Giorgetti alla Sovranità alimentare di Francesco Lollobrigida, dal Turismo di Daniela Santanché fino all’Istruzione e merito di Giuseppe Valditara) ci sono quattro punti cardinali: il liceo del made in Italy che parte dal 2024 con un’innovazione assoluta costituita dal «Programma di risparmio e investimento per l’istruzione e la formazione avanzata», in pratica un conto fino a 100.000 euro destinato ad accompagnare nella scuola e poi anche nell’avviamento professionale i giovani fino a 30 anni che vogliono impegnarsi nel made in Italy; la strutturazione delle filiere (dall’oreficeria al tessile promuovendo le fibre naturali, dalla nautica alla ceramica); la definizione degli itinerari dell’eccellenza e il lancio della Fondazione del made in Italy e poi la questione delle etichette. Che è la più immediata, perché la Commissione europea ha una gran fretta di varare il Nutriscore e di appiccicare sulle bottiglie di vino, sui salumi e i formaggi le cosiddette healthy warning, quelle che equiparano il Chianti Classico o la mortadella ai pacchetti di sigarette. Nonostante il Regulatory scrutiny board (i controllori delle leggi europee) abbia bocciato il quadro normativo per i sistemi alimentari sostenibili su cui spingono tanto Ursula von der Leyen e Frans Timmermans, la Commissione è decisa a varare entro settembre l’etichetta a semaforo e a completare il Farm to fork. E proprio da lì si parte nella difesa del made in Italy. Tutte le organizzazioni vitivinicole italiane sono pronte a denunciare l’Irlanda e la Commissione europea per violazione del mercato interno per le etichette allarmistiche che l’Irlanda con il tacito via libera di Ursula von der Leyen vuole mettere sulle bottiglie nonostante che in sede di Wto (è l’organismo che sorveglia il commercio mondiale) ben 8 Paesi, tra questi gli Usa, nostro primo cliente, si siano schierati contro l’Europa e contro gli irlandesi.
La faccenda impatta sulla crisi che il vino sta vivendo. In Francia si stanno spiantando le vigne e si va alla distillazione delle eccedenze; in Italia è stoccata nelle cantine una vendemmia e mezzo e si pensa alla distillazione obbligatoria per far posto alla nuova produzione, ma soprattutto ci sono la diminuzione dei consumi (l’export cala del 4%, la domanda interna di dieci punti) e l’aumento dei costi (l’Unione italiana vini denuncia un balzo del 70% del prezzo delle bottiglie), che preoccupa molto i produttori a fronte di un’offensiva contro il vino. Un contraccolpo ancora più duro può venire se sarà adottato il Nutriscore, che slava le patatine fritte e boccia l’extravergine di oliva, che promuove le bibite gassate e penalizza prosciutto e Parmigiano Reggiano. L’Ue vuole adottarla entro settembre, il governo vuole bloccarlo. Il braccio di ferro tra Roma e Bruxelles è potente e a proposito Palazzo Chigi ha giudicato che «nella puntata del 15 maggio 2023, la trasmissione Report ha fornito una visione dei sistemi di etichettatura alimentari parziale e non condivisibile».
Sigrifido Ranucci - in linea con Walter Ricciardi, il fu consulente del fu ministro della Salute, Roberto Speranza, che ha accusato l’Italia di fare lobby - su Rai 3 ha difeso il Nutriscore e il governo gli ricorda: «Il sistema di etichettatura che l’Italia intende promuovere, in linea con i precedenti governi della nostra nazione, si propone come alternativo rispetto a sistemi, come il Nutriscore, che mirano a orientare le scelte del consumatore tramite semafori, gradazioni di colore e punteggi. Tali sistemi si fondano su algoritmi non sufficientemente trasparenti, facilmente influenzabili per interessi economici e comunque basati su parametri valutativi limitati e spesso inappropriati». Per questo nel disegno di legge sul made in Italy si pone come obbiettivo normativo la promozione del sistema di etichettatura, cosiddetto a batteria o Nutrinform, proposto dall’Italia contro il Nutriscore. E si fa un passo ulteriore: si estende l’etichettatura di origine anche ai prodotti dell’artigianato e dell’industria (peraltro in Europa sta avanzando il regolamento sulle indicazioni geografiche non alimentari) si istituisce la certificazione - su base volontaria - dei ristoranti italiani di qualità all’estero. Infine s’investe molto sulla lotta alla contraffazione prendendo otto che la protezione europea non è sufficiente. Una sorta di sfida all’Europa in punta di etichetta per far valere la specificità, la qualità e l’unicità del made in Italy.
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Sandro Boscaini
Il presidente di Masi Agricola: «Dovremo fare i conti con la contrazione dei consumi, strozzature logistiche e costi crescenti quasi insostenibili. Da rivedere gli aiuti pubblici».
Se 250 vendemmie vi sembran poche. La Masi, unica azienda vitivinicola quotata ormai da più di sette anni in Borsa, si prepara a superare un traguardo che in Italia pochi hanno raggiunto. Il 14 ottobre ci sarà festa a Sant’Ambrogio di Valpolicella per celebrare la raccolta al Vaio de Masi che è cominciata nel 1772. Di queste vendemmie Sandro Boscaini ne ha fatte almeno un quarto. Tra qualche settimana - il 24 settembre - compie 84 anni, due terzi spesi a espandere il gruppo su tutti i mercati possibili e a dotarlo di tutto ciò che serve per stare all’avanguardia, compreso il gruppo tecnico Masi che è una sorta di Cnr privato delle fermentazioni, dell’appassimento, del fare vino. Lo chiamano mister Amarone, ma è titolo riduttivo. È il primo vero manager che il vino italiano abbia avuto perché ha innestato nell’agricoltura la tecnologia, l’oculatezza della gestione e la passione della creatività. Ha compreso e celebrato la natura una e trina dell’impresa vitivinicola: terra, produzione, commercio. È a capo del Gruppo Masi da sempre: primus inter pares tra fratelli, figli e nipoti. «È così», sussurra, «che si rendono solide le aziende: competenza, rispetto, passione».
E si affrontano momenti difficili. Il futuro com’è?
«Se lo guardo dalle vigne della Masi lo vedo meno preoccupante: abbiamo fatto ottimi risultati. Abbiamo aumentato i ricavi del 28,4% arrivando oltre i 66 milioni, un utile netto di 5,4 milioni, abbiamo distribuito un buon dividendo. Il primo semestre di quest’anno è il miglior semestre da quando siamo quotati. All’orizzonte però si vedono nuvole molto nere. Non si è ben compreso che passata l’euforia del ritorno alla normalità dopo gli anni della pandemia dovremo fare i conti con una probabile contrazione dei consumi, con costi crescenti che per molti settori sono al limite della sopportabilità, con strozzature logistiche».
I maggiori fattori di rischio?
«Sicuramente inflazione, costo dell’energia, instabilità dei mercati dovuta alla situazione internazionale e difficoltà nella logistica sono gli elementi di più rilevante criticità. Poi c’è il grande punto interrogativo dei consumi che riguarda in maniera particolarmente acuta chi opera nell’agroalimentare. C’è una polarizzazione tra commodity e prodotti premium, c’è un’evoluzione del gusto che riguarda tutti i Paesi del mondo e noi dovremmo potere intercettare questi cambiamenti. Ma in Italia siamo in un sistema troppo rigido con i vincoli burocratici, ad esempio dei disciplinari. Questo non ci permette di intercettare la transizione dal vino alimento al vino piacere, che è quello che noi dovremmo interpretare perché i nostri sono prodotti premium e hanno costi relativi che se ci releghiamo nel mercato delle commodity diventano insopportabili».
Però tutti applaudono al nostro export agroalimentare. Cosa non va?
«Due sono i fattori di criticità peraltro sottovalutati. Il primo è che l’agroalimentare ha tassi di crescita e di redditività mediamente bassi, ma fino al post pandemia pochi se ne sono preoccupati. I cambiamenti climatici, la mancanza di manodopera specializzata e disponibile nei periodi dell’anno in cui serve sono tutti elementi che pesano e che vengono più denunciati che risolti. Anche la fiscalità è un tema non affrontato per il verso giusto. Le tasse sono troppo alte, ma in agricoltura vi sono delle forti agevolazioni che finiscono per diventare fattori di competitività inversi. Non abituano le imprese a stare sul mercato. Dunque vanno eliminati i fattori distorsivi e vanno diminuiti i pesi fiscali. Il secondo elemento è che l’export è cresciuto non per un maggiore apprezzamento dei nostri prodotti. Tra il 2021 e i primi mesi del 2022 l’aumento di domanda estera è dovuto alla ricomposizione dei magazzini e a un cambiamento di organizzazione dei clienti. Si erano abituati durante la pandemia a comprare online modeste quantità. Oggi con i costi di trasporto aumentati comprano stock più considerevoli e questo aumenta i dati, ma solo nel breve periodo. Così come c’è stata la corsa agli acquisti per evitare gli aumenti dei prezzi. Ma non è tutto oro».
Si aspetta un contraccolpo?
«Se il nostro export è fatto al 30% dal Prosecco vuol dire che gli indici sono un po’ drogati, che abbiamo bisogno di aumentare la massa critica di prodotto esportato e il suo valore. Gli ultimi dati non sono incoraggianti: la Gdo sta facendo meno 18%, l’online è piantato perché è tornato il consumo al ristorante, nell’enoteca. Chi ha una distribuzione multicanale si salva, chi si è buttato sull’onda della moda o della convenienza immediata su un solo canale soffre. Un’altra cosa di cui si parla poco è: cosa succede se c’è la recessione? Vedo, almeno nel nostro settore, una tendenza all’enfasi che mal si concilia con la necessità di stare con i piedi per terra».
A proposito di enfasi: si è detto che la siccità ha distrutto la vendemmia. C’è davvero il pericolo desertificazione?
«Il riscaldamento globale fa parte secondo me di un ciclo lungo. La vendemmia del 2003 non è stata poi tanto diversa da questa. La siccità e il caldo durarono allora un po’ meno, ma mi pare che le condizioni che abbiamo oggi facciano comunque parte di quel ciclo lungo. Abbiamo vigna in tutto il Nordest e la vendemmia è ottima, in Toscana abbiamo qualche problema di stress idrico, ma controllabile. Certo, gli eventi estremi sono preoccupanti. Per la qualità mi aspetto una grande annata».
L’Europa ha dichiarato guerra al vino e spinge tutto sul green: è un fattore d’instabilità?
«L’Europa ha fatto una fuga in avanti troppo precipitosa. Tre quarti del mondo continua a produrre usando energia sporca anche perché hanno esigenze primarie più urgenti. Greta può coltivare l’illusione di condizionare queste scelte, ma sono tempi lunghi e mi pare che l’Europa abbia seguito questa illusione. Tutti vorremmo energia pulita, impatto zero, ma si devono trovare strade di compromesso e risposte tecnologiche adeguate. Quanto al vino, i Paesi nordici hanno problemi con l’alcol e non sono capaci di comprendere che per noi il vino è cultura, che il nostro stile di consumo è tutt’altra cosa. Solo che noi a Bruxelles non mandiamo i migliori a difendere le nostre istanze e sovente la tutela delle produzioni mediterranee non è adeguata. Così come non è compresa la centralità dell’agricoltura».
Ma anche nei programmi elettorali italiani non se ne parla molto…
«Purtroppo l’agricoltura resta la Cenerentola. Eppure ci sono immense opportunità. Ci sarà una grande trasformazione nell’agroalimentare: produzioni a basso prezzo e a bassa qualità e altre ad altissimo valore aggiunto. L’Italia deve percorrere questa seconda strada, ma bisogna che il Paese sia consapevole dell’importanza della scelta. Nel vino, a esempio, abbiamo troppe Doc: c’è bisogno di una razionalizzazione e di una centralizzazione delle strategie, delle politiche; va esaltata invece la territorialità, l’identità, la produzione locale. Dobbiamo entrare in una logica “glocal”. Sennò come si fa a conquistare mercati nel segmento premium che è quello proprio dell’Italia? Serve meno burocrazia, più ricerca, maggiore valore aggiunto».
Come sostituire le Doc con i brand aziendali?
«Non tutte le Doc: se ne possono fare regionali mantenendo le Docg, si può lavorare sulle Igt, ma non c’è dubbio che i brand aziendali contano molto. E poi, diciamolo: la politica ha usato le Doc per farsi una sua riserva di consenso».
Masi è un brand, può essere un esempio? E gli azionisti sono soddisfatti?
«Credo di sì, abbiamo dato buoni dividendi, ma soprattutto abbiamo aperto una strada. Mi aspettavo che la seguissero in molti. Non è accaduto: peccato! Noi con il club degli investitori facciamo partecipare i soci alla vita dell’azienda. Tra i nostri soci abbiamo, oltre a Renzo Rosso, l’Ente di previdenza dei dirigenti in agricoltura e credo che i fondi pensione siano i più adatti per l’investimento in agricoltura dove bisogna essere cassettisti. C’è stato un momento in cui piccoli industriali e professionisti si sono fatti la cantina. Bene, ma si sono accollati rischi e fatica. Penso che investire senza intenti speculativi, ma pretendendo un giusto ritorno in un’azienda vitivinicola sarebbe stato per loro molto meglio. E che la Borsa dovrebbe attrezzarsi per favorire questo incontro».
I fondi pensione dovrebbero indirizzare il risparmio verso le aziende?
«Credo che si dovrebbe tornare a parlare di questo. C’è una massa di risparmio che potrebbe sostenere le aziende. La politica se vuole dare un futuro al Paese dovrebbe occuparsene. È un modo per fare sviluppo. Noi lo abbiamo fatto fin dagli anni Settanta con i conti Serego Alighieri ed è stato un grande onore, lo abbiamo fatto con Bossi Fedrigotti, con Canevel, ci siamo sviluppati aggregando. Si parlava di natura, di gusti che cambiano; abbiamo fatto con i Fresco di Masi vini naturalissimi e di basso grado, facciamo con il prosecco Casa Canevel Diesel spumanti totalmente bio, facciamo con l’Amarone uno dei vini più rappresentativi al mondo, ma sempre declinando ricerca, rispetto, passione, identità e libertà d’impresa. È quanto serve contro la crisi e mi aspetto dalla politica».
Ah, sia detto per inciso: i Serego Alighieri sono gli eredi diretti di Dante. E forse anche stavolta aveva ragione lui: «E perché meno ammiri la parola, guarda il calor del sol che si fa vino, giunto a l’omor che de la vite cola».
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La pratica della «dealcolazione» sarebbe un modo per aprire nuovi mercati, offrendo un prodotto senza alcol, e Bruxelles sta valutando se dare l’approvazione. Produttori furiosi: «Sarebbe un’altra bevanda»
Quando riaprono i ristoranti, se riaprono, ordinate tenebrio molitir al dente e sciacquatura di tino, sarete europeissimi, resilienti e in ottima salute! Se poi vi portano il conto salato perché i bachi della farina che l’Europa ha sdoganato come novel food costano all’incirca 70 euro al chilo e vi sembra troppo caro, consolatevi con la bevanda che andrà di moda da qui a qualche tempo per non offendere né l’ambiente né i vostri neuroni: il vino all’acqua. Non è una battuta, ma è una preoccupantissima deriva che sta prendendo l’Europa decisa a superare lo Stato etico inventando lo Stato dietetico. Se si cancella Cicerone perché è «suprematista» rovesciare il miracolo delle nozze di Cana trasformando il vino in acqua è in linea. Il parere di Cristo non conta, quello del ministro agricolo (M5s) Stefano Patuanelli per ora è non pervenuto e quello di moltissimi produttori di vino, la bevanda sacra che incorpora circa 6.000 anni di storia dell’umanità, una quantità inenarrabile di ricerca scientifica e di tecnologia, e un universo culturale sconfinato, a Bruxelles non interessa. Vediamo di capire cosa sta succedendo. L’allarme lo ha dato la Coldiretti: a Bruxelles si stanno mettendo d’accordo per consentire di annacquare il vino, sono in pericolo anche le denominazioni più prestigiose. Ettore Prandini che della Coldiretti è presidente aggiunge: «Non basta pensare di scrivere sulle etichette fa male come le sigarette, decidere che dal 2022 non ci saranno più contributi con l’errata convinzione che il vino vada osteggiato nell’ambito del programma di alimentazione per combattere il cancro, ora vogliono proprio cancellarlo annacquandolo». La faccenda per noi è seria: il vino è il primo motore agricolo con 13 miliardi di fatturato, 6,3 dall’export (anche se causa virus cinese è crollato del 20% e il mercato interno si è dimezzato) oltre 1,5 milioni di posti di lavoro. Nell’ultimo incontro trilaterale tra Commissione-Parlamento-Consiglio dei ministri la presidente di quest’ultimo la responsabile dell’agricoltura portoghese Maria do Ceu Antunes ha proposto di estendere la pratica di dealcolazione anche ai vini Doc e Docg con l’aggiunta di acqua. È un sacrilegio oltreché una pratica foriera di enormi frodi commerciali. Eppure Paolo De Castro (Pd) vicepresidente della commissione agricoltura di Strasburgo dice: «Non c’è nulla di deciso, se ne riparla a fine maggio e forse a fine giugno, ma ci vuole un approccio laico. Molti grandi gruppi ci dicono che sono d’accordo perché questo aprirebbe il mercato dei paesi arabi; certo sui vini a denominazione bisogna ragionarci». A sorpresa anche l’Unione Italiana vini non pare scossa. Col suo direttore Paolo Casteletti fa sapere: «Siamo attenti, ma non allarmati. È importante che queste nuove categorie rimangano all’interno della famiglia dei prodotti vitivinicoli e che dunque siano le imprese italiane a rispondere alle richieste di mercato (specialmente di alcuni Paesi asiatici)». Di parere opposto Sandro Boscaini, mister Amarone che peraltro con la sua Masi ha messo in commercio due nuovi vini i «Fresco» a basso tenore alcolico, che parla da presidente di Federvini: «Se togliamo l’alcol non è più vino. Un conto è operare in vigna e in cantina per avere gradazioni più contenute cercando anche di attenuare l’effetto del riscaldamento climatico, un conto è annacquare il vino. Così un tedesco si compra una cisterna di Negramaro pugliese e poi ne mette in commercio tre di vino annacquato spacciato per italiano! Tutto parte da quando alcuni paesi nord-europei hanno voluto il via libera ai vini fatti con la frutta. Voglio vedere come faranno i Consorzi a cambiare i disciplinari e come faranno a farci cambiare la legislazione nazionale che dà una definizione esatta di vino. Ma lo sanno a Bruxelles che in Italia se ci trovano con una tanica d’acqua in cantina ci mandano a processo? Lavorano contro l’Italia. L’ultima furbata l’ho scoperta in Ontario: vendono un vino argentino Re-Passo nei negozi del monopolio. Fa il verso al Valpolicella Ripasso, ovviamente il Consorzio zitto e muto ed è quello che dovrebbe vigilare sulle pratiche di dealcolazione?» Renzo Cotarella, enologo di fama interbazionale e amministratore delegato di Antinori la cantina più blasonata d’Italia, non fa sconti: «Se è vino ha l’alcol, non si discute. La pratica della dealcolazione con acqua si fa negli Usa, ma solo se i mosti sono troppo carichi e faticano a fermentare si può diluire per ripristinare l’acqua che c’è naturalmente nell’uva. Ma una volta vinificato l’uso di acqua deve restare vietato. Anche dealcolare con i filtri può offendere le caratteristiche del vino, soprattutto dei grandi vini. L’Europa del Nord non capisce che noi facciamo prodotti agri-culturali, che interpretiamo millenni di storia dell’umanità.» Gian Marco Centinaio sottosegretario all’agricoltura per la Lega è ultimativo: «L’Europa non smette mai di sorprenderci. In negativo. Ora c’è l’ipotesi di dealcolazione parziale e totale come nuova pratica enologica. Con quale obbiettivo? Favorire le bevande annacquate o il vino in bustina dei wine kit con cui i Paesi del Nord Europa imitavano il Made in Italy? Che fine farebbe il nostro patrimonio di Docg, Doc, Igt? Ci batteremo con ogni mezzo per difenderlo: è un tassello fondamentale per l’economia del paese». Chiosa Andrea Costanti, piccolo produttore d’immensa qualità di Montalcino: «Il Brunello annacquato? Ma scherziamo? Sarebbe come sverniciare la Venere del Botticelli! Se si deve fare senza alcol allora si fa prima con una spremuta d’uva. Ma non è vino, men che mai Brunello!».
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