In un mondo in cui i flussi di denaro viaggiano alla velocità di un clic, la Guardia di Finanza è oggi la prima linea di difesa, impegnata a intercettare frodi, truffe online, riciclaggio e movimentazioni sospette che utilizzano criptovalute e piattaforme fintech. Ma quanto è realmente grande questa economia sommersa digitale? E quali sono i nuovi strumenti investigativi che permettono di seguirne le tracce e quali sono le tuffe piu’ diffuse sul web? Ne parliamo con il Generale Antonio Mancazzo Comandante del Nucleo Speciale Tutela Privacy e Frodi Tecnologiche della Guardia di Finanza.
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Azione interforze di Guardia di Finanza, Polizia e Carabinieri. Disposte misure cautelari per 33 persone. Riciclaggio, usura e traffico di armi e stupefacenti i reati dell'associazione a delinquere legata alla cosca «Alvaro» dell'Aspromonte.
Nella mattinata di oggi investigatori della Polizia di Stato (del Servizio Centrale Operativo, della Squadra Mobile e della S.I.S.C.O. di Brescia) e della Guardia di Finanza (del Servizio Centrale I.C.O. e del Nucleo P.E.F. - G.I.C.O. di Brescia) hanno eseguito un’ordinanza di custodia cautelare emessa dal G.I.P. presso il Tribunale di Brescia nei confronti di 25 indagati, residenti nelle province di Brescia, Milano, Reggio Calabria, Como, Lecco, Varese, Viterbo e in Spagna, a carico dei quali è stato inoltre disposto il sequestro preventivo di disponibilità finanziarie e beni per oltre 1.800.000 euro. Contestualmente i Carabinieri del Comando Provinciale di Brescia e dei reparti dell’Arma hanno dato esecuzione ad un’ulteriore misura cautelare sempre nell’ambito del medesimo procedimento penale nei confronti di 8 indagati, tra i quali anche membri della sopracitata associazione per delinquere di matrice ‘ndranghetista, ritenuti a vario titolo presunti responsabili dei reati di detenzione illegale di armi, riciclaggio, usura e ricettazione, aggravati dal metodo mafioso, oltre al reato di detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti. La complessa indagine, coordinata dalla Procura della Repubblica di Brescia - Direzione Distrettuale Antimafia, avviata nel mese di settembre 2020, ha riguardato l’operatività, in territorio bresciano, di un’associazione per delinquere di matrice ‘ndranghetista, originaria di Sant’Eufemia d’Aspromonte (RC), residente da anni in questa provincia e legata da rapporti federativi alla cosca «Alvaro», egemone nella zona compresa tra i comuni di Sinopoli e Sant’Eufemia d’Aspromonte. L’attività investigativa ha permesso di ricostruire l’organigramma del sodalizio che, facendo leva sulla forza di intimidazione che deriva dal vincolo associativo, avrebbe riprodotto, in territorio bresciano, una «locale» in grado di porre in essere le azioni che caratterizzano le associazioni di tipo mafioso, come estorsioni, traffico di armi e stupefacenti, ricettazioni, usura e scambio elettorale politico-mafioso. In particolare, nel corso delle indagini sono emersi i legami e le cointeressenze tra il gruppo investigato e altri gruppi criminali sempre di matrice ‘ndranghetista presenti nell’hinterland bresciano, tra i quali si sarebbe instaurato un rapporto di mutua assistenza finalizzato alla realizzazione di una moltitudine di condotte illecite. Sono stati inoltre documentati i legami tra il sodalizio mafioso e un soggetto con esposizione pubblica, attivo nella comunità bresciana, con il quale il sodalizio avrebbe intrattenuto rapporti caratterizzati dal tipico pactum sceleris dello scambio elettorale politico-mafioso, ovvero l’impegno per il sostegno elettorale del clan con la futura promessa di reciproci illeciti vantaggi economici.
La pervasività delinquenziale della consorteria è stata inoltre dimostrata dalla capacità di penetrare le strutture carcerarie e veicolare messaggi ai detenuti, avvalendosi del sostegno di persone fidate e insospettabili, come quello fornito da una religiosa, che, più volte, avrebbe svolto il ruolo di intermediario tra gli associati e soggetti in detenzione, approfittando dell’incarico spirituale che le consentiva di avere libero accesso alle strutture carcerarie. Parallelamente, il gruppo investigato avrebbe dimostrato di essere in grado di far evolvere le proprie dinamiche economiche, assumendo tutte le caratteristiche delle moderne organizzazioni criminali che operano nel Nord Italia, abbinando ai reati di tipo tradizionale anche delitti di natura economico-finanziaria. Gli associati avrebbero, infatti, promosso, costituito ed etero-diretto una pluralità di imprese «cartiere» e «filtro», operanti nel settore del commercio di rottami che, nel periodo delle indagini, avrebbero emesso nei confronti di imprenditori compiacenti fatture per operazioni inesistenti per un imponibile complessivo di circa 12 milioni di euro, al fine di consentire loro, al netto della provvigione spettante all’associazione, di beneficiare dell’abbattimento del reddito nonché di riciclare il denaro frutto dei reati. A carico dei soggetti indagati sono stati emessi provvedimenti di sequestro preventivo, finalizzati alla confisca per equivalente, per un importo complessivo pari a oltre 1.800.000 euro, quale provento delle condotte penal-tributarie e riciclatorie ipotizzate. Sono attualmente in corso perquisizioni a cura di 300 appartenenti alle tre Forze di Polizia, estese anche alle province di Bergamo, Verona e Treviso, condotte con il supporto di moderni mezzi tecnici del Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato, del Servizio Centrale I.C.O. della Guardia di Finanza e dell’Arma dei Carabinieri nonché delle unità cinofile per la ricerca di armi e droga e «cash dog» - per la ricerca di contanti, in una cornice di sicurezza garantita anche dall’impiego di personale delle U.O.P.I. della Polizia di Stato e di militari specializzati A.T.- P.I. della Guardia di Finanza e dell’Aliquota di Primo Intervento dei Carabinieri. I provvedimenti di oggi sono stati emessi sulla scorta degli elementi probatori allo stato attuale acquisiti, ragione per cui sussiste la presunzione di innocenza sino alla definitività del giudizio.
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La Guardia di Finanza, in concorso con la Polizia di Stato, smaschera un'associazione per delinquere finalizzata a frodi fiscali e riciclaggio aggravata dal metodo mafioso: eseguite 47 misure cautelari personali, sequestri di beni, valori e denaro per 520 milioni di euro. Ricostruite false fatturazioni per 1,3 miliardi di euro.
Su richiesta degli Uffici di Milano e Palermo della Procura Europea (EPPO), il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Milano ha emesso 47 provvedimenti restrittivi - 34 in carcere 9 agli arresti domiciliari e 4 misure interdittive - nei confronti di altrettanti indagati ritenuti responsabili, a vario titolo, di associazione per delinquere finalizzata all’evasione dell’IVA intracomunitaria nel commercio di prodotti informatici e al riciclaggio dei relativi profitti. In relazione alla gestione di alcune società per le quali sono in corso procedure concorsuali, i provvedimenti restrittivi riguardano anche reati fallimentari. Tra i destinatari delle misure di custodia in carcere, anche 7 indagati per i quali è stato emesso il mandato di arresto europeo, 4 dei quali localizzati in Repubblica Ceca, Olanda, Spagna e Bulgaria. E’ stato inoltre disposto nei confronti delle persone e delle società indagate il sequestro preventivo di beni, valori e denaro per oltre 520 milioni di euro, individuato quale profitto complessivo della frode, pari all’Iva evasa, ed il sequestro preventivo per riciclaggio di alcuni complessi residenziali ed immobiliari del valore complessivo di oltre 10 mln di euro siti a Cefalù (PA), nonché di altri compendi immobiliari riconducibili ad alcune delle società, ricadenti nei territori di Chiavari (GE), Bellano (LC), Noli (SV), Cinisello Balsamo (MI) e Milano e Cefalù (PA),
Il Giudice ha riconosciuto a fini cautelari per i vertici del sodalizio criminale la circostanza aggravante di aver agevolato, investendone i profitti nel settore delle frodi all’IVA, consorterie criminali camorristiche e mafiose e di essersi avvalsi del metodo mafioso, soprattutto in chiave di composizione di conflitti nati all’interno del sodalizio a più livelli tra esponenti delle diverse organizzazioni criminali.
L’indagine è il frutto della convergenza di due filoni investigativi originati dai Nuclei di Polizia Economico-Finanziaria di Varese e Milano con EPPO Milano in tema di frodi carosello, e dalla Polizia di Stato – Squadra Mobile di Palermo e SISCO, con il coordinamento investigativo ed operativo del Servizio Centrale Operativo - e dal Nucleo PEF di Palermo, con EPPO Palermo, nell’ambito del quale emergeva la finalizzazione e partecipazione alla commissione di frodi carosello di esponenti della criminalità organizzata di stampo mafioso e camorristico, gestori di alcune delle filiere di società utilizzate nei circuiti già oggetto di indagine di Milano e incaricati, anche, del rinvestimento dei profitti illeciti. I due procedimenti venivano riuniti, consentendo una eccellente sinergia investigativa grazie alla operatività della Procura Europea sull’intero territorio nazionale, consentendo ai Procuratori Europei Delegati di Milano e Palermo di avanzare unitaria richiesta di applicazione di misure cautelari reali e personali, poi accolta dal GIP del Tribunale di Milano.
Sono attualmente in corso oltre 160 perquisizioni in 30 diverse Province presso abitazioni, uffici e aziende riconducibili agli indagati, effettuate anche con l’ausilio di unità cinofile cash dogs della Guardia di Finanza, specializzate nel rinvenimento di banconote nascoste. Sono in tutto 200 le persone fisiche indagate e oltre 400 le società coinvolte, a molte delle quali cui viene contestato l’illecito amministrativo dipendente da tali reati.
Attività esecutive dei provvedimenti restrittivi, perquisizione e sequestro sono in corso nei Paesi Ue interessati dalla frode e, in particolare, in Spagna, Lussemburgo, Repubblica Ceca, Slovacchia, Croazia, Bulgaria, Cipro, Olanda, e in paesi extra unione, come la Svizzera e gli Emirati Arabi.
L’indagine ha riguardato una strutturata frode carosello all’Iva intracomunitaria nel settore del commercio dei prodotti elettronici/informatici che ha investito diversi Paesi europei (Olanda, Lussemburgo, Spagna, Repubblica Ceca, Slovacchia, Bulgaria e Romania), coinvolgendo anche 20 società estere, e ha riguardato alcuni esponenti della criminalità organizzata siciliana e campana i quali, intravedendo gli ingenti profitti del business delle frodi carosello, ne sono entrati a far parte fornendo provviste finanziarie, riciclando i proventi di altre attività criminali.
Le frodi carosello vengono realizzate sfruttando il regime di non imponibilità ai fini Iva previsto per le operazioni commerciali intracomunitarie, interponendo in un’operazione tra imprese di Paesi diversi un soggetto economico fittizio, la cosiddetta «cartiera» (o società fantasma o missing trader), che acquista la merce dal fornitore comunitario senza l’applicazione dell’Iva per poi rivenderla ad un’impresa nazionale (anch’essa coinvolta nella frode) con l’applicazione dell’Iva ordinaria italiana. È in questa fase si realizza la condotta fraudolenta, in quanto la società «cartiera», invece di vendere la merce maggiorata del proprio utile e versare l’Iva incassata dalla sua cessione, la vende sottocosto senza versare all’Erario l’imposta indicata sulla relativa fattura emessa. La missing trader, infatti, sprovvista di strutture operative e di dipendenti, di norma gestita da prestanome, senza adempiere ad alcun obbligo fiscale oltre quello di emettere fatture soggettivamente false, dopo una breve vita (massimo 2 anni) viene fatta cessare e sostituita da altra impresa dalle analoghe caratteristiche.
Questo schema fraudolento consente di immettere sul mercato nazionale beni a prezzi molto concorrenziali e prevede, di norma, ulteriori passaggi in cui la merce viene venduta, sempre sottocosto, a favore di altre imprese italiane (c.d. filtro o buffer), inserite nel circuito con l’esclusiva finalità di rendere più difficile l’identificazione dello schema e dei suoi beneficiari finali, rappresentati dalle società dette broker, ovvero le imprese effettivamente operative che, acquistando il prodotto dalla buffer con applicazione dell’Iva, vantano nei confronti dell’Erario il credito Iva corrispondente. L’effetto finale è quello di rivendere la merce sul mercato interno, approfittando del prezzo d’acquisto artificiosamente concorrenziale, oppure rivenderla all’estero spesso alle stesse aziende comunitarie (dette conduit) che hanno originato la catena commerciale vendendo originariamente alla missing trader, per far sì che il carosello ricominci.
Il danno per l’Unione Europea è costituito dall’Iva indicata nelle fatture emesse dalle missing traders che hanno acquistato la merce senza applicare l’imposta e che la collocano sul mercato nazionale applicandola invece al compratore, senza però versarla all’Erario, ma ripartendola tra i complici della frode.
Imponenti i numeri delle imprese coinvolte nella frode scoperta: 269 missing traders, 55 buffer, 28 società broker e 52 conduit estere, per un volume complessivo di fatture soggettivamene false pari a 1,3 miliardi di euro, nel solo quadriennio 2020-2023.
L’azione esprime l’impegno delle Forze di polizia intervenute e della Procura Europea nel contrasto alle frodi all’Iva e, più in generale, all’evasione fiscale, che costituisce un grave ostacolo allo sviluppo economico stante l’effetto distorsivo della libera concorrenza, al contempo il contrasto alla criminalità economica ed organizzata consente di intercettare e reprimere ogni forma di inquinamento dell’economia legale, permettendo altresì di restituire alla collettività, attraverso il sequestro dei patrimoni illeciti, le ricchezze accumulate nel tempo dalla criminalità.
Il procedimento penale, tuttavia, è ancora nella fase delle indagini preliminari e, pertanto, è necessario tenere conto della presunzione di non colpevolezza degli indagati sino al giudizio definitivo.
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Gianfranco Fini, con i suoi avvocati durante la sentenza del processo sulla compravendita della casa a Montecarlo, presso il tribunale di Roma (Ansa)
L’ex presidente della Camera si becca 2 anni e 8 mesi per l’incredibile vicenda dell’immobile donato al partito da una contessa. Cinque anni a Elisabetta Tulliani e al padre di lei, sei al fratello: per tutti e tre arriva anche l’interdizione perpetua dai pubblici uffici.
Da «sono stato un coglione» a «è tutta una cazzata» il passo è breve. L’ex presidente della Camera Gianfranco Fini, già segretario del Movimento sociale italiano traghettato in Alleanza nazionale e nel Pdl, si era definito con i giornali un pirla per la vicenda della casa di Montecarlo, venduta di fatto dal partito presieduto da Fini al cognato Giancarlo Tulliani, schermato da una serie di società paravento per circa 300.000 euro e rivenduta a 1,36 milioni di dollari nel 2015. L’inchiesta ruotava intorno agli affari del re delle slot machine e del gioco d’azzardo legale, il catanese Francesco Corallo, uomo dalle discutibili amicizie, prescritto a marzo dalle accuse e le cui macchinette entrarono in Italia (la società aveva il quartier generale alle Antille olandesi), conquistando, anche a colpi di decreti legge, un mercato da decine di milioni di euro, anche grazie ai buoni uffici della famiglia Tulliani.
Ma ieri, dopo la condanna a 2 anni e 8 mesi di reclusione e 2.800 euro di multa per aver concorso al riciclaggio di denaro legato alla compravendita della casa di Montecarlo, l’ex leader della destra italiana ha liquidato quasi con fastidio la sentenza, commentando la decisione con gli agenti della Penitenziaria al gabbiotto d’ingresso del Tribunale. E a noi che gli chiedevamo una battuta, dopo le dichiarazioni rilasciate a giornali e agenzie in aula con un filo di voce, ha regalato uno sprezzante: «Se non ha sentito si compri un apparecchio acustico». Grazie presidente, provvederemo.
Non era andata meglio al collega del Corriere della Sera che gli aveva chiesto di commentare la frase della contessa Anna Maria Colleoni «sulla buona battaglia», lo spirito con cui la donna aveva ceduto al partito il mezzanino monegasco finito tra le proprietà del rapace cognato. Dopo il quesito, Fini, che stava lasciando l’aula, si è voltato, ha storto la bocca e ha incenerito con lo sguardo in tralice il cronista. Non una, ma due volte a rimarcare il disprezzo. Poi è uscito, accompagnato dal codazzo di avvocati. Protetto dalla Polizia si è nascosto dietro a una porta a vetri a commentare la sentenza. Poi il telefono ha iniziato a trillare. E lui ha iniziato a rispondere. Mentre un’agente chiedeva ai cronisti con cellulari e telecamere sguainate «un po’ di riservatezza». Venti minuti di decompressione prima di lasciare il Tribunale a bordo di una Bmw 730 D, un gioiellino da circa 100.000 euro. Un’auto noleggiata dall’avvocato Michele Sarno, da anni l’ombra di Fini. L’inchiesta Rouge et noir è iniziata nel 2014, gli arresti di alcuni imputati sono scattati nel 2016, il dibattimento in aula è iniziato nel 2018.
Alle 11:19 di martedì 30 aprile 2024, la presidente del collegio giudicante Roberta Palmisano, affiancata dai colleghi Salvatore Iulia e Riccardo Rizzi, ha letto la sentenza. Un rosario di 5 minuti che già dopo pochi secondi bastona Fini come «responsabile del reato di cui al capo E limitatamente al segmento di condotta relativo all’autorizzazione alla vendita di un appartamento sito nel Principato di Monaco», pur escludendo l’aggravante della transnazionalità del reato e riconoscendo le circostanze attenuanti generiche. Nel succitato capo E veniva contestato il riciclaggio a Fini, al manager di Francesco Corallo, Rudolf Baetsen (condannato ieri a 8 anni), a Giancarlo ed Elisabetta Tulliani. La colpa dell’ex vicepremier? L’acquisto della casa di Montecarlo è stato «consentito dall’autorizzazione alla vendita da parte di Gianfranco Fini all’epoca presidente della Camera dei deputati e massimo esponente del partito Alleanza nazionale», autorizzazione che avrebbe concesso con la «consapevolezza dell’incongruità del prezzo rispetto al valore di mercato». Non è più accusato di essere beneficiario al pari dei Tulliani del ricavato della vendita dell’immobile. È stato assolto anche per altri tre episodi di riciclaggio («per non aver commesso il fatto») e uno di reimpiego di fondi illeciti («perché il fatto non costituisce reato»). Per questo la condanna, rispetto alla richiesta dei pm di 8 anni, è scesa a 2 anni e 8 mesi. I giudici considerano le diverse imputazioni come un unico illecito, escludendo per tutti gli imputati la continuazione, che può portare a triplicare l’entità della pena, e l’aggravante della transnazionalità del reato.
Alla fine Giancarlo Tulliani è stato condannato a 6 anni per due capi di imputazione, compreso il riciclaggio legato alla compravendita della casa di Montecarlo, e a 6.000 euro di multa. La sorella Elisabetta è stata, invece, punita per l’intera condotta del capo E con 5 anni e 5.000 euro di multa. Come il padre Sergio, inchiodato, però, per un fatto diverso. Per tutti e tre sono cadute altre imputazioni, in particolare per i due fratelli, in tre casi, perché «il fatto non costituisce reato». Per quanto riguarda i soldi ricevuti dalle Antille olandesi o ricavati dalla vendita del mezzanino, ai tre Tulliani sono state confermate le confische di conti correnti, beni immobili e mobili per un valore complessivo di 2,4 milioni di euro nei confronti di papà Sergio, per oltre 993.000 euro ai danni di Giancarlo, per 793.000 e rotti nei confronti di Elisabetta. I tre sono stati interdetti in modo perpetuo dai pubblici uffici e dalla possibilità, sino all’esecuzione della pena, di svolgere i compiti di tutore e curatore, fatta salva la responsabilità genitoriale. La parte offesa del processo, ovvero i Monopoli dello Stato, che non hanno chiesto la condanna di Fini, dovranno essere risarciti dai Tulliani e da Baetsen con un importo da stabilire in altro giudizio.
La Procura aveva chiesto 10 anni di condanna per il cognato d’Italia, Giancarlo, 9 per Elisabetta e 5 per il babbo. L’ex presidente, dopo che la compagna Tulliani aveva provato a prendersi tutte le colpe e l’Avvocatura dello Stato aveva chiesto di non condannarlo, aveva fatto la bocca all’assoluzione. E, invece, gli è rimasto attaccato addosso quel maledetto «segmento» del capo E. Anche se l’avvocato Myriam Caroleo Grimaldi puntualizza: «A Fini è stato dato il minimo della pena e c’è stata la massima estensione delle attenuanti generiche».
La mattinata era iniziata apparentemente in modo sereno. Verso le 9:30 il collegio annuncia di ritirarsi in camera di consiglio per un’ora, un’ora e mezza. Fini è l’unico imputato in aula. Indossa una giacca a quadri blu fiordaliso, camicia bianca, cravatta azzurra, pantaloni grigi. Quando i giudici si allontanano, si dirige a prendere un caffè nel bar di fronte al Tribunale. Verso le 10:40 si riaccomoda alla sbarra, circondato dai suoi avvocati, Michele Sarno, Francesco e Myriam Caroleo Grimaldi. I legali intrattengono i numerosi giornalisti con aneddoti vari. Fini tace. Caroleo Grimaldi spiega: «Sono teso come una corda di violino e lui è peggio di me». Alle 11:02 l’avvocato Donato Santoro, con vezzosa montatura bianca degli occhiali, rifornisce la prima fila di bottigliette d’acqua. Fini la sceglie naturale. Sarno spiega che cosa sia un podcast e i legali convengono che, con la tecnologia, le lettere di carta non esistono più.
Arriva la pm Margherita Pinto, camiciola leggera a pois e Converse ai piedi. Si aggira agitata per l’aula. Alle 11:05 Fini si alza per andare a fumare una sigaretta. Lo seguiamo. Ci presentiamo. Fini fa una smorfia terrificante: «Ah lei è della Verità, uhm bravo». Gli ricordiamo che siamo stati anche in trattativa per un’intervista. Replica: «Per carità, trattative ce ne sono a iosa». Quindi aggiunge: «Deve riconoscere che non ho rilasciato interviste a nessuno». Chiediamo come stia vivendo questa vigilia e Fini replica: «Abbiamo un’infinita pazienza». Domandiamo agli avvocati un pronostico e questi svicolano: «Tra poco i pronostici saranno annullati dalla sentenza». Fini discetta sulla scaramanzia dei legali. Alle 11:15 il gruppetto rientra. Il politico sorseggia un po’ d’acqua e attende. Alle 11:18 sopraggiunge di corsa la pm con una borsetta a tracolla. Un minuto dopo entrano i giudici. Letta la sentenza, i giornalisti partono all’assalto: «Presidente crede di aver pagato una pena troppo alta?». Per Fini rispondono gli avvocati: «Sentenza pilatesca»; «assolutamente ingiusta»; «è rimasta in piedi una sola contestazione, una cosa la dovevano dare». Come se la condanna fosse un boccone di carne gettato in pasto all’opinione pubblica.
Le difese proseguono nel loro ragionamento: «Siamo fortemente fiduciosi che in Appello anche questo ultimo piccolo segmento cadrà e l’esito sarà liberatorio sotto tutti gli aspetti». Un cronista domanda: «È possibile la prescrizione del reato?». «Osservazione correttissima» commenta uno dei legali, «perché potrebbe essere assolutamente prescritto, bisogna vedere la qualificazione giuridica del fatto, leggeremo le motivazioni», Una giornalista strilla: «Scusi presidente Fini, ma non può fare parlare solo gli avvocati». «È molto deluso da questa giornata?» azzarda un altro. L’ex presidente, dritto in piedi al suo banco, accetta di parlare davanti alle telecamere. Ma lo fa con un filo di voce, quasi impercettibile. Le agenzie riportano queste sue parole: «Ricordo a me stesso che per analoga vicenda una denuncia a mio carico fu archiviata dalla procura di Roma. Me ne vado più sereno di quello che si può pensare dopo 7 anni di processi». La vocina continua: «È giusto avere fiducia nella giustizia, certo se fosse un po’ più sollecita. Dopo tanto parlare, dopo tante polemiche, tante accuse, tanta denigrazione da un punto di vista politico sono responsabile di cosa? Di aver autorizzato la vendita. In cosa consista il reato non mi è chiaro». E ancora: «Non sono deluso. Non sono stato ritenuto responsabile di riciclaggio, evidentemente l’unica cosa che ha impedito di assolvermi è l’autorizzazione alla vendita dell’appartamento che è del tutto evidente che non è stata da me autorizzata». L’ex ministro degli Esteri, alle 11:35, un quarto d’ora dopo aver ascoltato la propria condanna, si allontana dall’aula. Chi scrive, pensando di parlare con un collega delle agenzie, sollecita: «Andiamo a vedere dove va». L’uomo al nostro fianco, che non è un giornalista, ha pronta la risposta: «Sta andando affanc…». Sic transit gloria mundi. Alle 11:40 gli avvocati, dopo un breve pausa di riflessione, hanno affilato le loro armi dialettiche: «In pratica Fini è accusato di concorso morale» spiega l’avvocato Caroleo Grimaldi. Iniziano complicati calcoli per capire se i reati siano prescritti. Il legale di Giancarlo e Sergio Tulliani, Manlio Morcella, è sicuro: «È venuta meno l’aggravante della transnazionalità e per questo la prescrizione arriverà molto prima». E per chi non avesse capito, aggiunge: «Si tratta di pene virtuali, perché è tutto sul punto di essere prescritto». Poi con un comunicato rincara la dose, denunciando presunti errori procedurali: «Il processo è da ritenersi viziato in modo insanabile». Morcella contesta il processo alla radice: i soldi finiti sui conti dei Tulliani non sarebbero il provento del riciclaggio, da cui il riciclatore Corallo non avrebbe guadagnato nulla, ma il premio per una fruttuosa attività di lobbying. Sebbene un po’ mascherata. Per qualche mese sull’inchiesta ha aleggiato anche l’ombra della corruzione, collegata ai decreti legge favorevoli, con tanto di bonifici ad hoc. Ma quella pista non ha dato frutti. Dentro all’aula sono rimasti solo pochi giornalisti che stanno scrivendo i loro pezzi. Dalla camera di consiglio fa capolino un uomo delle pulizie. Alto e risoluto, annuncia: «A mezzogiorno io devo chiudere l’aula». Perché alla fine anche il processo del decennio diventa solo una stanza da rassettare.
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