Dopo lo scoop di ieri della Verità la vicenda della riunione all’hotel Metropol di Mosca torna in Procura. Ma stavolta con la Lega di Matteo Salvini come possibile parte lesa di una macchinazione. Ieri, il Carroccio ha infatti annunciato di aver «dato mandato ai propri legali di presentare un esposto in Procura e di procedere in tutte le sedi per ripristinare la verità e tutelare le proprie ragioni, dopo la sconcertante inchiesta pubblicata oggi dal quotidiano diretto da Maurizio Belpietro». Il comunicato riassume così la nostra ricostruzione del falso scoop realizzato quattro anni fa dal cronista dell’Espresso Giovanni Tizian con l’aiuto dell’avvocato massone Gianluca Meranda: «I due (faccendiere e giornalista) si parlavano spesso, si incontravano, addirittura si erano recati a Mosca insieme. Non una inchiesta, quindi, ma una macchinazione per incastrare i rivali politici. Il tutto è stato annotato dalla Guardia di Finanza e riportato con evidenza da La Verità di oggi (ieri, ndr)». La nota prosegue così: «La vicenda dell’hotel Metropol di Mosca è stata una macchinazione costruita a tavolino per colpire il partito e il leader Matteo Salvini (ai tempi vicepremier e ministro dell’Interno) alla vigilia delle ultime elezioni Europee». Da via Bellerio hanno anche ricordato che «i giudici hanno già stabilito l’assenza di passaggi di denaro dalla Russia o di reati a carico della Lega». Quindi hanno concluso che «queste rivelazioni offrono nuovi spunti che - ne siamo certi - saranno di grande interesse giudiziario. Siamo di fronte a uno scandalo, a una macchinazione che ha inquinato la nostra democrazia e il dibattito pubblico: la Lega si aspetta interventi chiari dalla politica, dalla magistratura, dall’ordine dei giornalisti e dai commentatori che per anni hanno rovesciato fango». Sconcertante la replica alla nostra inchiesta di Tizian, autore del presunto scoop sul Metropol. Non nega che Meranda fosse la sua fonte, ma non si preoccupa di spiegare perché il legale appassionato di grembiulini lo informasse in tempo reale delle trattative che stava portando avanti lui stesso e che lo hanno fatto finire sul registro degli indagati con la pesante accusa di corruzione internazionale. A che gioco giocava Meranda e perché si è autoincastrato per aiutare l’«amico» giornalista? Chi c’era dietro a questa incredibile alleanza tra il cronista e il suo bersaglio? Tizian dice che non siamo credibili perché nel 2019, all’inizio delle indagini, avevamo ipotizzato che a registrare l’incontro potesse essere stato il Gatto e non la Volpe, ovvero Francesco Vannucci, il sodale di Meranda. Ma oggi di fronte all’informativa della Guardia di finanza che svela definitivamente chi fosse il suo suggeritore, il collega balbetta. E rivendica di aver montato un’inchiesta che si è sgonfiata come un sufflè. Per concludere sconsolato: «Comunque non si va a caccia delle fonti di altri, penso sia sgradevole. Poi ognuno ha il suo metodo». Tizian forse non ricorda di lavorare per il Domani, quotidiano ossessionato dalle fonti della Verità e dai nostri scoop.
Se un poliziotto decidesse di incastrare un politico che ritiene un mariuolo, provando a corromperlo o a corrompere un suo collaboratore allo scopo di provare un’accusa, finirebbe sul banco degli imputati, con la stessa accusa che vorrebbe addossare al politico. In Italia infatti, salvo rare eccezioni che riguardano il traffico di droga o il terrorismo, non sono ammessi i cosiddetti agenti infiltrati. Figuratevi dunque se a organizzare il trappolone fosse un cronista. Avessimo fatto qui alla Verità qualche cosa del genere, probabilmente a quest’ora saremmo tutti indagati e accusati di chissà quale reato. Invece, si scopre che a organizzare un intrigo internazionale che, prima delle elezioni europee del 2019, avrebbe dovuto incastrare Matteo Salvini accusandolo di farsi finanziare da Vladimir Putin, erano un avvocato molto legato alla massoneria in combutta con un giornalista d’assalto del gruppo Espresso, e curiosamente nessuno fa un plissé. Anzi, sul caso scoperchiato dal nostro Giacomo Amadori cala una strana congiura del silenzio, quasi che della faccenda non si debba parlare.
Io ricordo gli editoriali dell’allora direttore del settimanale debenedettiano quando deflagrò lo scandalo. Marco Damilano, oggi emigrato su Rai 3 grazie al pronto soccorso dei compagni quando il giornale è stato venduto, denunciava il silenzio di Salvini sulla vicenda del Metropol. E i suoi inviati azzannavano il leader leghista ai polpacci per gli incontri di un uomo a lui vicino in un albergo di Mosca. Secondo le ricostruzioni, descritte come frutto di un lavoro investigativo-giornalistico, il collaboratore del segretario trattava con imprenditori una partita di petrolio che avrebbe dovuto fruttare miliardi e rimpinguare le casse del partito. Ma a quanto pare, la storia non era come l’aveva descritta L’Espresso e non era nata il giorno di quella riunione nella hall dell’albergo, ma molto prima, grazie al rapporto fra il mediatore massone e il giornalista, i quali avevano concordato anche il viaggio in Russia tanto da imbarcarsi sullo stesso aereo.
Ad attenderli, non c’erano imprenditori interessati a fare affari con la Lega di Salvini, ma un agente dell’ex Kgb, servizi segreti che poi cercheranno di incastrare per l’ennesima volta il leader leghista per un altro viaggio a Mosca. Chi teneva i rapporti con lo 007 russo? Ma soprattutto, perché il legale che si era proposto come facilitatore dell’accordo, prima si messaggiava e si incontrava con il giornalista dell’Espresso? All’epoca, gli inviati del settimanale raccontavano di aver fiutato una pista e di averla seguita come segugi fino al Metropol, ma forse le cose non stanno così come ci sono state raccontate, visto che fra il cronista e l’avvocato Meranda i rapporti erano continui, fino al punto che quest’ultimo si è vantato di aver contribuito in maniera fondamentale all’uscita del libro scritto dal giornalista.
Se i fatti contenuti in un’informativa della Guardia di finanza e allegati alla richiesta di archiviazione del caso su cui ha indagato la Procura sono veri - e non ho motivo di dubitare che lo siano - la vicenda del Metropol è tutta da riscrivere. E non per sostenere che Salvini e i suoi non hanno commesso reati: a questo hanno già pensato i pm che hanno chiuso la faccenda senza indugiare ulteriormente. No, l’aspetto che va chiarito è chi ha cercato di incastrare il segretario leghista e la sua squadra. Chi aveva interesse nel 2018, a pochi mesi dalle elezioni, a vestire i panni dell’agente infiltrato, al fianco di un avvocato massone e di un uomo dei servizi segreti di Mosca?
Altro che denunciare i silenzi di Salvini, come facevano L’Espresso e il suo direttore cinque anni fa. Oggi siamo noi a denunciare l’afasia che ha colpito Damilano e compagni.
Quattro anni fa l’allora direttore dell’Espresso Marco Damilano aveva paragonato l’inchiesta sul Metropol portata avanti dai suoi cronisti nientemeno che al Watergate. Stiamo parlando, per chi non lo ricordasse, del celebre o famigerato (dipende dai punti di vista) «scoop» sulla presunta trattativa tra emissari del Carroccio e oscuri personaggi russi, legati al mondo putiniano, per far arrivare rubli alla Lega grazie a una compravendita di petrolio a prezzo scontato. Due segugi del settimanale avevano raccontato di essere riusciti a seguire le contrattazioni in tempo reale e di aver persino messo le mani sulla registrazione di uno degli incontri. Un’esclusiva che all’epoca fece il giro del mondo e portò all’apertura di un’inchiesta per corruzione internazionale presso la Procura di Milano. Con quegli articoli e con un tomo a essi collegato (Il libro nero della Lega) media e politica cercarono di mettere in difficoltà Matteo Salvini alla vigilia delle Europee.
Oggi che il fascicolo penale è stato archiviato, la storia di questa parodia del Watergate va probabilmente riscritta alla luce di un’informativa del nucleo di polizia economico-finanziaria della Guardia di finanza di Milano, datata luglio 2020, che La Verità ha visionato in esclusiva. Un’annotazione che getta una luce sinistra sull’intera inchiesta giornalistica del settimanale, all’epoca di proprietà della famiglia di Carlo De Benedetti. Ricordiamo che lo stesso editore nel 2020 ha fondato il quotidiano Il Domani e ha assunto nel suo nuovo giornale proprio il principale autore degli articoli sul Metropol.
Scrivono nel 2020 le Fiamme gialle: «Dagli accertamenti svolti […] sono emerse tracce di contatti telefonici e di incontri intercorsi nel periodo d’interesse investigativo (2018/2019) tra uno degli indagati, Gianluca Meranda, e uno dei giornalisti firmatari dello scoop da cui ha tratto origine l’indagine, Giovanni Tizian (oggi al Domani, ndr)».
Il cinquantatreenne calabrese Meranda, in quel momento, non è un indagato qualunque, bensì l’uomo che, come vedremo, aveva consentito che nascesse il cosiddetto caso Metropol, con dichiarazioni mirate ai giornali e registrazioni autoaccusatorie. Sul suo iPhone X gli investigatori avevano rinvenuto «alcune fotografie risultate sostanzialmente sovrapponibili a quelle pubblicate su L’Espresso a margine degli articoli a firma dello stesso Tizian». I due autori, Tizian e Stefano Vergine, hanno raccontato ai magistrati di aver lavorato per mesi e di essersi recati personalmente al Metropol dove si sarebbe svolta la famosa trattativa per vendere oro nero con lo sconto all’Eni così da consentire agli emissari della Lega di realizzare una robusta cresta. Ma non hanno mai voluto raccontare chi gli abbia consigliato di recarsi nell’albergo, o chi gli abbia consegnato l’audio del negoziato, lo stesso consegnato da Vergine ai magistrati di Milano che, con la notizia di reato a disposizione, hanno potuto iscrivere sul registro degli indagati i tre convitati italiani del Metropol con l’accusa di corruzione internazionale. Sono finiti così sotto inchiesta, oltre a Meranda, il sessantaseienne bancario toscano in pensione Francesco Vannucci e l’ex portavoce di Matteo Salvini, il cinquantanovenne ligure Gianluca Savoini, già fondatore dell’associazione culturale Lombardia-Russia. Una strana combriccola che in gran fretta i giornali progressisti incolparono di quasi tutto, tranne che dell’11 settembre.
Tre personaggi un po’ misteriosi che, però, a parte Savoini, con la Lega c’entravano poco e avevano in comune tra di loro solo l’affare del petrolio. Nell’istanza di archiviazione per i presunti mariuoli la Procura di Milano ci ha fatto sapere che a registrare le voci del Metropol era stato con tutta probabilità proprio Meranda. E allora un terribile dubbio ha iniziato a ronzarci nella testa. Il sospetto di un complottone di cui, però, non ci erano chiari i contorni. Che ci sono apparsi netti quando abbiamo potuto compulsare l’annotazione di oltre seicento pagine che la Finanza, come detto, aveva trasmesso alla Procura di Milano già nel luglio del 2020.

Con grande sorpresa abbiamo scoperto che Tizian, il presunto Bob Woodward italiano, aveva conosciuto Meranda ben prima dell’incontro del Metropol e si era visto con lui diverse volte prima della pubblicazione dell’inchiesta. Nell’informativa si fa riferimento a una «conoscenza diretta» e a «frequentazioni tra Meranda e Tizian, risalenti quantomeno al luglio 2018». Cioè tre mesi prima della riunione moscovita. Nell’agenda del cellulare dell’avvocato «risultano registrati 14 promemoria di appuntamenti con Tizian nel periodo dal 25 luglio 2018 al 24 giugno 2019». In un solo caso, il 30 gennaio 2019, probabilmente in vista dell’uscita del libro, compare anche il nominativo dell’altro giornalista, Vergine. Una notizia che per i militari avvalora «la tesi» che Tizian e Meranda «fossero in contatto diretto nel pieno dello sviluppo degli accadimenti oggetto d’indagine (e anche dopo)». I finanzieri, grazie ai controlli sulle celle telefoniche agganciate dal telefonino dell’ex indagato, sono riusciti a verificare che Meranda nelle ore e nei giorni indicati nell’agenda si trovava dove aveva previsto di essere (nove volte i rendez-vous erano stati fissati nel suo studio). La controprova su Tizian sembra che non sia stata effettuata, anche se suggerita dalle Fiamme gialle all’autorità giudiziaria milanese.
Alcuni appuntamenti non sarebbero casuali, ma «risultano fissati proprio in prossimità o a cavallo di eventi di interesse investigativo, di per sé compatibili con la rendicontazione da parte di Meranda degli sviluppi degli accordi politici e delle trattative petrolifere». Per esempio il primo incontro, quello del 25 luglio 2018, «è immediatamente prossimo a importanti sviluppi degli embrionali accordi e delle trattative commerciali oggetto d’inchiesta giornalistica e, quindi, d’indagine, contestualizzabili tra il 10 e il 24 luglio 2018». In quest’ultima data Meranda riceve, via mail, una bozza di offerta commerciale dalla russa Avangard gas and oil company, documento che verrà successivamente pubblicato sull’Espresso del 24 febbraio 2019, dove si darà conto anche di questa trattativa abortita, tirando in ballo Savoini e non l’avvocato calabrese. Centrale per gli investigatori e per la nostra controinchiesta è il promemoria del 16 ottobre 2018 dell’appuntamento, calendarizzato da Meranda, con Tizian presso il proprio ufficio («stanza GM»), tra le 16 e le 17. I finanzieri evidenziano: «La data della riunione è immediatamente prossima alla partenza di Meranda e Tizian per Mosca, con lo stesso volo Alitalia», decollato da Roma Fiumicino il 17 ottobre 2018. Un viaggio «propedeutico» all’incontro del Metropol, «oggetto d’inchiesta giornalistica e, quindi, d’indagine».
Cioè, per chi non lo avesse ancora capito, poche ore prima di animare (e registrare) il summit moscovita Meranda ha incontrato Tizian nel proprio studio. Poi i due sono partiti per la Russia con il medesimo aereo. Uno sedeva al posto 6C e l’altro al 7B. Che cosa si saranno detti Meranda e Tizian prima di volare a Mosca? Fatto sta che due giorni dopo Meranda si registra, pronuncia alcune delle frasi più compromettenti al tavolo, fa il riassunto dell’accordo, lo trascrive sulla sua agenda, lo fotografa e lo invia agli altri partecipanti. Insomma è lui a inguaiare tutti i presenti. Pronunciando parole come queste: «Non è una questione professionale, ma politica». Oppure: «L’affare non serve per arricchirsi, ma per sostenere una campagna politica, che è di beneficio, di reciproco vantaggio, per entrambi i Paesi coinvolti (Italia e Russia)». Fa riferimento anche a una «soglia (di sconto, ndr) pattuita dai nostri politici (“our political guys”)». Altra data significativa è il 21 dicembre 2019. Quel giorno Meranda ha fissato l’appuntamento con Tizian tra le 17 e le 18. Alle 17:34, probabilmente con il giornalista di fronte, invia una mail a una referente della società multinazionale Interfax «specializzata nella raccolta di informazioni su imprese e imprenditori in Russia» e inserisce «in copia conoscenza l’indirizzo di posta elettronica di Tizian».
Scrive: «Ciao Kate, Giovanni Tizian potrebbe aver bisogno dell’assistenza della tua azienda. Giovanni - Kate è una professionista molto simpatica. Puoi metterti in contatto direttamente senza bisogno di tenermi in copia».
I finanzieri annotano anche un altro particolare di non poco conto: «Dalla disamina delle proprietà del file audio consegnato dal giornalista Stefano Vergine ai pubblici ministeri titolari delle indagini in data 19 giugno 2019, contenente la registrazione della conversazione dell’incontro all’hotel Metropol […] si rileva che la data di ultima modifica è quella del 22 dicembre 2018, ore 11:53. Esattamente il giorno dopo l’appuntamento tra Meranda e Tizian». La chiavetta, dunque, potrebbe essere stata consegnata ai giornalisti quasi come un regalo di Natale. La riunione del 23 febbraio 2019 è, invece, «immediatamente prossima alla diffusione dell’articolo intitolato “Quei 3 milioni russi per Matteo Salvini: ecco l’inchiesta che fa tremare la Lega”», servizio «distribuito in edicola in 24 febbraio». Il giorno dopo esce, invece, Il libro nero della Lega che contiene un capitolo sulla vicenda del Metropol. I primi pezzi sono illustrati anche con foto che sarebbero state realizzate dallo stesso Meranda, il quale in alcuni messaggi «ne assume la paternità».
Le immagini sarebbero state scattate a Mosca il 6 giugno, il 28 agosto e il 13 dicembre 2018 e raffigurano alcuni dei luoghi dove si sarebbero svolte le trattative per l’acquisto del petrolio. Per i magistrati sono gli stessi scatti pubblicati sui numeri dell’Espresso del 24 febbraio e del 3 marzo 2019. In uno si riconoscono i profili di Savoini e Vannucci. L’ex segretaria di Meranda, R.C., ha riferito agli inquirenti: «Ricordo di aver visto sul tavolo dell’avvocato un libro scritto da tale Tizian e mi sono ricordata che l’articolo dell’Espresso era anch’esso scritto dal predetto giornalista. Non ho mai parlato della cosa con Meranda, ma mi ha portato ad avere dubbi su alcuni suoi comportamenti. Tra l’altro, se non ricordo male, le visite di Tizian in studio sono avvenute sia prima che dopo la pubblicazione dell’articolo e forse il libro lo ha consegnato direttamente quest’ultimo a Meranda».
Nei giorni successivi all’uscita del servizio del 3 marzo («La lunga trattativa di mister Lega»), Meranda invia tramite Whatsapp sia il nuovo «scoop» del settimanale che il capitolo del libro che lo riguarda a suo fratello Giuseppe, a un colonnello della Guardia di finanza e a un dirigente di Leonardo. L’articolo è trasmesso anche a un albergatore in pensione, con un precedente di tentata estorsione e un ruolo da ambasciatore dell’Ordine di Malta. Gli incontri tra Tizian e Meranda proseguono: uno a marzo (il 6), ben tre ad aprile (7-17-29), uno a maggio (23) e due a giugno (14-24), a cavallo della consegna dell’audio alla Procura di Milano (19 giugno). I due si scambiano pochissime telefonate (sulla linea normale solo tre, in concomitanza con gli incontri) e nessun messaggio, ma dall’annotazione apprendiamo che almeno in tre occasioni Meranda, su Whatsapp, descrive Tizian come un suo amico. Più precisamente «vecchio amico», «a friend of mine» e «amico caro».
Il 18 luglio 2018, alla vigilia del primo incontro nel suo studio, Meranda commenta l’articolo di Tizian e Vergine che gli aveva inviato una leghista di Formello, allora coordinatrice locale (il servizio si intitolava «Matteo Salvini ha fondato un altro partito: e quindi dovrebbe essere espulso dalla Lega»). «Si, avevo letto (Giovanni Tizian è un vecchio amico)» fa sapere. Il 17 aprile 2019, in occasione di uno dei 14 appuntamenti, Meranda declina l’invito di Mitchell Belfer, presidente dell’Euro-Gulf information centre di Roma, per la presentazione di un saggio di un sociologo sull’Islam italiano, ma prova a imbucare il cronista: «Un mio amico, Giovanni, un giornalista professionista che scrive di politica italiana, potrebbe essere disposto a partecipare. È possibile? Grazie Gianluca».
Nel messaggio successivo Meranda invia all’interlocutore il contatto di Tizian e gira la brochure dell’evento al giornalista. Il 23 maggio, data dell’ennesimo appuntamento con il cronista, l’avvocato cosentino manda un messaggio a un magistrato originario della stessa provincia, Paolo Guido (l’aggiunto della Procura di Palermo che ha condotto le indagini che hanno portato all’arresto del boss mafioso Matteo Messina Denaro): «Ciao Paolo, un amico caro dell’Espresso vorrebbe mettersi in contatto con te». Anche in questo caso Meranda inoltra il numero di Tizian. Gli investigatori non riferiscono se Guido abbia risposto o incontrato il giornalista. Quel che pare certo è che Tizian, in una delle occasioni in cui si sarebbe visto con Meranda, avrebbe convinto quest’ultimo a fargli da intermediario per entrare in contatto con un importante magistrato.
Le Fiamme gialle hanno trovato traccia sul telefonino dell’ex indagato anche di tre chiamate Whatsapp della durata di alcuni minuti, tutte risalenti alla prima decade del luglio 2019. «Le ultime due, dell’11 luglio 2019, ricadono in un momento essenziale per lo sviluppo delle indagini» puntualizzano i finanzieri. Infatti il giorno prima, il 10 luglio, il sito americano di news online Buzzfeed aveva pubblicato stralci dell’audio del Metropol e l’11 luglio le principali agenzie di stampa avevano annunciato l’avvio di indagini da parte della Procura della Repubblica di Milano, rese attuali dalla diffusione della registrazione. Sempre su WhatsApp risultava attiva una conversazione, priva di messaggi. «Anche quest’ultimo evento datato, 17 luglio 2019 (ore 00:55), ricade in un momento essenziale per lo sviluppo delle indagini» appuntano gli investigatori. Infatti, il 16 luglio, alle 9:45, Meranda aveva ricevuto l’avviso di garanzia con l’invito a rendere interrogatorio. Poche ore dopo gli inquirenti avrebbero sottoposto il legale a perquisizione e al sequestro dei dispositivi elettronici, cellulare compreso.
Un’escalation scatenata non solo dalla diffusione dell’audio, ma anche dalla decisione di Meranda di venire allo scoperto a livello mediatico, confermando di essere uno dei partecipanti all’incontro del Metropol di cui Buzzfeed aveva messo in Rete la registrazione. Un’uscita che rese la notizia ancora più succulenta. La cosa curiosa è che Meranda scelse per confermare la storia un giornale dello stesso gruppo dell’Espresso. Un incomprensibile autogol.
Dopo quella lettera, il 13 luglio 2019, Tizian e Vergine, come se non avessero confidenza con l’avvocato, gli inviarono una mail con questo oggetto: «Urgente// Richiesta di commento per il settimanale l’Espresso». Nel formulare le domande i giornalisti si rivolgevano a Meranda dandogli del «lei».

L’ex indagato aveva salvato su telefonino l’indirizzo Gmail di Tizian, ma questa volta il cronista, per la missiva, aveva usato quello di lavoro, che gli investigatori definiscono «istituzionale». All’interno del questionario spiccavano le domande su Francesco Vannucci, il terzo italiano presente al Metropol, in passato impegnato nel sindacato (Cisl) e in politica (con la Margherita), «la cui individuazione era ancora ignota agli atti d’indagine, a questa polizia giudiziaria e all’opinione pubblica».
Un questionario molto simile e anonimo è stato ritrovato tra le carte di Meranda, un documento che l’annotazione riconduce «all’interessamento di terzi (a rigor di logica giornalisti) per i fatti dell’hotel Metropol». Su quei fogli ci sono appunti scritti a margine da Meranda. Di questo tenore: «Sono un avvocato e non mi occupo di politica». Ma anche: «Nel mio studio c’è il primo Comitato Salvini Premier». Sempre il 13 luglio, dall’indirizzo di Tizian, vengono spediti quesiti analoghi a Savoini. Una mossa che probabilmente serviva a evitare che Meranda fosse individuato come fonte dei cronisti. Anche se Tizian, di fronte ai magistrati, non ha potuto smentire i rapporti con l’ex indagato. «Come è avvenuta la conoscenza con Meranda?» gli chiedono il 9 febbraio 2021 gli inquirenti.
Tizian: «Ci siamo conosciuti a una festa nel 2018 a Roma. Non ricordo dove fosse la festa, ma comunque è stato un incontro assolutamente casuale. Confermo di avere incontrato Meranda in alcune occasioni, il più delle volte presso il suo studio a Roma, altre volte in posti pubblici». Pm: «Descriva i dettagli del suo soggiorno a Mosca a ottobre 2018».
Tizian: «Sono partito da Roma il 17 ottobre 2018. Una volta sull’aereo ho scoperto di avere preso lo stesso volo del ministro Salvini. Insieme a Salvini ho notato il portavoce Paganella (Andrea, ndr). Davanti a me c’era Meranda. Preciso di non avere concordato con lui i dettagli del volo». I magistrati sembrano avergli creduto. Il testimone fa riferimento ad anonimi informatori, senza citare la sua gola profonda di fiducia: «Io e il collega Vergine, che era partito da Milano, abbiamo alloggiato all’hotel Metropol poiché alcune nostre fonti avevano indicato tale hotel come luogo di incontro tra Savoini e i russi per la trattativa sul petrolio di cui abbiamo scritto nei nostri articoli. Nel tragitto dall’aeroporto all’hotel ho avuto conferma dalle mie fonti che il giorno successivo ci sarebbe stato l’incontro al Metropol». Gli inquirenti domandano quando abbia saputo che la riunione era stata registrata. E il cronista risponde: «Non ricordo la data esatta, comunque diverse settimane dopo l’incontro del Metropol, forse a gennaio 2019, abbiamo ricevuto il file con la registrazione dalla nostra fonte, la cui identità non posso rivelare per proteggere il segreto professionale. La fonte ci ha chiesto di non pubblicare l’audio al fine di tutelarla il più possibile».
Ricapitoliamo: un avvocato massone e un giornalista diventano «cari amici». Il primo, molto trasversale nelle conoscenze, aveva contribuito alla nascita (nel gennaio 2018) di un comitato per Salvini premier dentro al suo studio, premurandosi, però, di non apparire nell’organigramma. Poi con un bancario, politicamente vicino alla Margherita, aveva deciso di diventare un procacciatore di finanziamenti illeciti per la Lega. E mentre trafficava in questo modo raccoglieva materiale che sarebbe stato divulgato nei mesi successivi sul giornale dell’«amico» giornalista, una testata nemica del Carroccio. A quanto pare, però, Meranda si era raccomandato di non rendere pubblico l’audio del Metropol.
Quando esplode il caso, Salvini non solo non perde consensi, ma stravince le Europee. E allora che cosa fanno i giornalisti? Portano la registrazione del loro «agente provocatore» in Procura e, dopo che è stato depositato in Tribunale, il file finisce su un canale di news statunitense (l’articolo viene firmato da un italiano). Forse è l’unico modo per far circolare la notizia a livello internazionale, mantenendo, almeno apparentemente, la parola data a Meranda. Chissà che cosa sarebbe successo se una simile operazione «giornalistica» fosse stata orchestrata da una testata riconducibile all’area moderata. Non vogliamo neanche provare a immaginarlo.
1-continua
La magistratura ha già chiarito che nel caso del Metropol, ossia nella strana trattativa per una fornitura di petrolio che avrebbe visto riunite persone vicine alla Lega e altre vicine a Vladimir Putin, non c’è nulla di penalmente rilevante. Tuttavia, ciò che è rimasto nell’ombra sono gli antefatti che portarono alla riunione in un salottino dell’hotel di Mosca. Ora La Verità, grazie all’impegno profuso dal nostro Giacomo Amadori nell’andare fino in fondo alla vicenda, può chiarire ciò che è rimasto nascosto e, soprattutto, riscrivere la storia, per spiegare non soltanto che non c’è mai stata una maxi tangente, come già appurato dai pm, ma che dietro all’incontro di quei signori avvenuto alla vigilia delle elezioni del 2019 si nascondeva un grande intrigo che aveva come obiettivo incastrare Matteo Salvini e la stessa Lega.
Le sorprendenti rivelazioni si basano su un rapporto della Guardia di finanza, che per conto della Procura di Milano ha scritto un’informativa in cui si ricostruisce nel dettaglio che cosa avvenne prima della riunione di Mosca dove si sarebbe discusso del presunto affare. In pratica, i segugi delle Fiamme gialle hanno scoperto preesistenti contatti tra il protagonista di quella strana operazione, ossia l’avvocato Gianluca Meranda, e uno dei giornalisti che nel 2019 firmarono lo scoop dell’Espresso. A differenza di quanto era trapelato e ciò che era stato fatto credere, Meranda e Tizian, il cronista del settimanale a quei tempi di proprietà di Carlo De Benedetti (oggi il giornalista è emigrato al Domani, sempre di Cdb), erano in contatto da tempo. Perciò, al contrario di quanto era sembrato o si era accreditato, è lecito supporre che gli inviati a Mosca della rivista debenedettiana non arrivarono al Metropol seguendo chissà quali piste, ma su indicazione dello stesso Meranda. Del resto, l’avvocato d’affari rimasto senza affari e il cronista a caccia di scoop, guarda caso viaggiarono sullo stesso aereo diretti a Mosca. In pratica, da quel che emerge dall’informativa della Gdf, Meranda e Tizian prima si vedono nell’ufficio del legale, poi partono per la capitale russa, dove si terrà il famoso summit in cui si sarebbe dovuto siglare l’accordo per la fornitura miliardaria, con annessa tangente agli uomini di Salvini.
Cioè, fino a ieri tutti credevano che il cerchio magico del segretario leghista si fosse mosso per trovare fonti di finanziamento e fosse atterrato a Mosca. Al Metropol i rappresentanti del Carroccio si sarebbero fatti assistere da un legale, ma poi, quando l’affare era tramontato, qualcuno aveva registrato la conversazione e aveva spifferato tutto ai cronisti. Ma a quanto pare i giornalisti sono stati coinvolti non a cose fatte, o meglio quando l’operazione è abortita, come una specie di ritorsione. No, l’inviato probabilmente era nella partita fin da subito, tanto che oltre ad avere avuto frequenti incontri con Meranda, lo seguì nel viaggio a Mosca. In principio si era detto che il giornalista-007 si era messo a distanza di orecchio dal gruppetto, così da poterne ascoltare la conversazione. Tutto falso. L’incontro - ormai è certo - fu registrato da Meranda, il quale poi si incaricò di consegnare una chiavetta usb al giornalista che si era portato al seguito.
A questo punto, sono legittime alcune domande. Perché l’avvocato d’affari parla con Tizian prima ancora che si discuta dell’operazione? Fino a ieri immaginavamo che egli avesse cantato per vendicarsi, inferocito perché il maxi accordo era andato a monte. Ma se così non è, se come pare di capire la compravendita non è mai stata concreta, perché Meranda la anticipa al cronista dell’Espresso? Qual era il suo obiettivo? Guadagnare un mucchio di soldi nel caso la trattativa fosse andata in porto o incastrare qualcuno? La domanda è legittima, perché se la storia va riscritta, va riscritto anche l’epilogo, ovvero la reazione furibonda del mediatore per aver perso lauti guadagni. E se i compensi non sono mai esistiti (e nei prossimi giorni spiegheremo perché), se Meranda era in contatto con il cronista dell’Espresso ben prima del viaggio a Mosca; se l’avvocato ha tenuto costantemente informato Tizian di tutti i passaggi, qual era l’obiettivo del curioso gruppetto? Di certo non la percentuale sul petrolio venduto. E allora, a che cosa miravano Tizian, Meranda e compagni?
Come avrete capito, siamo di fronte a un intrigo ben più complesso di quello che finora ci è stato raccontato. Siamo davanti a un’operazione che guarda caso prende vita prima delle elezioni europee del 2019 e ha per protagonista un legale molto inserito nella massoneria. Ma di questo ci occuperemo nei prossimi giorni.
Il giudice ha detto stop. Nella vicenda del Metropol non c’è stata alcuna corruzione internazionale e per questo i tre indagati italiani, Gianluca Savoini, ex portavoce di Matteo Salvini, l’avvocato massone Gianluca Meranda e il bancario vicino alla sinistra Francesco Vannucci, il 27 aprile, sono stati prosciolti dal gip Stefania Donadeo. L’ipotesi d’accusa della Procura di Milano, ai tempi in cui era guidata da Francesco Greco, è nota: tra giugno e ottobre del 2018 i tre avrebbero portato avanti insieme con vari soggetti di nazionalità russa una trattativa per acquistare petrolio a prezzo calmierato (con uno sconto tra il 4 e il 6,5 per cento) per poi rivenderlo a tariffa piena così da costituire ipotetici fondi neri da destinare alla Lega. E la pistola fumante di questo affare sarebbe stato un audio reso pubblico nel 2019 dai giornalisti dell’Espresso in cui si sentivano i tre indagati trattare con altrettanti cittadini russi (due identificati dai pm) nella hall dell’hotel Metropol di Mosca. Ma con l’archiviazione, adesso il vero mistero resta uno solo: il nome di chi ha portato al settimanale la registrazione della riunione nell’albergo russo, ampiamente strumentalizzata a fini politici.
Il giudice delle indagini preliminari che ha chiuso l’inchiesta non lo fa e neanche i pm sembrano averlo identificato. Ma quello che appare abbastanza evidente è che a realizzare la registrazione, poi finita nella disponibilità dei cronisti, sia stato il legale di origini calabresi con la passione per grembiulini e compassi.
Chi c’è dietro all’operazione mediatica che doveva azzoppare la Lega di Matteo Salvini in vista delle elezioni europee del 2019? È stata un’iniziativa di Meranda o c’è qualche mandante politico?
Giudice e sostituti procuratori hanno deciso di accettare la fòla che i giornalisti fossero seduti «a un tavolo a fianco a quello dove è avvenuta la conversazione tra gli indagati e i russi». Ma, come abbiamo già scritto, anche se i cronisti in quei giorni sin trovavano a Mosca al seguito del leader del Carroccio, qualcosa non torna. Infatti i due giornalisti non sono stati in grado né di fare una fotografia dell’incontro, né di contare il numero dei partecipanti al summit, tanto da riferire nel Libro nero della Lega che i complottardi erano cinque e non sei, come riferito in un secondo momento sull’Espresso. Inoltre il capitolo sul Metropol è stato quasi nascosto dentro al volume dato alle stampe a febbraio, quattro mesi dopo il famigerato incontro. Perché gli autori dello scoop erano andati a Mosca per documentare quell’abboccamento e, dopo quattro mesi di lavoro, avevano quasi occultato quell’esclusiva? Forse qualcuno aveva consegnato loro l’audio solo a ridosso della chiusura del tomo tra gennaio e febbraio, dopo che l’affare era tramontato? Il file è stato consegnato per vendetta ai giornalisti? Tutti interrogativi rimasti senza risposta.
Il giudice specifica che l’audio non è stato rinvenuto nei cellulari degli indagati, ma che non avrebbe subito manipolazioni. I magistrati sottolineano anche che a consegnare il file in Procura è stato uno dei due cronisti, che la traccia non era stata «registrata da lui direttamente», ma che lo stesso ne «era venuto in possesso». Come, resta un mistero gaudioso.
L’unica cosa che sappiamo è che nella conversazione, pubblicata online in una versione tagliata dai media (per proteggere la fonte?), si odono Meranda e Savoini parlottare dopo essersi allontanati dal tavolo per fumare e che «i due sottolineavano che la circostanza che fosse stata prevista una remunerazione anche per i russi faceva sì che l’affare fosse anche di loro interesse e potessero quindi stare più tranquilli sul buon esito dello stesso». Chi è che registrava? Meranda o Savoini? I magistrati su questo punto sembrano non avere dubbi, anche perché nel telefonino dell’avvocato hanno trovato altre conversazioni captate dallo stesso professionista sia con Vannucci che con altri. Tanto che il gip rimarca che Meranda «pare fosse solito registrare i propri incontri». Con ogni probabilità all’insaputa degli interlocutori.
La Procura e il giudice sembrano concordare anche sulla concretezza della trattativa tra italiani e russi per finanziare la Lega. Anche perché lo studio di Meranda avrebbe ospitato un comitato elettorale di Salvini premier. Un’altra prova granitica? In un audio il lobbista asserisce di non essere interessato al proprio ritorno economico. La domanda sorge, però, spontanea: si tratta di un’affermazione genuina o è inquinata dalla consapevolezza della registrazione in corso? Fatto sta che a un certo punto Meranda, separatamente da Savoini, sembra intavolare un negoziato autonomo per comprare e vendere petrolio. La prova sarebbe una lettera datata 9 agosto 2018 firmata dall’avvocato e indirizzata a Igor Sechin, amministratore delegato dell’azienda petrolifera Rosneft. Scrive il giudice: «Questa lettera si inserirebbe in una diversa trattativa in corso coi russi; un filone diverso rispetto a quello che coinvolge gli altri due indagati (Savoini e Vannucci) e che culmina con l’incontro del 18 ottobre 2018 all’hotel Metropol di Mosca». A che gioco giocava Meranda e chi è davvero questo professionista dalle mille conoscenze? A quanto risulta alla Verità gli investigatori hanno trovato nel cellulare e nel computer dell’avvocato prove dei tentacolari rapporti dell’avvocato calabrese degne di approfondimento e di sicuro interesse giornalistico.
Alla fine a far saltare l’accordo e a salvare i tre indagati, sarebbe stata, per la classica eterogenesi dei fini, «la divulgazione a mezzo stampa della trattativa», ma anche, come era già successo nell’inchiesta per finanziamento illecito nei confronti di Matteo Renzi, la riforma Cartabia. Evidenzia il giudice: «Occorre chiedersi se delle trattative possano integrare un fatto penalmente rilevante». E questa è la risposta della toga: «Reputa il gip che i risultati delle indagini svolte non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna né allo stato si prospetta l’utilità concreta di ulteriori indagini. Tale valutazione particolarmente restrittiva si impone ancor più oggi alla luce delle modifiche introdotte dalla riforma Cartabia che […] ha previsto che il pubblico ministero debba chiedere l’archiviazione “quando gli elementi acquisiti nel corso delle indagini preliminari non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna”». E qui la prognosi è facile facile, visto che per contestare il reato di corruzione internazionale occorre individuare il pubblico ufficiale corrotto o da corrompere. Ma il funzionario in vendita, sempre che ci fosse davvero, non è stato smascherato. Gli indagati in messaggi e conversazioni hanno fatto riferimento a un misterioso signor «K» o Konstantin che, a un certo punto, la Procura aveva identificato nel politico russo Konstantin Kosachev. Ma poi, gli ulteriori sviluppi delle indagini avevano reso «assai più probabile che si trattasse» dell’imprenditore Malofeev, «figura più volte accostata» a quella dell’ideologo Aleksandr Dugin, molto vicino al dossier e alla Lega. Per questo i magistrati hanno alzato bandiera bianca: «L’impossibilità di identificare con precisione i soggetti russi coinvolti nelle trattative descritte e le cariche pubbliche rivestite dagli stessi a causa della mancata risposta della Russia già prima dell’inizio della guerra in Ucraina e l’ancora maggiore improbabilità di ottenere una risposta a seguito del conflitto non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna degli indagati per il reato di corruzione internazionale», si legge nel decreto di archiviazione. Il giudice, pur lanciando una stilettata verso la Lega, ammette che non si può contestare neanche l’ipotesi di erogazioni illegali al Carroccio: «Quanto alla possibilità di poter contestare l’ipotesi di finanziamento illecito, sia pure in forma tentata, occorre evidenziare che è risultato dalle indagini che gli atti posti in essere erano inequivocabilmente diretti verso l’obiettivo finale di finanziare illecitamente la Lega», grazie ai rapporti che Savoini aveva saputo tessere con la Russia. «Tuttavia detti atti» conclude Donadeo, «non possono qualificarsi idonei a raggiungere, almeno potenzialmente, lo scopo, non essendosi conclusa non solo la fase finale di destinazione di una certa percentuale alla Lega, ma neanche l’operazione principale di compravendita di prodotti petroliferi. In definitiva non essendosi perfezionate neppure le prime fasi della trattativa […] l’intera operazione rientra in un proposito criminoso non costituente reato». Resta, forse per sempre, nell’ombra chi volesse affondare Salvini e il suo partito.







