Il segretario di Stato Usa Antony Blinken, impegnato nel delicato viaggio in Medio Oriente (venerdì era a Tel Aviv e sabato ad Amman), è arrivato ieri mattina a Ramallah, in Cisgiordania, dove ha incontrato il presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) Abu Mazen. A lui ha presentato il piano americano sostenuto dai Paesi arabi - Arabia Saudita in testa - che non è osteggiato da Israele e che prevede un governo unico tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania presieduto dall’Anp. Ma cosa c’è di concreto nel piano ambizioso di Blinken? In primo luogo c’è l’eliminazione da Hamas da Gaza, poi l’intervento di una forza di pace dell’Onu con la presenza certa di militari arabi per garantire la sicurezza e la gestione di Gaza post conflitto, infine l’affidamento all’Anp del governo della Striscia. Previsto anche l’incentivo economico con lo scongelamento di tutti i finanziamenti stanziati ai quali accederebbe anche la Cisgiordania. Se ciò avvenisse la strada per un negoziato di pace sarebbe spianata, così come potrebbe essere realtà il «due popoli, due Stati». Fin qui il contesto e i passaggi chiave, ma cosa pensa di tutto questo Abu Mazen? Secondo l’agenzia Wafa il presidente dell’Anp ha affermato: «L’Autorità nazionale palestinese si assumerà tutte le sue responsabilità per Cisgiordania, Gerusalemme est e Gaza nel quadro di una soluzione politica globale. La sicurezza e la pace si ottengono ponendo fine all’occupazione israeliana del territorio dello Stato di Palestina, con la sua capitale Gerusalemme Est, ai confini del 1967». Nell’incontro avvenuto a Ramallah Abu Mazen ha anche detto: «Respingiamo categoricamente lo sfollamento del nostro popolo palestinese fuori Gaza, Cisgiordania o Gerusalemme». Il segretario di Stato americano ha risposto al presidente dell’Anp che «i palestinesi di Gaza non devono essere sfollati con la forza». Poi Abu Mazen ha ribadito a Blinken che «ci deve essere un cessate il fuoco immediato a Gaza affinché gli aiuti umanitari possano entrare nella Striscia». Qui c’è il deciso «no» del premier israeliano Benjamin Netanyahu: «Non ci sarà cessate il fuoco fino al ritorno dei nostri ostaggi. Lo abbiamo detto ai nostri amici e nemici. Andremo avanti finché non li avremo sconfitti». A Blinken non è rimasto altro che prendere atto e di seguito sostenere la decisione del suo principale alleato in Medio Oriente tanto che ha dichiarato «un cessate il fuoco ora aiuterebbe solo Hamas a riorganizzarsi e preparare altri 7 ottobre». È evidente però che la missione di Blinken ha buone possibilità di successo perché a parte l’Iran persino il Qatar ha capito che per Hamas non ci sarà più spazio nella Striscia. In tal senso il viaggio a Doha dello scorso 30 ottobre di David Barnea, direttore del Mossad, non è servito solo per parlare del rilascio degli ostaggi in mano ad Hamas ma anche per discutere dei futuri assetti della Striscia di Gaza. In precedenza lo stesso Blinken aveva anticipato agli emiri di Doha - grandi protettori e finanziatori della Fratellanza musulmana - che Washington si aspetta che dopo il conflitto i leader di Hamas che vivono come nababbi a Doha non vengano più ospitati nel Paese, e a sorpresa si erano sentiti rispondere «siamo disposti a parlarne». Quindi se il Qatar è favorevole al piano Usa che vede al centro l’Anp, cosa faranno i Fratelli musulmani? La domanda è d’obbligo, tuttavia, la risposta non è affatto semplice visto che Hamas e le sue Brigate Ezzedin al-Qassam sono il braccio armato della Fratellanza che non può certo scaricare la sua creatura che oltretutto finanzia. Qui però per capire bisognerà attendere cosa dirà stamattina a Blinken il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, a sua volta fratello musulmano. Si tratta di un passaggio non di poco conto visto che Erdogan dall’inizio della crisi si è proposto come il grande difensore del popolo palestinese e per questo ha anche aizzato la sua popolazione contro Israele. In tal senso l’arrivo in Turchia di Blinken è stato preceduto da una manifestazione denominata «Convoglio della libertà per la Palestina» davanti alla base militare americana di Incirlik (provincia di Adana) che ha visto il tentativo di alcuni facinorosi di entrare nella roccaforte, in cui trovano posto 90 ordigni nucleari. La polizia ha dovuto usare gas lacrimogeni e idranti per disperdere i manifestanti ma chi conosce la Turchia sa bene che nulla avviene a caso. Chi non abbandonerà di certo Hamas è l’Iran, come visto ieri con l’incontro di Teheran tra la guida suprema Ali Khamenei e il capo dell’ufficio politico di Hamas, Ismail Haniyeh, assieme ad una delegazione. «La politica permanente della Repubblica islamica dell’Iran è di sostenere le forze della resistenza palestinese contro i sionisti occupanti. I crimini del regime sionista a Gaza sono direttamente sostenuti dagli Usa e da alcuni governi occidentali» ha scritto Khamenei su X dopo l’incontro. Sempre a proposito di Iran Mohammad Reza Ashtiani, ministro della Difesa, sul canale Telegram dell’agenzia Tasnim ha minacciato gli States: «Il nostro consiglio agli americani è di fermare immediatamente la guerra e di attuare un cessate il fuoco, altrimenti verrete colpiti duramente». Evidente il riferimento alle basi Usa nella regione a cominciare da quelle in Iraq, già colpite nelle scorse settimane dai miliziani fedeli a Teheran.
Si può fare la pace con qualcuno che vuole fare la guerra? La risposta è ovvia. Ma è anche la spiegazione del perché in Palestina finora non si è raggiunta alcuna tregua e probabilmente mai si riuscirà ad arrivarvi. Forse, fino a metà degli anni Novanta un armistizio era possibile, perché dopo oltre mezzo secolo di conflitti fra arabi e israeliani, l’idea che si dovesse giungere a un compromesso aveva cominciato a prendere piede. Era il 13 settembre del 1993 quando Yitzhak Rabin e Yasser Arafat si strinsero la mano nel cortile della Casa Bianca. Ma due anni dopo un estremista ebreo uccise Rabin e il vertice successivo, a Camp David, tra lo stesso capo dell’Olp e Ehud Barak, si risolse in un fallimento, con il rifiuto da parte palestinese dell’offerta di uno Stato indipendente in Cisgiordania e a Gaza, con capitale Gerusalemme est.
Da lì in poi le cose sono andate di male in peggio, perché nel 2004 morì Arafat e nel 2006 ci fu la vittoria di Hamas nella Striscia. Il Movimento islamico di resistenza fece la sua comparsa alla fine degli anni Ottanta, ma cominciò a farsi sentire davvero solo verso la fine dei Novanta, con i primi attentati suicidi. Ma è negli anni Duemila che Hamas conquista la scena e, soprattutto, la leadership della resistenza palestinese. Nel 2002, un kamikaze si fa esplodere in mezzo alla folla di un club a Rishon LeZion, uccidendo 16 persone e ferendone 55. Meno di un anno dopo, un altro militante di Hamas si fa esplodere su un autobus ad Haifa, provocando la morte di 17 persone e il ferimento di altre 53. L’Olp di Arafat di fatto non è più la sola organizzazione che rappresenta la lotta di liberazione palestinese. Dall’inizio degli anni Duemila, Israele deve fare i conti con il Movimento di resistenza islamico. Hamas, appunto. E se la vecchia dirigenza dell’Olp con il passare degli anni aveva rinunciato all’organizzazione di attentati, preferendo perseguire una linea di dialogo e cercando di instaurare una trattativa, al contrario Hamas, forte di un’identità religiosa che la legava alla Fratellanza islamica, ha abbracciato fin dal principio il terrorismo come arma per raggiungere i propri obiettivi, ovvero la creazione di uno Stato islamico in Palestina e la distruzione di Israele.
Il tema è questo e per capirlo è sufficiente leggere lo statuto del Movimento di resistenza islamico, nella versione messa a punto da Ahmed Yassin, lo sceicco che ha fondato Hamas nel 1987 e che Israele eliminerà anni dopo. Ai punti 11 e 13 di quella che è la bussola dell’organizzazione terroristica che oggi governa la Striscia di Gaza, si può leggere che nessuna iniziativa di pace può essere accettata, perché ogni trattativa si basa sull’idea di rinunciare a una parte della Palestina, mentre neanche «un singolo pezzo» di terra può essere ceduto, in quanto questo è affidato «alle generazioni dell’islam sino al giorno del giudizio». «Cedere qualunque parte della Palestina equivale a cedere una parte della religione» scrisse oltre trent’anni fa lo sceicco Yassin. Dunque non è più una questione di chilometri quadrati, ma di fede. «Non c’è soluzione per il popolo palestinese se non il jihad. Quanto alle iniziative e conferenze internazionali, sono perdite di tempo e giochi da bambini». In altre parole, con Hamas non si tratta, si combatte.
È vero, morto lo sceicco, la nuova dirigenza del Movimento di resistenza islamico ha riveduto alcune sue posizioni: ma non questa. L’obiettivo principale del nuovo statuto resta la riconquista di tutta la Palestina. Ma non quella i cui confini sono stati decisi dall’Onu nel 1947, con la risoluzione numero 181. No, una Palestina senza Israele, perché alla fine la ragione stessa dell’esistenza di Hamas è la distruzione dello Stato di Israele e la riconquista di tutti i territori. Nel nuovo testo approvato nel 2017, la carta «costituzionale» del Movimento di resistenza dichiara guerra al sionismo e non agli ebrei, ma si tratta di un sottile modo per camuffare il vero obiettivo, dato che Hamas rifiuta «qualsiasi alternativa alla piena e completa liberazione della Palestina, dal fiume al mare». I terroristi che regnano su Gaza e potrebbero presto regnare anche sulla Cisgiordania appena si svolgessero le elezioni, dunque non riconoscono a Israele alcun diritto a esistere e invocano la guerra santa contro gli infedeli, pronti a tutto, anche a perpetrare qualsiasi strage, pur di cancellare la formula dei due popoli in due Stati che tanto piace a coloro che sostengono l’aspirazione dei palestinesi a veder riconosciuto il loro diritto ad avere uno Stato sovrano e indipendente. Nulla è accettato al di fuori di una piena vittoria dello Stato islamico palestinese.
Quindi, ritornando alla domanda iniziale, come si fa a fare la pace con chi vuole fare la guerra? Solo così si capisce perché l’esercito di Israele si prepara a una battaglia senza quartiere dentro Gaza. Per gli uni e gli altri è una guerra di sopravvivenza. Se vince Hamas, Israele sparirà dalle carte geografiche. Se vince Israele c’è da augurarsi che sparisca l’ennesimo tentativo di instaurare in Medioriente uno Stato islamico, con la sharia e la guerra agli infedeli.
Il 5 settembre 1972 un commando di palestinesi prese in ostaggio un gruppo di atleti israeliani. Il risultato fu una strage, per gli errori della polizia tedesca nella gestione delle operazioni. Golda Meir e il Mossad dichiararono guerra ai terroristi di «Settembre Nero».
Poco prima dell’alba del 5 settembre 1972 sulla cancellata del «Kusoczinskidamm», la residenza olimpica degli atleti israeliani a Monaco di Baviera, otto figure con il volto coperto da passamontagna si arrampicavano protette dal buio che ancora avvolgeva il villaggio olimpico. Pochi istanti più tardi Moshe Weinberg, allenatore della squadra olimpica israeliana di wrestling, sentì un rumore provenire dall’esterno e si mise con la sua imponente mole a protezione della porta d’ingresso. Afferrato un coltello da cucina, il coach affrontò il primo dei terroristi palestinesi, Luttif Afif, mandandolo al tappeto con un violentissimo pugno. Pur ferito nella colluttazione che seguì, Weinberg fu in grado di mettere ko un altro terrorista prima di essere ucciso da una raffica di mitra. Il suo corpo fu prelevato e gettato dalla finestra nella sottostante Connollystrasse. Il più sanguinoso attacco terroristico ad un’olimpiade cominciò poco dopo le 4:30 del mattino. Anche un altro atleta israeliano tentò di reagire. Yosef Romano, nato a Bengasi da una famiglia di ebrei italiani e veterano della guerra dei sei giorni, era un campione di sollevamento pesi. Quando i terroristi irruppero nell’appartamento n.1 reagì come il collega Weinberg, colpendo al volto con un coltello Afif Ahmed Hamid, al quale riuscirà per qualche istante a sottrarre il kalashnikov. Morì anch’egli crivellato dai colpi delle armi automatiche dei fedayn. Alle 5 del mattino, il commando palestinese rivendicò l’assalto con la sigla «Settembre Nero» e chiese un riscatto per i nove ostaggi rimasti nelle loro mani. La richiesta fu la liberazione di 234 prigionieri palestinesi rinchiusi nelle carceri israeliane e di alcuni membri del gruppo di terroristi rossi tedeschi «Bader-Meinhof». Cominciava la dolorosa trattativa con le autorità della Germania Ovest, mentre tutto il mondo assisteva con il fiato sospeso alla tragedia.
Perché «Settembre Nero» colpì a Monaco
L’attacco agli atleti israeliani da parte del gruppo terroristico dei fedayn palestinesi fu una conseguenza degli esiti della guerra dei sei giorni del 1967. Con la sconfitta giordana, l’Olp di Arafat ne aveva penetrato i confini creando un caposaldo per attaccare direttamente obiettivi in Israele. In seguito ad una serie di attentati per mano degli uomini del Fplp (Fronte per la Liberazione della Palestina) re Hussein di Giordania si rivolse per un intervento militare dapprima agli Inglesi (che declinarono) quindi agli Stati Uniti del Segretario di Stato Henry Kissinger, che suggerì a Richard Nixon l’opzione di un intervento diretto da parte di Israele con l’appoggio del Pentagono. Alla minaccia di intervento di Tel Aviv, la situazione in Giordania si aggravò, con la Siria di Assad (padre) che scelse di colpire la Giordania in quanto aveva cercato appoggio dal nemico israeliano. Dopo una serie di scontri in cui Assad fece l’errore di non impiegare l’aviazione, l’esercito giordano fu in grado di respingere i Siriani e di colpire mortalmente i membri dell’Olp che si trovavano nel territorio nazionale. I superstiti palestinesi si trasferirono così in Libano, dove posero le basi per la successiva guerra, reclutando terroristi nei campi profughi come quello di Shatila. Il cessate il fuoco tra le parti fu siglato al Cairo il 27 settembre 1970. Il mese in cui gli accordi furono firmati, ispirò il nome al gruppo terroristico palestinese che colpirà Monaco due anni più tardi.
Secondo il Dipartimento di Stato americano, «Settembre Nero» era un ramo di Fatah (il braccio politico dell’Olp) e a sua volta braccio armato dell’organizzazione per la liberazione palestinese. Dal 1970 gli esuli in Libano cacciati dalla Giordania e dall’Egitto non ebbero più il territorio israeliano come obiettivo territoriale confinante. Da qui la scelta di colpire obiettivi israeliani nel mondo. Un esempio, prima del massacro di Monaco di Baviera, fu l’attentato compiuto nel settembre 1970 presso l’aeroporto giordano di Dawson Field dove i terroristi presero in ostaggio cinque aerei di linea (El-Al, Swissair, Twa, Pan Am e Boac) e li fecero esplodere dopo aver liberato i passeggeri.
Le trattative, gli errori tedeschi, la strage all’aeroporto
Alla richiesta dei terroristi palestinesi, le parti in causa reagirono in modo tutt’altro che armonico. Da una parte le forze dell’ordine tedesche fecero leva sulla costituzione della Germania Ovest che riponeva la totale responsabilità delle operazioni alla polizia di Monaco. Dall’altra parte le autorità israeliane proposero inizialmente l’intervento di un corpo dell’esercito altamente specializzato nel recupero degli ostaggi, il «Sayeret», che inizialmente il cancelliere Willy Brandt scelse di far intervenire, salvo poi negare l’intervento per la reazione negativa delle autorità bavaresi. Al corto circuito contribuirono l’assoluta contrarietà del primo ministro israeliano Golda Meir ad ogni tipo di trattativa con i terroristi e il rifiuto del governo egiziano a collaborare con Bonn nell’ipotesi di bloccare i terroristi una volta atterrati al Cairo con l’aereo che avevano richiesto durante le trattative per l’evacuazione protetta dal territorio tedesco. L’impasse e la corsa contro il tempo fecero da volano ad una serie di errori fatali nella gestione degli eventi da parte delle autorità di Monaco. Le richieste dei terroristi di potersi imbarcare per il Cairo assieme ai nove atleti in ostaggio furono assecondate. I negoziatori riuscito a convincere i terroristi sulla migliore scelta della base militare di Fürstenfeldbruck sulla cui pista avrebbe atteso un Boeing 727 Lufthansa pronto ad imbarcarli. Per il trasferimento all’aeroporto furono usati due elicotteri ed i terroristi, che sospettavano un’azione immediata dopo l’uscita dal villaggio olimpico, si fecero trasferire assieme agli ostaggi da un minibus. La tragedia si compirà sulla pista di Fürstenfeldbruck, dove il capo delle operazioni Georg Wolf aveva preparato una trappola travestendo agenti antiterrorismo da equipaggio del jet Lufthansa. Nascosti lungo le strutture dell’aviosuperficie si erano appostati i cecchini tedeschi, con l’obiettivo di colpire i terroristi durante il trasferimento dall’elicottero al 727. Quello dei tiratori scelti fu il primo e più grave errore in quanto il numero di terroristi fu valutato in cinque uomini, a cui avrebbero dovuto sparare altrettanti cecchini. I commando palestinesi erano in realtà otto, il che riduceva di molto le probabilità di un esito chirurgico dell’operazione. Intorno alle 22:30 del 5 settembre 1972 i due elicotteri Uh-1 «Iroquois» dell’esercito toccarono la pista. La seconda situazione che rese tutto più difficile fu che tra il finto equipaggio Lufthansa e il centro delle operazioni non vi fosse alcun contatto radio. Nonostante ciò pochi minuti dopo i cecchini, in inferiorità numerica aprirono il fuoco fallendo gli obiettivi. Si scatenò una violentissima sparatoria, durata circa un’ora finché la Polizia tedesca decise di attaccare frontalmente i terroristi. L’esito fu tragico perché dapprima uno dei terroristi scagliò una granata contro il primo dei due elicotteri dove si trovavano cinque ostaggi, uccidendoli sul colpo. Gli altri atleti, che si trovavano sul secondo elicottero, furono freddati da una raffica di mitra esplosa nell’abitacolo da un secondo terrorista. Il bilancio del massacro fu terribile. Oltre ai nove ostaggi, morì nell’azione anche un agente tedesco dilaniato dall’esplosione dell’elicottero mentre tra i terroristi, due rimasero uccisi nello scontro con la polizia, altri due vennero arrestati dopo essersi finti morti e uno ucciso successivamente dopo che i cani poliziotto lo avevano stanato dal suo nascondiglio in un vagone ferroviario poco distante dall’aeroporto. Gli altri tre membri di «Settembre Nero», feriti, furono inizialmente trasferiti in ospedale. Tre giorni più tardi un’altro dirottamento compiuto da terroristi palestinesi chiese la liberazione del trio. Le autorità tedesche, nel timore di nuovi attentati sul territorio della federazione, acconsentirono e trasferirono i tre membri del commando in Libia.
L’ira di Dio
Il bilancio del massacro di Monaco ebbe gravi conseguenze. L’aviazione israeliana bombardò per ritorsione obiettivi Olp in Siria e Libano mentre la gestione tedesca della crisi fu criticata in tutto il mondo, tanto che in seguito alla strage il governo di Bonn decise di creare un corpo d’élite di polizia specializzato nel recupero degli ostaggi e nell’antiterrorismo, Il Gsg-9 (Grenzschutzgruppe-9). A Tel Aviv una impietrita Golda Meir, a sua volta accusata dai tedeschi di aver rifiutato le trattative, cominciò ad articolare quella che in codice si sarebbe chiamata «Operation-X», che prevedeva l’uccisione di tutti i membri di «Settembre Nero» per mano del Mossad. Al fine di preparare l’azione di risposta, la «lady di ferro» israeliana costituì una commissione speciale alla quale presero parte i vertici dei servizi (il capo del Mossad Zwi Zamir) e della difesa (Moshe Dayan). Da quel momento partirà l’operazione che la stampa internazionale ribattezzò «Ira di Dio - Wrath of God» durata circa un ventennio, con esiti in alcuni casi fallimentari. Tali furono i risultati del tentativo di assassinio di una delle menti della strage di Monaco, il «Principe rosso» Ali Hassan Salameh. Segnalato nel paese di Lillehammer in Norvegia (che sarà a sua volta ospite di olimpiadi invernali nel 1994) dai vertici dell’operazione stabilitisi a Ginevra, fu pedinato per mesi dagli agenti del Mossad. Il 21 luglio 1973 l’azione si risolse con un errore fatale perché al suo posto, a causa della forte somiglianza con il terrorista palestinese, fu ucciso di fronte alla moglie incinta un giovane marocchino cameriere in un locale della cittadina, Ahmed Bouchiki. In un’altra occasione gli uomini dell’operazione eliminarono una persona non direttamente coinvolta nei fatti di Monaco. Fu anche il primo degli obiettivi ad essere colpito a poco più di un mese dalla strage il 16 ottobre 1972. Abdel Zuaiter, personaggio conosciuto in Italia per la propria attività di intellettuale a favore della causa palestinese ed amico di Alberto Moravia, fu freddato a Roma da un commando del Mossad in quanto considerato membro di «Settembre Nero». Tra il 1972 e il 1988 furono portati a termine gli attacchi contro ex membri dell’organizzazione terroristica palestinese in particolare nelle principali capitali europee dove questi operavano. I servizi israeliani per quasi vent’anni portarono avanti, parallelamente agli assalti a colpi di mitra o piazzando bombe negli appartamenti dei terroristi, una guerra psicologica fatta di lettere bomba, falsi annunci funebri, pressioni su famiglie vicine all’organizzazione palestinese. Dall’altra parte se dal 1974 «Settembre Nero» fu soppresso in seguito alla scelta di Arafat di non voler appoggiare alcuna strage terroristica al di fuori della Striscia di Gaza, dei Territori occupati e della Cisgiordania, durante gli anni seguiti alla strage delle olimpiadi del 1972 proseguì le proprie azioni terroristiche contro obiettivi israeliani. Sopra tutti, l’attacco contro Golda Meir che avrebbe dovuto portare al suo assassinio a Roma nel gennaio 1973 e sventato in extremis dai servizi segreti italiani dopo una soffiata da parte dei colleghi israeliani. Proprio nella Capitale, la violenza di «Settembre nero» colpì alcuni mesi dopo quando il 17 dicembre un commando di terroristi dell'organizzazione fece irruzione nel terminal dell'aeroporto di Fiumicino sparando all'impazzata e gettando in seguito una bomba all'interno del volo Pan-Am 110 per Teheran, causando la morte di 30 passeggeri ta cui una bambina italiana di soli 9 anni. Il bilancio finale sarà di 34 morti, che ancora una volta a pochi mesi dall'orrore di Monaco insanguinò le piste degli aeroporti europei.









