(Totaleu)
Lo ha detto il Ministro per gli Affari europei in un’intervista margine degli Ecr Study Days a Roma.
Lo ha detto il Ministro per gli Affari europei in un’intervista margine degli Ecr Study Days a Roma.
È stata un’eredità del governo Draghi. L’ex premier, senza che nemmeno glielo chiedesse Bruxelles, ha voluto vincolare le concessioni per l’idroelettrico alle gare e al Pnrr. Una situazione che crea uno squilibrio con gli altri partner europei e espone il nostro Paese al rischio di conquiste predatorie da concorrenti stranieri. Ma ora il governo, sollecitato da un vasto fronte composto da imprese, associazioni di categoria, consumatori, sindacati e organizzazioni no profit che più volte ha lanciato un grido d’allarme per salvaguardare il settore idroelettrico italiano, cerca di correre ai ripari. L’impegno in questa direzione è stata confermata da Tommaso Foti, ministro per gli Affari europei, il Pnrr e le Politiche di coesione, intervenendo al Forum in Masseria di Bruno Vespa. «Sull’idroelettrico l’Europa non ci aveva chiesto di fare le gare e invece qualcuno in precedenza ha deciso di inserire questo principio e così non c’è un criterio di reciprocità con gli altri Paesi», ha detto Foti. Poi ha spiegato che il meccanismo dei bandi è una strada obbligata, perché è un sistema «inserito nel Pnrr, non si può tornare indietro». Quello che si può fare, ed è la soluzione alla quale si sta lavorando, «è di aggiungere una condizione che nel caso in cui l’attuale gestione presenta un piano con efficientamento energetico, miglioramento infrastrutture, si possa concedere una novazione contrattuale, in modo che quei gestori possano andare avanti per altri 15 anni». Quindi si tratta di vincolare il rinnovo del contratto a un progetto economico. È in ballo la tutela della sovranità su un pezzo importante del nostro sistema infrastrutturale.
L’idroelettrico in Italia, grazie alla morfologia del territorio (ci sono pendenze nel terreno sufficientemente alte da garantire un’alta produttività), è da sempre un settore strategico, fondamentale per economia e ambiente. Basta pensare che solo nel 2023, questa risorsa ha contribuito all’economia con circa 2 miliardi di euro, garantendo lavoro a migliaia di persone altamente specializzate. I quasi 5.000 impianti presenti sul territorio nazionale hanno generato energia pulita sufficiente a soddisfare il fabbisogno di oltre 15 milioni di famiglie.
Le procedure delle aste per l’assegnazione delle concessioni rappresentano una minaccia per il futuro dell’idroelettrico italiano. Il rischio è, infatti, quello di scoraggiare gli investimenti necessari allo sviluppo di una moderna impiantistica, a causa dell’incertezza generata dalla mancanza di chiarezza a livello europeo e dall’apertura delle gare a operatori stranieri, anche provenienti da Paesi con mercati meno trasparenti. Le imprese del settore e le associazioni di categoria, a dicembre scorso, avevano pubblicato un manifesto sui principali quotidiani nazionali con il quale chiedevano l’intervento urgente del governo per salvaguardare la risorsa idrica, e i comparti industriali legati all’idroelettrico.
Dalle colonne de La Verità, il ministro Foti alcune settimane fa aveva annunciato l’avvio della trattativa con la Ue per garantire all’Italia investimenti e concessioni di lungo termine. Il rischio dell’ingresso di gruppi stranieri nel settore è reale. Lo dicono i numeri. Secondo il rapporto dell’Aie, l’Agenzia internazionale dell’energia, l’idroelettrico ha fornito nel 2020 un sesto della produzione mondiale di elettricità con quasi 4.500 Twh, il 55% in più del nucleare, attraverso una potenza impegnata di 1.330 Gw. Si configura quindi come la più grande fonte mondiale di energia pulita che produce più di tutte le altre rinnovabili messe insieme. È evidente che i nostri bacini idroelettrici interessano molto ai Paesi d’oltralpe che sarebbero ben contenti di metterci le mani sopra. Soprattutto perché la maggior parte di questi sono concentrati lungo l’arco alpino: ce ne sono infatti 1092 in Piemonte, 891 in Trentino-Alto Adige, 749 in Lombardia e 408 in Veneto. Questo patrimonio però richiederebbe grandi investimenti per la manutenzione. L’accumulo di sedimenti sta determinando una riduzione della produzione di energia. Negli ultimi due anni la quota di elettricità generata dalla potenza dell’acqua è scesa di 6 punti percentuali, passando dal 15% al 9%, in base alle elaborazioni realizzate da Ispi su dati Terna.
Ieri sono arrivate altre reazioni al decreto bollette. Per la Cgil «è un provvedimento senza coraggio e senza visione alcuna che non affronta alla radice il tema del caro energia». Secondo il sindacato «si doveva intervenire sugli oneri di sistema e sulla riduzione strutturale dei costi energetici e disaccoppiare il costo dell’energia da quello del gas». «Un pannicello caldo», lo definisce Massimiliano Dona dell’Unione nazionale dei Consumatori. Il Pd parla di «provvedimento tampone che non dà risposte strutturali» e di «operazione di propaganda». Va ricordato che se l’aiuto straordinario sarà riconosciuto nel secondo trimestre 2025 a chi ha già presentato l’Isee, per gli altri (chi ha Isee tra 9.350 e 25.000 euro) il riconoscimento sarà nel primo trimestre utile, dopo presentazione dell’Isee.
Tommaso Foti è ministro per gli Affari europei da ormai più di due mesi. Molti i dossier sul suo tavolo, dalla modifica del Pnrr alla revisione degli accordi per le gare delle concessioni idroelettriche previste dal governo Draghi.
Ministro, sul tema dell’idroelettrico ritiene che sia il caso di invertire la rotta e tutelare gli interessi nazionali?
«Possiamo cercare di attivare una interlocuzione al fine di poter presentare la realtà dei fatti. Non è quella di voler eludere le gare ma far notare come attualmente saremmo l’unico Paese a mettere a gara le concessioni idroelettriche realizzando un’anomalia sostanziale. Da una parte le imprese italiane che hanno delle concessioni in capo vedrebbero arrivare la concorrenza di imprese da tutto il mondo, mentre dall’altra parte non potrebbero partecipare ad alcuna gara in Europa perché non se ne fanno».
Due pesi e due misure?
«In questo caso devo dire che la limitazione ce la siamo andati a cercare noi perché è chiaro che la milestone del Pnrr relativa alla legge annuale della concorrenza 2021 poi valutata positivamente (ovviamente) dalla Commissione europea in occasione della terza rata, ha tra le sue componenti l’adozione di norme volte ad assicurare procedure competitive per l’assegnazione delle concessioni idroelettriche. Questo non possiamo addebitarlo a terzi».
La messa a gara è frutto delle decisioni del governo Draghi.
«Decisioni prese oltre che dal governo, anche da quell’ampia maggioranza che lo appoggiava. Questo perché, come è noto, la legge annuale sulla concorrenza è sottoposta al vaglio parlamentare. La strada quindi oggi è tutta in salita».
Secondo lei c’è margine per abolire le gare?
«Allo stato attuale sicuramente non si può pensare di partire con una norma legislativa se prima quantomeno non vi è stato un colloquio anche abbastanza approfondito con la Commissione europea, perché saremmo sicuramente nelle condizioni di poterci sentir dire che abbiamo approvato una norma in relazione a una rata che è stata liquidata comportandoci poi esattamente all’opposto. Questo è il problema, non di oggi, ma sono due anni che si presentano emendamenti per cambiare le norme ma in realtà, come detto, ci serve verificare in sede europea quella che è stata un’autolimitazione che ci siamo voluti dare, almeno per quanto riguarda la realtà degli altri Paesi europei. Eliminare l’obbligo delle gare comporterebbe per l’Italia il cosiddetto reversal, ossia il blocco del pagamento del Pnrr e una sanzione che può arrivare fino a cinque volte il valore dell’obiettivo, in quanto si tratta di riforme».
Quindi ai tre emendamenti (Fi, Pd e Iv) che chiedono proroga, Fdi non si unirà.
«Sarebbe stato meglio, invece di presentare emendamenti per chiedere ulteriori proroghe, non votare quattro anni fa la legge che ci ha portato dove siamo».
Che si può fare?
«Non è che siccome il tempo è cambiato cambiano le cose, ora è il momento di affrontare il problema in sede europea. Non si può pensare che la scorciatoia possa essere un provvedimento legislativo. Serve invece cercare una strada di difficile negoziazione, che non è detto che sia di probabile successo. Bisogna cercare di trovare una possibilità quantomeno di diversificare gli impegni presi nell’articolo 7 della legge 2021. Questo è un impegno che mi sento di assumere e che in parte ho già assolto nel primo colloquio con i responsabili del Pnrr».
Ha parlato di rivedere il Pnrr, quali sono i tempi e quali i contenuti?
«Se avremo un quadro chiaro di se e come intervenire penso che per la fine di febbraio lo sottoporremo al Parlamento, perché ritengo sia quella la sede naturale per illustrare le possibili modifiche da portare poi all’attenzione della Commissione europea, perché naturalmente le modifiche che proponiamo non sono accettate di per sé. Le tematiche, per una questione di rispetto nei confronti del Parlamento, ovviamente non ritengo corretto annunciarle prima, ma voglio dire che non si tratterà di nulla di travolgente o impattante. Sono accorgimenti e miglioramenti necessari per poter mettere a terra il Pnrr nel migliore dei modi possibile».
Si può intervenire con il Pnrr anche sulla Difesa?
«Il tema va anzitutto affrontato in sede tecnica prima che in sede politica. Perché ovviamente il Pnrr ha delle sue finalità, dei suoi obiettivi e bisogna capire se la Difesa possa rientrare tra gli obiettivi previsti dal regolamento. A quel punto sulla base di questo primo esame preliminare bisogna capire a che cosa ci si riferisce esattamente, perché penso possa essere quella la seconda fase. Allo stato attuale non ci sono proposte concrete da poter valutare».
Insomma siamo troppo indietro per parlarne seriamente.
«Non è tanto questione di serietà. Un conto sono le idee che possono tradursi in azioni, ma per farlo devono poter avere un dispiegamento tecnico che lo consenta. Poi la discussione politica una volta messo a terra il quadro della compatibilità tecnica sarà eventualmente esame di una seconda fase».
L’Europa, soprattutto se paragonata alla velocità decisionale di Donald Trump, appare totalmente inadeguata ad affrontare le sfide che ci attendono. Cosa si può fare per invertire la rotta?
«C’è un discrimine che riguarda il sistema. Quello degli Usa è più veloce rispetto a quello della maggior parte degli Stati europei, se non di tutti. È evidente che oggi Trump sta usando ordini presidenziali che danno un impatto anche mediatico diverso da quello che può dare una procedura parlamentare, pur avendo anche Trump una serie di passaggi da fare alla Camera o in Senato che permettano poi di tradurre o meno questi ordini in provvedimenti di legge. Poi è indubbio che l’Europa ha un problema di competitività. Questo è uno dei temi che deve essere inserito fra i due o tre pilastri del nuovo quadro di finanza pluriennale che la Ue deve mettere in cantiere. È chiaro che la velocità che ci viene imposta deve trovare un’Ue competitiva che abbia un piano industriale e uno commerciale e che abbia la capacità di utilizzare la transizione verde con buonsenso. Se il Green deal anziché essere uno strumento per la qualità ambientale diventa uno strumento ideologico che prescinde dalla neutralità tecnologica, è evidente che apre le porte a un quadro preoccupante che ci porta alla deindustrializzazione europea».
Si è svolto oggi a Napoli presso Palazzo Caracciolo il Forum Asmel L’autonomia differente. Rafforzare i Comuni, ridurre la burocrazia. Il ministro agli Affari europei Tommaso Foti risponde all’Associazione sul definanziamento previsto dalla legge di bilancio: «Agevolazioni burocratiche, consulenze tecniche dedicate e incentivi mirati, gli strumenti per affrontare le sfide degli enti locali».
Asmel, l’Associazione per la sussidiarietà e la modernizzazione degli enti locali, contesta gli 8 miliardi di tagli ai Comuni annunciati in legge di Bilancio e ha scritto al neoministro agli Affari europei, Tommaso Foti, per chiedere di usare i fondi europei e del Pnrr per rifinanziare gli investimenti cassati in manovra.
«In Italia», dice Francesco Pinto, segretario generale Asmel, «siamo da sempre in ritardo di spesa sui fondi europei. In manovra vengono eliminati proprio gli investimenti che hanno visto i Comuni come gestori diretti della spesa e che non hanno registrato intoppi. Si tratta di programmi per la messa in sicurezza o di interventi di efficientamento energetico che hanno sempre raggiunto un buon avanzamento come con i fondi di emergenza in periodo Covid. Invece di costringere i Comuni a rincorrere la lotteria dei bandi per accedere ai fondi europei basta utilizzare questo modello ormai già ampiamente collaudato e che ha dimostrato quanto i Comuni sanno essere capaci di spendere bene e presto i fondi europei».
Il ministro Foti ha risposto alla lettera di Asmel confermando la vicinanza del Governo. Il ministro ha sottolineato che «proprio per i Comuni di minori dimensioni, il Piano nazionale di ripresa e resilienza prevede misure specifiche volte a semplificare l’accesso ai finanziamenti e a supportare la gestione dei progetti. Tra queste rientrano agevolazioni burocratiche, consulenze tecniche dedicate e incentivi mirati, che consentiranno agli enti locali di affrontare le sfide attuali con strumenti adeguati e risorse concrete».
Nel corso del Forum, è stato illustrato il rapporto realizzato da Bocconi per conto di Asmel che analizza il sistema degli acquisti pubblici attraverso Consip (la pubblicazione è scaricabile sul sito dell’associazione).
Per larga parte dei prodotti e dei servizi il ricorso agli strumenti Consip risulta antieconomico o inadeguato. A eccezione della fornitura di buoni pasto, il 95% dei Comuni, registra un tasso medio di adesione alle convenzioni Consip del 25%. Si va da un modestissimo 0,75% per la «gestione immobili» fino al 38% per l’energia elettrica. Il dato è confermato anche nella pubblica amministrazione centrale tenuto conto che a fronte di 80 miliardi di spesa affidata a Consip, la Centrale presidia soltanto 27 miliardi, cioè meno del 35%.
L’indagine illustra anche l’intricata normativa che governa gli acquisti Consip e che secondo Asmel alimenta la paura della firma. In particolare, l’Associazione punta il dito sull’obbligo in capo a ogni funzionario pubblico di ottenere l’assenso esplicito degli organi di vertice per eventuali acquisti al di fuori del sistema Consip. Oltre a dover trasmettere gli atti alla Corte dei conti e, per gli acquisti informatici, anche ad Anac e Agid. Obblighi, denunciano in Asmel, che puntano, in tutt’evidenza, a dissuadere chi, in buona fede, intenda produrre risparmi per il pubblico erario acquistando fuori da Consip.
Per Francesca Chirico, consigliera nazionale Asmel e tra i curatori del rapporto, «In un mondo in evoluzione continua, il modello Consip, con maxi-bandi e contratti di fornitura spesso stipulati dopo anni, va ripensato guardando a quello dei market place privati dove la competizione tra fornitori si realizza in tempo reale. I risultati in termini di efficienza e di risparmi a due cifre sono sotto gli occhi di tutti. Applicando questo modello agli 80 miliardi di spesa pubblica, non è difficile puntare a risparmi dell’ordine di 20 miliardi, quasi una finanziaria.
Il rappresentante Istat, Fabio Albo, dirigente del Sistan (il Sistema statistico che collega Enti nazionali e locali) ha illustrato gli aggiornamenti attivati dopo la lettera aperta Asmel inviata al presidente Istat a febbraio scorso e sottoscritta da un migliaio di sindaci: «Istat, dopo una interlocuzione assidua con Asmel, accoglie con favore il progetto di scambio dati automatizzato proposto dall’Associazione, che si avvarrà della Piattaforma digitale nazionale dati (Pdnd) per garantire sicurezza e protezione delle informazioni trattate. In particolare, abbiamo avviato una sperimentazione sulla rilevazione dei permessi di costruire partendo dal 1° marzo. Un passo importante per semplificare le procedure e rispondere concretamente alle richieste pervenute tramite la lettera dei sindaci a Istat, in cui si sollecitava maggiore attenzione alle esigenze dei Comuni e una gestione più snella e accessibile dei dati territoriali».
La sperimentazione sui permessi di costruire rappresenta il primo tassello di un percorso più ampio, che punta a semplificare la trasmissione delle informazioni tra Comuni e Istat, garantendo tempi certi e superando il rischio di sanzioni. Asmel conferma il proprio sostegno ai Comuni impegnati nella loro missione di garantire servizi migliori e più vicini ai cittadini, in un rapporto di collaborazione con le istituzioni nazionali basato sulla pari dignità.
Lo scorso 11 luglio all’evento organizzato al Lingotto per festeggiare i 125 anni della Fiat, il presidente di Stellantis, John Elkann, aveva ricordato come «l’attenzione per le persone e le comunità» sia sempre stata «fondamentale nella nostra storia» citando anche le colonie Fiat «che hanno permesso a migliaia di bambini di conoscere il nostro mare e le nostre montagne». Insomma, il gruppo degli Agnelli ha fatto tante cose buone. Però ha attraversato anche «crisi, guerre, calamità naturali».
Nel frattempo, negli ultimi nove anni, tra cassa integrazione, agevolazioni per assunzioni e contratti di espansione, agli italiani la Fiat è costata 887 milioni. Del resto, come diceva il nonno Gianni, la fabbrica è la nazione. Dipende. Non lo è quando c’è da andare in Parlamento per confrontarsi su come salvaguardare il futuro della filiera automotive italiana. Il nipote dell’Avvocato ha rispedito al mittente la richiesta di audizione. Elkann non andrà in Parlamento perché non ha nulla di più da dire rispetto al ceo, Carlos Tavares, ha spiegato in una lettera al presidente della commissione Attività produttive della Camera, Alberto Luigi Gusmeroli (Lega). Insomma, declina l’invito. «Apprendo con sconcerto che il presidente di Stellantis non vorrebbe riferire in Parlamento sulla situazione aziendale», ha subito scritto in una nota il presidente della Camera dei deputati, Lorenzo Fontana, sottolineando che «scavalcare il Parlamento sarebbe un atto grave». Nel pomeriggio Elkann ha parlato al telefono con Fontana, ma la sua posizione non è cambiata e anzi ha difeso l’operato del gruppo: «In questi decenni gli stipendi, gli oneri fiscali e previdenziali versati, la bilancia commerciale, gli investimenti fatti e le competenze che abbiamo formato, hanno superato di gran lunga i contributi ricevuti in Italia. E lo rivendichiamo con orgoglio, essendo la più importante realtà industriale che opera in Italia. Stellantis da quando è nata (2021) ha investito in Italia 2 miliardi di euro all’anno, siamo a 6 miliardi di euro». E ancora: «In questi anni non c’è stato nessun disimpegno in Italia; c’è stato solo un grande sforzo per orientare la nostra attività verso il futuro con prodotti competitivi». Universi quasi paralleli, almeno rispetto a quello degli operai.
Gusmeroli ieri ha risposto a Elkann rinnovandogli la richiesta di audizione congiunta dinanzi alle commissioni parlamentari di Camera e Senato, e ricordandogli che «il Parlamento è certamente il luogo principe per proseguire il dialogo positivo e costruttivo tra i cittadini, le istituzioni e gli attori industriali che hanno fatto la storia del nostro Paese. In quest’ottica, a maggior ragione considerato il delicato periodo storico che stiamo vivendo, reputo la sua presenza ancora più necessaria, alla luce anche della disponibilità a un dialogo franco e rispettoso da lei rappresentata». In apertura delle audizioni informali con i sindacati della filiera automotive e con le opposizioni, ieri mattina l’esponente della Lega ha spiegato che «il presidente John Elkann rappresenta gli shareholder e un gruppo che «ha dato, ma dal Paese ha anche ricevuto moltissimo».
Durissima Giorgia Meloni: «Elkann non ha detto solo di no, ha detto no perché aspetto il tavolo del governo: temo che a John Elkann sfuggano dei fondamentali della Repubblica italiana» perché «sono due cose completamente diverse, una non esclude affatto l’altra, siamo una Repubblica parlamentare, questa mancanza di rispetto verso il Parlamento me la sarei evitata».
Dal ministero del Made in Italy filtra una forte irritazione di Adolfo Urso. E fonti del Mimit ricordano che il tavolo era stato convocato per ieri mattina e non prima proprio perché attendevano la calendarizzazione dell’audizione di Elkann in Parlamento, non solo come presidente di Stellantis, ma per ciò che rappresenta Exor in Italia con le sue molteplici attività. Il tavolo Stellantis è stato riconvocato per giovedì 14 invitando a partecipare i rappresentanti dell’azienda, delle Regioni sede di stabilimenti produttivi, delle organizzazioni sindacali e dell’Anfia, l’associazione che rappresenta la filiera. Intanto, lo sconcerto è bipartisan. Per il capogruppo di Fdi alla Camera, Tommaso Foti, il rifiuto di Elkann «è vergognoso e scandaloso». Per l’intero partito della Lega si tratta di una «vergognosa offesa alle istituzioni». Per il leader di Azione, Carlo Calenda, è un «grave sgarbo istituzionale». Il segretario del Pd, Elly Schlein, afferma la necessità di «stigmatizzare l’atteggiamento del presidente di Stellantis» e anche il capo dei 5 stelle, Giuseppe Conte, chiede che Elkann si presenti in Parlamento. Sullo sfondo, ricordiamo che sarebbe opportuno presentarsi in Parlamento in quanto cittadino italiano, in quanto presidente di un gruppo che ha promesso di produrre un milione di veicoli mentre quest’anno arriverà forse alla metà in un mercato dove ci sono quindi margini per crescere, dove si acquistano 1,5 milioni di vetture ma dove l’auto più venduta è la Dacia Sandero di Renault. Elkann deve inoltre evitare uno scontro come quello aperto negli Usa dove Democratici e Repubblicani si sono schierati col sindacato e minacciano di bloccare i fondi.
E i sindacati cosa dicono? «Noi abbiamo chiesto e continuiamo chiedere che sia direttamente la presidenza del consiglio a convocare Stellantis, la componentistica, le associazioni», ha detto il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, incalzato su Stellantis. Per Landini il problema sono più la legge di bilancio e il taglio al fondo automotive annunciato da Urso. Poi il leader della Cgil ha aggiunto: «La Fiat non c’è più da un po’ di anni. E la famiglia Agnelli non comanda più. Nessuno se n’è accorto, dove sono stati in questi anni tutti quelli che oggi dicono che c’è un problema?». Landini è lo stesso che si girò dall’altra parte quando ci fu la possibilità di far entrare un rappresentante del sindacato nel cda del gruppo nei mesi della fusione Peugeot-Fca. Perdendo così l’occasione di avere voce in capitolo nel luogo deputato a prendere e ratificare le principali decisioni per la vita dell’azienda.

