Gli Usa sono primo esportatore mondiale di LNG. La Cina consolida il primato nel clean-tech. Africa e Sud-est asiatico in difficoltà. Petrolio, surplus o carenza? India, Cina e Russia, la geopolitica domina l’energia.
Una petroliera russa in navigazione (Getty Images)
Le sanzioni volute da Biden a fine mandato bloccano un quarto della flotta ombra dello zar. E innescano la corsa al mercato regolare. Il Cremlino conferma: «C’è la volontà politica di un incontro The Donald-Putin».
Venerdì 10 gennaio il governo americano ha deciso di applicare un nuovo round di sanzioni sul petrolio russo, che non mancheranno di farsi sentire sui prezzi, almeno nel breve termine. Con un piede già fuori dalla Casa Bianca, il presidente uscente Joe Biden, con un atto dell’Office of foreign assets control (Ofac), che fa parte del Dipartimento del Tesoro americano, ha deciso di sanzionare due compagnie russe, la Surgutneftegas e Gazprom Neft, oltre a una ventina di aziende loro sussidiarie. Inoltre, ha sanzionato un elenco di 183 navi, in gran parte petroliere che fanno parte della cosiddetta flotta ombra (shadow fleet) e petroliere di proprietà di operatori di flotte con sede in Russia. Inoltre, l’Ofac ha sanzionato due fornitori di assicurazioni marittime, alcuni trader, diverse aziende che forniscono servizi per la produzione di petrolio e una serie di persone fisiche (funzionari del settore petrolifero). Si tratta di un ventaglio particolarmente robusto di sanzioni, come sinora non si era visto. Queste hanno l’effetto di bloccare di fatto le attività di esportazione del petrolio russo. Almeno fino a che i russi troveranno delle alternative per aggirare anche questo blocco.
Trattandosi di un mercato parallelo non ufficiale, è difficile avere un’idea chiara delle quantità e dei prezzi del petrolio russo circolato nel 2024, ma le stime concordano nell’individuare in circa 600 le petroliere che fanno parte della flotta ombra russa. Con le nuove sanzioni, circa un quarto della flotta ombra verrebbe bloccata, il che significa che verrebbero a mancare dall’offerta mondiale circa 700.000 barili di petrolio al giorno, forse anche un milione di barili al giorno. Si tratta di un ammanco non particolarmente preoccupante che nel giro di qualche mese può essere assorbito dalla maggiore produzione, ad esempio, dell’Opec. Proprio il cartello dei Paesi produttori negli ultimi due anni ha faticato a limitare la propria produzione per sostenere i prezzi, mentre la domanda di petrolio restava stabile e gli Stati Uniti facevano crescere la produzione. Questo è uno dei motivi per cui le sanzioni arrivano adesso: «Non ci consideriamo più vincolati dalla scarsa offerta sui mercati globali come lo eravamo quando è stato svelato il meccanismo del tetto massimo dei prezzi», ha detto Geoffrey Pyatt, assistente segretario statunitense per le risorse energetiche presso il Dipartimento di Stato. Stati Uniti, Canada e altri Paesi produrranno di più quest’anno e dunque, secondo Washington, l’impatto sui prezzi sarà limitato. Vi è anche un aspetto di politica interna: finita la campagna elettorale, Biden non teme più i rialzi del prezzo della benzina.
Circa la metà del petrolio russo trasportato nel 2024 dalle navi appena sanzionate era finito in Cina (300 milioni di barili), mentre il resto era andato per la gran parte in India. Dati confermati, grosso modo, dai trader cinesi. Già nel mese di dicembre Cina (che acquista greggio russo di qualità Espo Blend) e India (che compra petrolio Urals) avevano aumentato gli ordini di greggio dal Medio Oriente, contribuendo a far salire i prezzi di riferimento del petrolio di Dubai.
Oltre a influire sui prezzi nel breve termine, le nuove sanzioni cambiano la situazione del mercato mondiale dell’approvvigionamento, con Cina e India costrette a ridurre l’import dalla Russia e dall’Iran. I due grandi Paesi asiatici erano diventati il mercato di sbocco preferenziale per il greggio russo dopo le sanzioni del G7 di due anni fa. La Cina non intende esacerbare le tensioni con gli Usa e già nei giorni scorsi ha vietato l’attracco nei propri porti delle petroliere che trasportano greggio iraniano, sanzionato dagli Usa. Se decidesse di applicare lo stesso criterio, la Cina dovrà comprare greggio mediorientale o africano, che costerà di più rispetto al super scontato greggio russo che sfuggiva al price cap imposto dal G7. Per i Brics si tratta di una frattura interna di non poco conto. Le nuove sanzioni sono anche uno strumento negoziale molto potente nelle mani di Trump, che può negoziare sui fronti caldi (Cina, Russia, Iran) partendo da una posizione di forza.
Saliranno anche i costi dei noli delle petroliere: la corsa al traffico «regolare» di petrolio renderà le petroliere regolari più ricercate, facendone salire il costo. Il rischio di un rallentamento della produzione russa esiste, e questo cambierebbe gli scenari. L’Opec vedrebbe rilassare le tensioni interne, visto che molti Paesi del cartello spingono per aumentare la produzione. La Cina e l’India sarebbero costrette a rivolgersi ai mercati regolari, alimentando (direttamente o indirettamente) la spinta di Donald Trump alla produzione statunitense.
Intanto, a proposito di Trump, il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha detto ieri che «non ci sono preparativi concreti» in corso per un incontro tra il presidente eletto americano e Vladimir Putin, ma c’è «una dichiarata comprensione e volontà politica, perché tali contatti sarebbero molto, molto necessari e auspicabili. Esamineremo ulteriormente dopo che l’amministrazione a Washington sarà cambiata». Il tema è naturalmente quello della guerra in Ucraina. Michael Waltz, consigliere per la sicurezza nazionale del presidente eletto degli Stati Uniti, ha affermato ieri che è probabile una telefonata Trump-Putin «nei prossimi giorni o nelle prossime settimane. Sarebbe un passo, ci muoveremo da lì», ha spiegato Waltz in un’intervista.
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Ansa
Gli Stati dell’Unione comprano ancora metano liquido da Vladimir Putin. Gli idrocarburi arrivano attraverso le triangolazioni con i Paesi terzi. Aumenta addirittura lo scambio di combustibile nucleare.
A due anni dall’inizio della guerra in Ucraina, l’Europa si è affrancata in gran parte dalla relazione energetica dalla Russia. Ma la separazione non è ancora definitiva e per alcuni aspetti l’Europa dipende ancora da Mosca.
L’embargo sui prodotti petroliferi e sul carbone, oltre al taglio quasi totale delle forniture di gas, ha portato l’Unione europea a ridurre la fattura energetica dalla Russia dai 10 miliardi di euro mensili del 2021 a circa 2 miliardi di euro al mese nel 2023. Tuttavia, le forniture dalla Russia sono ancora importanti per l’Europa.
Per quanto riguarda il gas, ufficialmente non vi sono mai state sanzioni sul gas proveniente da Mosca, ma progressivamente i flussi via gasdotto sono diminuiti dai 155 miliardi di metri cubi del 2021 ai 27 miliardi di metri cubi del 2023, con un calo dell’83%. La rinuncia al gas russo, sancita dal pacchetto REpowerEU della primavera del 2022, la successiva diminuzione dei flussi attraverso il Nord Stream e il successivo sabotaggio dello stesso gasdotto hanno poi messo la pietra tombale sulle residue speranze tedesche di mantenere una relazione proficua con la Russia. Gli Stati membri dell’Ue hanno speso in due anni più di 800 miliardi di euro per sostenere l’economia, travolta dai prezzi alti dell’energia. Ad oggi però arrivano ancora in Europa circa 85 milioni di metri cubi di gas al giorno, la metà circa attraverso la direttrice ucraina e l’altra metà attraverso il gasdotto Turkstream, che porta il gas in Bulgaria. Si tratta in proiezione di un totale di circa 28 miliardi di metri cubi all’anno. Inoltre, paradossalmente è aumentato l’import dalla Russia di gas naturale liquefatto (LNG), dai 13 miliardi di metri cubi del 2021 ai 18 miliardi di metri cubi del 2023 (+38%).
Già da qualche settimana il commissario europeo per l’energia, Kadri Simson, ha detto che l’Unione europea non intende rinnovare l’accordo a tre con la Russia per il trasporto di gas attraverso l’Ucraina. Concetto ribadito due giorni fa al termine del Consiglio energia. Questo farebbe mancare tra i 12 e i 14 miliardi di metri cubi all’anno di gas. È vero che nel frattempo l’Europa ha diversificato le fonti e, strapagando, si è dotata di nuovi rigassificatori per aumentare la liquidità del mercato, così come è vero che gli stoccaggi sono ancora abbastanza pieni da non destare preoccupazioni. Tuttavia, nessuno in Europa parla del Turkstream e dei 14 miliardi di metri cubi di gas che ancora arrivano in Bulgaria e del Lng che nel frattempo l’Europa ancora compra dalla Russia. Se il divorzio dal gas di Mosca fosse totale e immediato, verrebbero a mancare circa 45 miliardi di metri cubi di gas all’anno, e sarebbero dolori.
Per quanto riguarda il petrolio, in Europa da dicembre 2022 è vietata l’importazione dalla Russia di greggio, mentre sugli altri prodotti petroliferi come diesel e benzina l’embargo è in vigore dal febbraio 2023. L’Ue è passata dai 10,9 miliardi di euro di import dalla Russia di petrolio e prodotti del marzo 2023 a circa 800 milioni di euro nel gennaio 2024. Contemporaneamente, è salita di molto l’importazione in Europa da fornitori alternativi come Norvegia, Stati Uniti, Kazakistan, Arabia Saudita, India, Emirati Arabi e Turchia. Prima dell’embargo, dalla Russia proveniva circa il 25% del greggio e il 40% del diesel. Oggi la quota è sotto il 5% in entrambi i casi.
Va detto però che l’ascesa di India, Emirati, Kazakistan e Turchia come fornitori alternativi dell’Europa nasconde una semplice verità, ovvero la triangolazione dei flussi di idrocarburi russi attraverso paesi terzi che li «ripuliscono». La Russia ha mantenuto sostanzialmente inalterate le proprie esportazioni, non solo per via delle triangolazioni, ma anche perché in forza del price cap imposto dai Paesi del G7 il suo petrolio è diventato estremamente competitivo e si è fatto strada in nuovi importanti mercati, come la Cina. Ad oggi, quindi, l’embargo occidentale e il price cap imposto non hanno leso gli interessi russi quanto si desiderava. Si stima che l’impatto negativo per le casse di Mosca sia di circa 10 miliardi di dollari all’anno. È difficile avere dati certi, tuttavia è abbastanza chiaro che se cessassero le triangolazioni e i transiti di petrolio attraverso flotte di navi «fantasma», di cui da mesi si è verificata l’esistenza, l’Europa sarebbe in netta difficoltà.
Per quanto riguarda il carbone, l’Ue ne ha ridotto lievemente il consumo, e dall’agosto 2022 ha rapidamente sostituito la Russia come fornitore con il Sudafrica e con gli Stati Uniti.
Quello di cui si parla poco o per nulla è lo scambio di combustibile nucleare tra Ue e Russia. Si tratta di valori non enormi, circa un miliardo di euro nel 2023, ma in netta crescita (+86%) dal 2021. Il commercio con la russa Rosatom, controllata dal Cremlino, è cresciuto soprattutto per i servizi di conversione e arricchimento dell’uranio. Nel 2022, Rosatom ha fornito circa il 30% dell’uranio arricchito utilizzato in Ue, dove non meno di venti centrali nucleari, tutte nell’Est europeo, dipendono dai servizi della società russa. Per poter tagliare i rapporti con Rosatom, l’Ue dovrebbe utilizzare le scorte attuali, che secondo Euratom darebbero ai paesi europei una autonomia di tre anni. Oggi vi sono due società europee che operano nel settore già su grossi volumi: Urenco, antico consorzio tra Germania, Gran Bretagna e Olanda, e Orano, la ex Areva, francese. In previsione però di nuove centrali nucleari, un addio ai servizi di Rosatom comporterebbe la necessità di nuova capacità produttiva. In alternativa, esiste l’americana Westinghouse, che già fornisce l’Ucraina e inizierà presto la fornitura a Repubblica Ceca, Slovacchia e Bulgaria.
Dunque, mentre si proclama il perseguimento dell’indipendenza energetica dalla Russia, sul gas si tace a proposito di LNG e del Turkstream, su petrolio e prodotti petroliferi si finge di non vedere triangolazioni e flotte fantasma, mentre di uranio arricchito non si parla affatto. Missione compiuta, ma non proprio.
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Massimo Nicolazzi (Imago economica)
L’economista Massimo Nicolazzi che insegna Risorse energetiche a Torino: «Ci sono interi settori, come cemento e acciaio, che non riescono a funzionare con l’elettricità. La transizione rapida aumenterà le disuguaglianze sociali».
«Possiamo fare a meno del fossile? La risposta oggi è: tecnicamente ancora no». Massimo Nicolazzi non è uno che, su questo tema, possa esprimere giudizi affrettati. Docente di Economia delle risorse energetiche a Torino, ha scritto uno splendido Elogio del petrolio per Feltrinelli e ha accumulato una esperienza trentennale nel settore energetico, lavorando per compagnie come Eni e Lukoil. Non può essere definito in alcun modo - nemmeno dai più fanatici - un «negazionista». Semplicemente si limita a mettere in fila alcuni dati di fatto. E a fare presenti i costi sociali di una transizione ecologica brutale come quella che ci viene imposta oggi.
«Il fossile per essere sostituito dalle rinnovabili ha bisogno di essere distribuito da generazione elettrica», ci spiega. «Le rinnovabili e il nucleare riusciamo a usarli solo in forma elettrica. Ci sono alcuni settori dove questo non è ancora completamente possibile, i settori cosiddetti hard to abate: acciaio, trasporti pesanti, cementifici. Lì ancora senza fossile non si va in temperatura, o non ci si va a sufficienza. Su tutto il resto, in buona parte, tecnicamente ci potremmo essere, però dobbiamo ricordarci che non basta cambiare la fonte, bisogna cambiare anche i convertitori».
Ovvero?
«Tutti i convertitori oggi sono alimentati a fossile: dalle turbine parlando di cose grosse, al gas di cucina, al boiler. Siamo in un mondo che si avvia verso i 9 miliardi di persone: la sostituzione dei convertitori non mi sembra possibile per domani mattina. In ogni caso, per cambiarli si renderebbero necessari degli aiuti, nel senso che la signora Gina non passa dalla cucina a gas alla cucina a convenzione giusto perché è animata da sano spirito verde».
Alla signora Gina però viene detto che deve farlo proprio per difendere la natura e fermare il riscaldamento globale.
«Io rimpiango i tempi in cui eravamo un popolo di commissari tecnici, perché adesso che siamo diventati prima un popolo di virologi e poi di climatologi mi sembra che la situazione stia un po’ peggiorando dal punto di vista dell’informazione. Riguardo al riscaldamento globale abbiamo alcuni dati verificati: sappiamo che è vero che c’è più anidride carbonica nell’atmosfera, che è vero che le acque degli oceani si alzano di qualche millimetro all’anno, e che è vero che dall’inizio dell’altro secolo a oggi la temperatura è cresciuta grosso modo di un grado e mezzo o giù di lì. Nessuno discute questo e nessuno discute del fatto che l’anidride carbonica e i gas serra nell’atmosfera creino un problema di rifrazione, cioè riscaldano. Va tenuto anche presente che senza anidride carbonica nell’atmosfera non saremmo qui, perché la Terra avrebbe una temperatura costante inferiore ai -17°, quindi l’esistenza dell’homo sapiens non sarebbe neanche cominciata».
Come sa sul tema del riscaldamento non è esattamente vero che ci sia accordo totale.
«C’è disaccordo su quanto del caldo sia colpa nostra e quanto sia colpa di fenomeni climatici, solari eccetera che non siamo in grado di analizzare e di valutare compiutamente. Ma questo lo lascerei al dibattito fra gli scienziati: l’Ipcc dice è tutta colpa nostra, qualche autorevole voce dice che non è vero. Io da non scienziato mi permetto di dire: speriamo che sia colpa nostra, perché in questo caso potremmo provare ad agire in qualche modo».
Nel suo libro lei sostiene che esistano due risposte possibili: mitigazione e adattamento.
«Mitigazione significa meno anidride carbonica in atmosfera. Ma se non ho gli strumenti per produrre in maniera decarbonizzata, come faccio? L’unica forma di attenuazione che ho rispetto ad esempio a un cementificio è chiuderlo. Prendiamo un altro caso. Se le acque si alzano posso - come già hanno fatto gli olandesi - costruire dighe. Ma di nuovo: io che non sono un finanziere i soldi per fare la diga che salva Manhattan li trovo in una notte, mentre i soldi per la diga che salva Mogadiscio un po’ meno. Capisce? C’è una sperequazione tra quelli che possono e quelli che non possono adattarsi».
Se capisco bene lei sta dicendo: non tutti sarebbero in grado di attuare le politiche di adattamento richieste in nome della lotta al mutamento climatico.
«Dobbiamo anche considerare che c’è adattamento e adattamento: nel libro mi sono permesso di scrivere che, oltre alla riduzione delle emissioni, ci sarebbe un problema di inquinamento, di salvaguardia del nostro territorio. Posto che i fondi non sono infiniti, bisogna dare priorità alla salvaguardia del suolo e fare interventi che si rendono necessari. Se al posto delle dighe oggi dobbiamo fare invasi, serve un piano nazionale per gli invasi. Ecco, queste sono forme di adattamento che mi trovano assolutamente d’accordo e che anzi mi sembrano prioritarie rispetto ad altre».
Il problema con il riscaldamento globale è il seguente: non solo ci viene detto che esiste ed è colpa nostra, ma che dobbiamo agire subito costi quel che costi.
«Sì ma se si chiama transizione è perché deve appunto essere una transizione. L’appello all’immediatezza è - per tacer d’altro - socialmente disastroso. Se lei interviene con tassazioni, obblighi d’acquisto o altre misure pesanti (divieti e quant’altro) sulla spesa delle famiglie, ottiene effetti devastanti. Si ricordi che i gilet gialli sono nati in Francia a seguito di un aumento della benzina venduto come carbon tax. In democrazia per fare la transizione energetica, oltre ai capitali e alla tecnologia, ci vuole anche un po’ di consenso. Il consenso c’è se noi riusciamo ad andare verso un programma di decarbonizzazione che non acceleri e non aumenti le diseguaglianze sociali che già stiamo scontando. Si tratta di un processo necessariamente progressivo».
Di questo processo potrebbe fare parte il nucleare. Potrebbe risolvere molti problemi per il passaggio all’elettrico, ma ogni volta che viene evocato... Apriti cielo.
«Tanto per cominciare dovremmo cercare di evitare di fare come i tedeschi che han chiuso il nucleare per aumentare temporaneamente il carbone...».
Appunto.
«Il nucleare è oggetto di una delle tante guerre di religione a mio avviso piuttosto noiose che animano, si fa per dire, il parlar di clima e di decarbonizzazione in questo periodo. A me piacerebbe affrontare il tema in maniera molto laica».
Faccia pure.
«Dobbiamo in effetti considerare che oggi qualche difficoltà legata a tempo e soldi l’abbiamo. Le ultime centrali nucleari realizzate in Europa - ce n’è una in Inghilterra in costruzione, ce n’è una in Francia, finalmente ne hanno fatta una in Finlandia - non si riescono a costruire in meno di 15 anni. Si dice che ce la faremo in cinque, ma poi si chiude in 15 o 18, e con costi raddoppiati o triplicati rispetto a quelli iniziali. Qualcuno mi dice: sì, ma in Cina le fanno in cinque o sei anni. Sì, appunto: lo fanno in Cina. Noi non abbiamo le stesse modalità di permitting e di organizzazione. Quindi il nucleare non è una sine cura, allo Stato può essere costoso».
Ma?
«Ma se vogliamo porci laicamente il tema del nucleare dobbiamo passare attraverso una domanda semplicissima: riusciremo a fare a meno dei fossili? E ci riusciremo senza il nucleare? Se qualcuno pensa davvero che nel 2050 si possa andare solo a fonti intermittenti o rinnovabili e comunque non producenti anidride carbonica, allora fa bene a dire no al nucleare».
Però non è uno scenario realistico.
«Appunto. Tuttavia anche gli scettici devono rendersi conto che il tema non è nucleare contro rinnovabili. Semmai è nucleare contro petrolio e carbone. Se non si riesce a utilizzare solo rinnovabili come si fa? Si preferisce continuare a bruciare carbone o, pur sapendo che ci si impiegherà quindici anni, si vuole iniziare a pensare a una nuova capacità nucleare?».
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Getty images
Ad aprile 8,3 milioni di barili al giorno, l’80% a Cina e India. Valdis Dombrovskis e Josep Borrell: «Sanzioni eluse, agiremo». Arrestato per corruzione il capo della Corte suprema di Kiev.
Altro che crollo dell’export grazie alle sanzioni: le esportazioni di petrolio della Russia vanno a gonfie vele e in aprile hanno raggiunto il livello più alto dall’inizio della guerra in Ucraina, toccando gli 8,3 milioni di barili al giorno, 50.000 in più di marzo, con un ricavo di 15 miliardi di dollari. Quasi l’80% delle spedizioni di greggio verso Cina e India, secondo quanto riporta l’Agenzia internazionale per l’energia (Iea). Tuttavia, i ricavi di aprile 2023 sono calati.
«I proventi delle esportazioni di petrolio del Paese sono stati inferiori del 27% rispetto a un anno fa, mentre le entrate fiscali dal settore del petrolio e del gas sono diminuite del 64% su base annua», segnala l’Iea. La discese, nonostante i volumi in salita, è causata dal calo delle quotazioni sui mercati internazionali, con il brent sceso del 31% negli ultimi 12 mesi, e dail tetto al prezzo del petrolio varato dal G7.
A far marciare le esportazioni russe, dopo il veto occidentale, sono principalmente Cina, India e Turchia. L’Indian oil company, in particolare, lo scorso marzo ha firmato un’intesa con la compagnia petrolifera russa Rosneft per aumentare l’importazione di petrolio. Così, il greggio russo finisce comunque sul mercato europeo e statunitense, ma passando per le raffinerie indiane. La triangolazione permette in sostanza di aggirare le sanzioni imposte dall’Ue. La questione è stata sollevata anche dall’Alto rappresentante dell’Unione Europea per la Politica estera, Josep Borrell, che in un’intervista al Financial Times ha dichiaro che l’Ue e gli Stati membri devono agire per impedire tale pratica. «Stiamo discutendo di sanzioni, nuove sono in arrivo, ma anche una maggiore attenzione all’attuazione di quelle presenti». haconfermato il vicepresidente esecutivo della Commissione europea, Valdis Dombrovskis, alla riunione dell’Ecofin, «Stiamo anche esaminando alcune entità nazionali che stanno aiutando ad aggirare le sanzioni e come affrontare meglio questo problema. E chiaramente le dogane hanno un ruolo importante da svolgere in questo senso», ha aggiunto.
Intanto, in Ucraina, le autorità anticorruzione hanno arrestato il capo della Corte suprema ucraina, Vsevolod Knyazev mentre riceveva una mazzetta da 3 milioni di dollari. In manette anche altre due persone coinvolte, mentre altri 18 giudici sono stati perquisiti. «Questo è il più grande caso di sempre che coinvolge la magistratura», ha dichiarato il capo dell’Ufficio nazionale anticorruzione ucrain, che ha paragonato un gruppo di giudici della Corte suprema, coinvolti nell’indagine, a un «gruppo criminale». Secondo gli inquirenti, il miliardario ed ex parlamentare ucraino Kostiantyn Zhevago avrebbe offerto la tangente ai funzionari del tribunale per emettere una sentenza che gli permettesse di mantenere il controllo delle azioni di una società mineraria che è al centro di una disputa con gli ex azionisti. Zhevago si trova attualmente in Francia, dove è stato arrestato a dicembre. Kiev sta cercando di ottenere la sua estradizione.
Sul campo, invece, infuria ancora la battaglia per Bakhmut, dove le forze ucraine avrebbero ripreso circa 20 km quadrati.
Nella notte tra lunedì e martedì, le forze di difesa aeree ucraine hanno abbattuto un numero ingente di attacchi missilistici russi lanciato verso la capitale Kiev. Novità anche sul fronte dilpmatico: Volodymyr Zelenksy è stato infatti invitato dal re saudita bin Salman al summit di Gedda, come ospite d’onore.
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