2024-05-01
Fini condannato: riciclaggio
Gianfranco Fini, con i suoi avvocati durante la sentenza del processo sulla compravendita della casa a Montecarlo, presso il tribunale di Roma (Ansa)
L’ex presidente della Camera si becca 2 anni e 8 mesi per l’incredibile vicenda dell’immobile donato al partito da una contessa. Cinque anni a Elisabetta Tulliani e al padre di lei, sei al fratello: per tutti e tre arriva anche l’interdizione perpetua dai pubblici uffici.Da «sono stato un coglione» a «è tutta una cazzata» il passo è breve. L’ex presidente della Camera Gianfranco Fini, già segretario del Movimento sociale italiano traghettato in Alleanza nazionale e nel Pdl, si era definito con i giornali un pirla per la vicenda della casa di Montecarlo, venduta di fatto dal partito presieduto da Fini al cognato Giancarlo Tulliani, schermato da una serie di società paravento per circa 300.000 euro e rivenduta a 1,36 milioni di dollari nel 2015. L’inchiesta ruotava intorno agli affari del re delle slot machine e del gioco d’azzardo legale, il catanese Francesco Corallo, uomo dalle discutibili amicizie, prescritto a marzo dalle accuse e le cui macchinette entrarono in Italia (la società aveva il quartier generale alle Antille olandesi), conquistando, anche a colpi di decreti legge, un mercato da decine di milioni di euro, anche grazie ai buoni uffici della famiglia Tulliani.Ma ieri, dopo la condanna a 2 anni e 8 mesi di reclusione e 2.800 euro di multa per aver concorso al riciclaggio di denaro legato alla compravendita della casa di Montecarlo, l’ex leader della destra italiana ha liquidato quasi con fastidio la sentenza, commentando la decisione con gli agenti della Penitenziaria al gabbiotto d’ingresso del Tribunale. E a noi che gli chiedevamo una battuta, dopo le dichiarazioni rilasciate a giornali e agenzie in aula con un filo di voce, ha regalato uno sprezzante: «Se non ha sentito si compri un apparecchio acustico». Grazie presidente, provvederemo. Non era andata meglio al collega del Corriere della Sera che gli aveva chiesto di commentare la frase della contessa Anna Maria Colleoni «sulla buona battaglia», lo spirito con cui la donna aveva ceduto al partito il mezzanino monegasco finito tra le proprietà del rapace cognato. Dopo il quesito, Fini, che stava lasciando l’aula, si è voltato, ha storto la bocca e ha incenerito con lo sguardo in tralice il cronista. Non una, ma due volte a rimarcare il disprezzo. Poi è uscito, accompagnato dal codazzo di avvocati. Protetto dalla Polizia si è nascosto dietro a una porta a vetri a commentare la sentenza. Poi il telefono ha iniziato a trillare. E lui ha iniziato a rispondere. Mentre un’agente chiedeva ai cronisti con cellulari e telecamere sguainate «un po’ di riservatezza». Venti minuti di decompressione prima di lasciare il Tribunale a bordo di una Bmw 730 D, un gioiellino da circa 100.000 euro. Un’auto noleggiata dall’avvocato Michele Sarno, da anni l’ombra di Fini. L’inchiesta Rouge et noir è iniziata nel 2014, gli arresti di alcuni imputati sono scattati nel 2016, il dibattimento in aula è iniziato nel 2018. Alle 11:19 di martedì 30 aprile 2024, la presidente del collegio giudicante Roberta Palmisano, affiancata dai colleghi Salvatore Iulia e Riccardo Rizzi, ha letto la sentenza. Un rosario di 5 minuti che già dopo pochi secondi bastona Fini come «responsabile del reato di cui al capo E limitatamente al segmento di condotta relativo all’autorizzazione alla vendita di un appartamento sito nel Principato di Monaco», pur escludendo l’aggravante della transnazionalità del reato e riconoscendo le circostanze attenuanti generiche. Nel succitato capo E veniva contestato il riciclaggio a Fini, al manager di Francesco Corallo, Rudolf Baetsen (condannato ieri a 8 anni), a Giancarlo ed Elisabetta Tulliani. La colpa dell’ex vicepremier? L’acquisto della casa di Montecarlo è stato «consentito dall’autorizzazione alla vendita da parte di Gianfranco Fini all’epoca presidente della Camera dei deputati e massimo esponente del partito Alleanza nazionale», autorizzazione che avrebbe concesso con la «consapevolezza dell’incongruità del prezzo rispetto al valore di mercato». Non è più accusato di essere beneficiario al pari dei Tulliani del ricavato della vendita dell’immobile. È stato assolto anche per altri tre episodi di riciclaggio («per non aver commesso il fatto») e uno di reimpiego di fondi illeciti («perché il fatto non costituisce reato»). Per questo la condanna, rispetto alla richiesta dei pm di 8 anni, è scesa a 2 anni e 8 mesi. I giudici considerano le diverse imputazioni come un unico illecito, escludendo per tutti gli imputati la continuazione, che può portare a triplicare l’entità della pena, e l’aggravante della transnazionalità del reato.Alla fine Giancarlo Tulliani è stato condannato a 6 anni per due capi di imputazione, compreso il riciclaggio legato alla compravendita della casa di Montecarlo, e a 6.000 euro di multa. La sorella Elisabetta è stata, invece, punita per l’intera condotta del capo E con 5 anni e 5.000 euro di multa. Come il padre Sergio, inchiodato, però, per un fatto diverso. Per tutti e tre sono cadute altre imputazioni, in particolare per i due fratelli, in tre casi, perché «il fatto non costituisce reato». Per quanto riguarda i soldi ricevuti dalle Antille olandesi o ricavati dalla vendita del mezzanino, ai tre Tulliani sono state confermate le confische di conti correnti, beni immobili e mobili per un valore complessivo di 2,4 milioni di euro nei confronti di papà Sergio, per oltre 993.000 euro ai danni di Giancarlo, per 793.000 e rotti nei confronti di Elisabetta. I tre sono stati interdetti in modo perpetuo dai pubblici uffici e dalla possibilità, sino all’esecuzione della pena, di svolgere i compiti di tutore e curatore, fatta salva la responsabilità genitoriale. La parte offesa del processo, ovvero i Monopoli dello Stato, che non hanno chiesto la condanna di Fini, dovranno essere risarciti dai Tulliani e da Baetsen con un importo da stabilire in altro giudizio.La Procura aveva chiesto 10 anni di condanna per il cognato d’Italia, Giancarlo, 9 per Elisabetta e 5 per il babbo. L’ex presidente, dopo che la compagna Tulliani aveva provato a prendersi tutte le colpe e l’Avvocatura dello Stato aveva chiesto di non condannarlo, aveva fatto la bocca all’assoluzione. E, invece, gli è rimasto attaccato addosso quel maledetto «segmento» del capo E. Anche se l’avvocato Myriam Caroleo Grimaldi puntualizza: «A Fini è stato dato il minimo della pena e c’è stata la massima estensione delle attenuanti generiche». La mattinata era iniziata apparentemente in modo sereno. Verso le 9:30 il collegio annuncia di ritirarsi in camera di consiglio per un’ora, un’ora e mezza. Fini è l’unico imputato in aula. Indossa una giacca a quadri blu fiordaliso, camicia bianca, cravatta azzurra, pantaloni grigi. Quando i giudici si allontanano, si dirige a prendere un caffè nel bar di fronte al Tribunale. Verso le 10:40 si riaccomoda alla sbarra, circondato dai suoi avvocati, Michele Sarno, Francesco e Myriam Caroleo Grimaldi. I legali intrattengono i numerosi giornalisti con aneddoti vari. Fini tace. Caroleo Grimaldi spiega: «Sono teso come una corda di violino e lui è peggio di me». Alle 11:02 l’avvocato Donato Santoro, con vezzosa montatura bianca degli occhiali, rifornisce la prima fila di bottigliette d’acqua. Fini la sceglie naturale. Sarno spiega che cosa sia un podcast e i legali convengono che, con la tecnologia, le lettere di carta non esistono più. Arriva la pm Margherita Pinto, camiciola leggera a pois e Converse ai piedi. Si aggira agitata per l’aula. Alle 11:05 Fini si alza per andare a fumare una sigaretta. Lo seguiamo. Ci presentiamo. Fini fa una smorfia terrificante: «Ah lei è della Verità, uhm bravo». Gli ricordiamo che siamo stati anche in trattativa per un’intervista. Replica: «Per carità, trattative ce ne sono a iosa». Quindi aggiunge: «Deve riconoscere che non ho rilasciato interviste a nessuno». Chiediamo come stia vivendo questa vigilia e Fini replica: «Abbiamo un’infinita pazienza». Domandiamo agli avvocati un pronostico e questi svicolano: «Tra poco i pronostici saranno annullati dalla sentenza». Fini discetta sulla scaramanzia dei legali. Alle 11:15 il gruppetto rientra. Il politico sorseggia un po’ d’acqua e attende. Alle 11:18 sopraggiunge di corsa la pm con una borsetta a tracolla. Un minuto dopo entrano i giudici. Letta la sentenza, i giornalisti partono all’assalto: «Presidente crede di aver pagato una pena troppo alta?». Per Fini rispondono gli avvocati: «Sentenza pilatesca»; «assolutamente ingiusta»; «è rimasta in piedi una sola contestazione, una cosa la dovevano dare». Come se la condanna fosse un boccone di carne gettato in pasto all’opinione pubblica.Le difese proseguono nel loro ragionamento: «Siamo fortemente fiduciosi che in Appello anche questo ultimo piccolo segmento cadrà e l’esito sarà liberatorio sotto tutti gli aspetti». Un cronista domanda: «È possibile la prescrizione del reato?». «Osservazione correttissima» commenta uno dei legali, «perché potrebbe essere assolutamente prescritto, bisogna vedere la qualificazione giuridica del fatto, leggeremo le motivazioni», Una giornalista strilla: «Scusi presidente Fini, ma non può fare parlare solo gli avvocati». «È molto deluso da questa giornata?» azzarda un altro. L’ex presidente, dritto in piedi al suo banco, accetta di parlare davanti alle telecamere. Ma lo fa con un filo di voce, quasi impercettibile. Le agenzie riportano queste sue parole: «Ricordo a me stesso che per analoga vicenda una denuncia a mio carico fu archiviata dalla procura di Roma. Me ne vado più sereno di quello che si può pensare dopo 7 anni di processi». La vocina continua: «È giusto avere fiducia nella giustizia, certo se fosse un po’ più sollecita. Dopo tanto parlare, dopo tante polemiche, tante accuse, tanta denigrazione da un punto di vista politico sono responsabile di cosa? Di aver autorizzato la vendita. In cosa consista il reato non mi è chiaro». E ancora: «Non sono deluso. Non sono stato ritenuto responsabile di riciclaggio, evidentemente l’unica cosa che ha impedito di assolvermi è l’autorizzazione alla vendita dell’appartamento che è del tutto evidente che non è stata da me autorizzata». L’ex ministro degli Esteri, alle 11:35, un quarto d’ora dopo aver ascoltato la propria condanna, si allontana dall’aula. Chi scrive, pensando di parlare con un collega delle agenzie, sollecita: «Andiamo a vedere dove va». L’uomo al nostro fianco, che non è un giornalista, ha pronta la risposta: «Sta andando affanc…». Sic transit gloria mundi. Alle 11:40 gli avvocati, dopo un breve pausa di riflessione, hanno affilato le loro armi dialettiche: «In pratica Fini è accusato di concorso morale» spiega l’avvocato Caroleo Grimaldi. Iniziano complicati calcoli per capire se i reati siano prescritti. Il legale di Giancarlo e Sergio Tulliani, Manlio Morcella, è sicuro: «È venuta meno l’aggravante della transnazionalità e per questo la prescrizione arriverà molto prima». E per chi non avesse capito, aggiunge: «Si tratta di pene virtuali, perché è tutto sul punto di essere prescritto». Poi con un comunicato rincara la dose, denunciando presunti errori procedurali: «Il processo è da ritenersi viziato in modo insanabile». Morcella contesta il processo alla radice: i soldi finiti sui conti dei Tulliani non sarebbero il provento del riciclaggio, da cui il riciclatore Corallo non avrebbe guadagnato nulla, ma il premio per una fruttuosa attività di lobbying. Sebbene un po’ mascherata. Per qualche mese sull’inchiesta ha aleggiato anche l’ombra della corruzione, collegata ai decreti legge favorevoli, con tanto di bonifici ad hoc. Ma quella pista non ha dato frutti. Dentro all’aula sono rimasti solo pochi giornalisti che stanno scrivendo i loro pezzi. Dalla camera di consiglio fa capolino un uomo delle pulizie. Alto e risoluto, annuncia: «A mezzogiorno io devo chiudere l’aula». Perché alla fine anche il processo del decennio diventa solo una stanza da rassettare.