Nuovo approccio dell'istituto di credito rivolto alle imprese pronte ad operazioni di finanza straordinaria. Le interviste a Stefano Barrese, Marco Gianolli e Alessandro Fracassi.
Guido Guidesi, assessore allo Sviluppo Economico della Regione Lombardia (Ansa)
Fontana: «Danni per tutto il Paese». Guidesi: «No alla centralizzazione delle risorse».
Se i partiti della maggioranza Ursula sono contro la riforma del budget presenta dalla stessa Ursula von der Leyen, anche la Lombardia non ci sta. Due settimane fa, davanti al Parlamento Europeo a Bruxelles, la Regione ha alzato la voce contro quella che molti considerano una delle più gravi minacce all’autonomia dei territori: il taglio e la centralizzazione dei fondi di coesione. L’assessore allo Sviluppo economico, Guido Guidesi, ha guidato la delegazione lombarda alla manifestazione promossa dalla «Cohesion Alliance», la rete di regioni che si oppone appunto al progetto della Commissione Ue di ridurre le risorse destinate alle aree più dinamiche d’Europa per riportarle sotto un rigido controllo centrale. «Se andasse in porto questo disegno – ha denunciato Guidesi – la Lombardia perderebbe 4,4 miliardi di euro, risorse che oggi investiamo in modo virtuoso per sostenere imprese, formazione e ricerca. Tagliare i fondi di coesione significa colpire lo sviluppo e l’innovazione. È una scelta insensata che contrasteremo con forza». Un allarme, quello dell’assessore regionale, che però va ben oltre i numeri. Per lui, la decisione della Commissione rappresenterebbe «la cancellazione dell’unico legame diretto tra Bruxelles e i territori».
E dietro il linguaggio tecnocratico delle «riforme di governance» si nasconderebbe, in realtà, una logica centralista che vede nelle Regioni quasi un fastidio da ridimensionare. Perché poi non si tratta solo di tagliare i soldi, ma anche la gestione autonoma delle stesse. La Lombardia verrebbe infatti costretta a passare attraverso lo Stato centrale per accedere ai fondi, con tutte le lentezze e le incognite che questo comporta. «Vorrebbe dire attendere i tempi di Roma – ha ironizzato Guidesi – e non ce lo possiamo permettere. Il nostro sistema economico-sociale ha bisogno di tempi “lombardi”, non di procedure infinite. Penalizzare i territori virtuosi significa rallentare tutto il Paese». Il tema è stato rilanciato anche al Consiglio regionale di Confcooperative Lombardia, qualche giorno fa, dove Guidesi ha ribadito che i fondi europei rappresentano la linfa vitale per politiche di sviluppo, innovazione e inclusione, in un contesto in cui i trasferimenti statali continuano a diminuire. «Se ci tolgono anche questa leva – ha spiegato – la capacità della Lombardia di sostenere imprese, cooperazione e ricerca sarà drasticamente ridotta».
I numeri in ballo sono enormi: l’Assessorato allo Sviluppo Economico lombardo ha deliberato lo stanziamento di 720 milioni di euro nell’ambito della Programmazione comunitaria. Già metà circa, 370 milioni, di questi fondi sono stati concessi, finiti a oltre 8.200 beneficiari. Di che progetti stiamo parlando? Ad esempio, «Contributi per la partecipazione delle Pmi alle fiere internazionali in Lombardia», investimenti «Linea Green» alle imprese, misure «per il rafforzamento di filiere ed ecosistemi» o «per la transizione digitale» della piccole e medie aziende. «Se i fondi di coesione vengono gestiti direttamente da Roma, è chiaro che la nostra funzione innanzitutto viene meno perché gran parte delle nostre politiche non le potremmo realizzare, ma soprattutto rischia di venir meno il modello lombardo di governo con una gravissima ripercussione per la Lombardia, ma anche per tutto il Paese», ha detto più volte il governatore Attilio Fontana. «Ci stiamo battendo», gli ha risposto domenica scorsa Tommaso Foti, ministro degli Affari Europei. Anche se par di capire che tutta la partita sia in mano alla Cdu tedesca, vero ago della bilancia delle decisioni politiche europee.
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2025-10-07
Denis Nesci: «Le Pmi soffrono della frammentazione Ue, vanno liberate da burocrazia e ostacoli»
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(Totaleu)
Lo ha dichiarato l'eurodeputato di Fratelli d'Italia in un intervento durante la sessione plenaria del Parlamento europeo di Strasburgo.
Regina Corradini (Imagoeconomica)
Iniziativa della società di Cdp per sostenere le esportazioni. Più contributi a fondo perduto per Pmi e ditte con sede al Sud.
Ieri Simest, la società del gruppo Cassa depositi e prestiti per l’internazionalizzazione delle imprese italiane, ha annunciato l’avvio della piena operatività del «Pacchetto India», un programma da 500 milioni di euro a supporto dell’export e degli investimenti delle imprese italiane nel mercato indiano. In particolare, il pacchetto comprende 200 milioni di euro in nuovi finanziamenti agevolati, a valere sul Fondo 394/81 gestito dalla società guidata dall’ad e dg Regina Corradini D’Arienzo per conto del ministero degli Esteri, e 300 milioni di euro in credito all’export dedicato al mercato indiano, già attivati nei mesi scorsi.
«Le nuove misure messe in campo da Simest, promosse sotto la regia della Farnesina e in coordinamento con Cassa depositi e prestiti, rappresentano un passo concreto e strategico per sostenere la capacità delle imprese italiane di rafforzare la loro presenza nei mercati a più alto potenziale, come quello indiano», ha detto Regina Corradini D’Arienzo. «Queste iniziative si inseriscono pienamente nell’azione coordinata del Sistema Italia, guidato dal ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale (che coinvolge Cdp, Simste, Ice) con l’obiettivo di facilitare ed intensificare gli investimenti a supporto dell’internazionalizzazione, con un focus specifico sulle Pmi e sul Mezzogiorno».
Le risorse del «Pacchetto India» sono destinate sia alle imprese già esportatrici sia a quelle che non hanno ancora avviato attività di export, al fine di supportare progetti di investimento, esportazione e anche importazione collegati all’India. L’iniziativa si inserisce nel quadro del Piano d’azione per l’export promosso dalla Farnesina, volto a rafforzare in modo strutturale la capacità delle imprese italiane di consolidarsi nei mercati internazionali a più alto potenziale, tra cui l’India.
La misura prevede anche un contributo a fondo perduto fino al 20% per le Pmi, le startup innovative e le imprese con sede nel Mezzogiorno, e del 10% per tutte le altre aziende. I finanziamenti coprono un ampio ventaglio di spese legate alla crescita sul mercato asiatico: dal rafforzamento patrimoniale agli investimenti in innovazione, dalla transizione digitale ed ecologica alla formazione di personale locale. Sono ammissibili anche costi per trasferte in Italia di partner indiani, attività di ricerca di partner commerciali, sviluppo di nuove opportunità di business, partecipazione a eventi di matchmaking e apertura di temporary store.
L’intervento di Simest si colloca nella strategia italiana di espansione verso i mercati emergenti. Nel 2025 il governo ha lanciato un piano per l’export che individua l’Asia-Pacifico come area prioritaria, puntando a portare l’export complessivo a 700 miliardi di euro. In questo contesto l’India, economia emergente di primo piano, è considerata un partner fondamentale per la crescita del Made in Italy, grazie a una popolazione giovane in forte crescita e a politiche aperte agli investimenti esteri.
Nel 2024 l’export italiano verso l’India ha raggiunto i 5,2 miliardi di euro, collocando il Paese al quinto posto tra le destinazioni del Made in Italy in Asia-Pacifico. L’interscambio commerciale annuo tra i due Paesi ammonta a circa 14,2 miliardi di euro. Nel 2025 si sono inoltre tenuti un Forum imprenditoriale a New Delhi (aprile) e un Business forum a Brescia (giugno) con la partecipazione di centinaia di aziende. Questi incontri, dedicati ai settori tecnologici strategici, hanno ulteriormente consolidato i legami economici bilaterali.
A conferma dell’impegno sul mercato indiano, ad aprile 2025 il gruppo ha inaugurato una sede di rappresentanza in India, segnale concreto della volontà di rafforzare stabilmente la presenza del Sistema Italia nel Paese. Le risorse mobilitate con il Pacchetto India testimoniano la sinergia tra Farnesina e gruppo Cdp nel sostenere un Made in Italy competitivo sui mercati globali.
Il «Pacchetto India» si affianca, inoltre, a due nuove misure introdotte lo scorso agosto. La prima riguarda i finanziamenti agevolati per la transizione digitale ed ecologica: l’accesso è stato esteso anche alle imprese non direttamente esportatrici, purché parte di filiere orientate all’export. In questo modo si amplia la platea dei beneficiari, sostenendo investimenti strategici sia in Italia sia all’estero. La seconda misura è il contributo export su credito fornitore, che consente di agevolare lo sconto di fatture commerciali con pagamenti dilazionati a medio-lungo termine (almeno 24 mesi).
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(Imagoeconomica)
I dati diffusi dalla Cgia di Mestre sono impietosi: i dipendenti di Stellantis nel nostro Paese sono ridotti al lumicino. Le Pmi creano posti di lavoro, non le grandi dinastie.
«Gli addetti nell’artigianato presenti nella ex provincia di Milano sono il triplo degli occupati che lavorano nel nostro Paese alle dipendenze del gruppo Stellantis. Se, infatti, la Città metropolitana del capoluogo regionale lombardo può contare su poco più di 134.000 addetti nell’artigianato, la casa automobilistica, invece, dà lavoro a 43.000 persone distribuite su gran parte del territorio nazionale». Questo è quanto ci dice l’ultimo documento pubblicato tre giorni fa dalla Cgia di Mestre.
Questi dati potrebbero provocare l’ilarità di qualcuno e anche un senso di altezzoso disprezzo per l’incomparabilità dei dati dell’artigianato con quelli di una ex grande industria. Ma sarebbe l’atteggiamento proprio di chi non guarda alla realtà dei fatti, ma legge la realtà cercando conferme alle proprie idee. In tema di macchine, l’ultima dimostrazione di questo modo di vedere le cose e di leggere l’economia sta nella vicenda dell’auto elettrica a livello europeo, con riflessi tragici anche a livello nazionale. Tutto a favore della Cina, ma questo è un altro discorso sul quale, se avete tempo, andate a vedere quel che ne dice il professor Romano Prodi: capirete così molte di queste strategie.
Il punto di vista dal quale guardare questa notizia, che proviene dall’ufficio Studi degli artigiani di Mestre, guidato dal bravo Paolo Zabeo, è quello contrario al piagnisteo che abbiamo dovuto subire per decenni, in Italia, sul presunto sottodimensionamento delle imprese e sulla necessità di ripensare al sistema industriale dando vita (senza che nessuno abbia mai spiegato con quali soldi, pubblici o privati, e in quali settori) a grandi industrie nazionali, ai famosi «campioni» che avrebbero avuto il compito di apportare alla nostra economia ciò che le piccole e medie imprese non potevano arrivare a realizzare. Mentre questi intelligentoni continuavano a fracassarci gli attributi con queste litanie insopportabili, le Pmi (cioè oltre il 97% delle imprese italiane) davano lavoro, creavano occupazione, creavano ricchezza e in più - come se non bastasse - eccellevano anche all’estero dando un contributo fondamentale al Pil italiano attraverso un export formidabile. Questa è la fotografia vera dell’Italia: delle imprese che hanno retto l’economia e i redditi negli ultimi decenni.
Con questo non vogliamo sostenere che la presenza di grandi imprese italiane non rappresenterebbe un obiettivo desiderabile, ma la realtà dei fatti ci dice che queste imprese hanno succhiato soldi dallo Stato a mani basse senza neanche il minimo afflato di riconoscenza nei confronti dell’Italia. Chi volesse approfondire il tema può leggere il libro di Mario Giordano, Dinasty (Rizzoli), dove vengono descritti con precisione sia i soldi che quattro imprese hanno acchiappato sia l’attuale situazione di disinteresse, se non di disprezzo, nei confronti del Paese che li ha foraggiati alla greppia dei soldi pubblici. Si tratta della famiglia Benetton (vedi vicenda ponte Morandi), della famiglia ex Agnelli, ora lupi in quella Stellantis guidata fino a qualche tempo fa dall’indimenticabile Carlos Tavares che ha fatto più danni della grandine con le piogge di agosto e settembre nei vigneti, della famiglia Del Vecchio che ancora non ha risolto i problemi relativi all’eredità e si gingilla nel fiume di miliardi dai quali è stata travolta e, infine, della famiglia De Benedetti dove addirittura il padre, anche lui grande fruitore di quattrini pubblici (basti pensare all’introduzione dei registratori di cassa ad hoc per l’azienda), ha messo in piazza i problemi famigliari esprimendo disprezzo verso i figli definiti come incapaci e ora e divenuto giocatore in Borsa (come sempre: niente attività industriale, se non marginale). Quest’ultimo, con dottissimi articoli, ha tentato di indottrinarci sulla necessità di mantenere le grandi imprese come assi portanti dell’economia italiana. All’invettiva segue l’esempio contrario: come livello di coerenza non c’è male.
Chi, nei decenni scorsi qualcuno, si azzardava a sostenere che la piccola e media impresa era un bene da tutelare perché reggeva gran parte dell’economia italiana, veniva tacciato di passatismo e nostalgia di un mondo che doveva andare oltre. Se quell’oltre è quello in cui lo stanno portando le citate famiglie italiane, noi continuiamo a preferire il prima e, soprattutto, avevamo palesemente ragione a sostenere le nostre tesi contro le loro.
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