Nel corso dell'evento organizzato da La Verità per fare il punto sulle prospettive della transizione energetica, è intervenuto il direttore generale di Renexia Riccardo Toto.
Gianni Agnelli al timone (Getty Images)
I posti barca in Francia dove Gianni ormeggiava i natanti da sogno erano intestati a società offshore: un elemento che corrobora la tesi di un tesoro nascosto all’estero.
Probabilmente considerava Monte Carlo un posto da parvenu e per questo per tuffarsi in mare dall’elicottero o per rilassarsi tra i limoni e gli ulivi di villa Leopolda, preferiva spingersi una decina di chilometri più in là, verso Cannes. Tra Beaulieu e Villefrance-sur-mer.
Nel locale porticciolo turistico erano ormeggiati i suoi panfili, un’avveniristica barca a vela (Stealth) e un ex rimorchiatore, trasformato in natante di lusso (F100). E proprio questa passione per il mare ha fatto fare un passo falso a Gianni Agnelli, il quale ha lasciato agli eredi la spia dell’esistenza di un patrimonio fuori dall’Italia. Indizi a cui Margherita, la figlia ribelle dell’Avvocato, si è aggrappata come un naufrago a una zattera, per dimostrare ai magistrati che l’ipotesi di un tesoro occultato nei paradisi fiscali non era una fantasia. I primi sospetti li aveva destati il foglietto con la lista delle società offshore consegnata alla donna dal commercialista svizzero Siegfried Maron, il capo del family office di Zurigo che gestiva il patrimonio estero di Agnelli. A rafforzare i dubbi un bonifico da 109 milioni inviato da un conto sconosciuto della banca Morgan Stanley, rapporto su cui erano stati depositati nel tempo tra gli 800 e 1.000 milioni di euro.
Ma poi è arrivato il terzo indizio.
Una pista che in una richiesta di archiviazione firmata nel 2013 dai pm di Milano, i primi a occuparsi a livello penale dell’eredità contesa, era così sintetizzata: «L’esistenza di tre moli (numeri 25, 26 e 27) presso il porto francese di Beaulieu, notoriamente in uso all'avvocato Agnelli sin dagli anni Settanta e intestati a una finanziaria e a due società offshore metteva, nuovamente, in luce la disponibilità della famiglia Agnelli di schermi attraverso cui detenere beni celandone provenienza e titolarità».
Per arrivare a questa conclusione sono state utilizzate «le reiterate escussioni di Mark Hurner, cittadino belga consulente del collegio difensivo di Margherita Agnelli».
I magistrati elencano i paradisi fiscali che schermavano i reali proprietari dei posti barca: «Dalla documentazione raccolta, risultava che un molo fosse intestato alla Triaria investments limited, con sede in Jersey […] mentre gli altri due erano formalmente riconducibili alle società offshore Delphburn limited, con sede nell’Isola di Man, e Celestrina company limited, con sede in Jersey. La riconducibilità diretta dei tre moli all’avvocato Gianni Agnelli veniva altresì confermata dai figli di Achille Boroli (l’editore dell’istituto geografico De Agostini di Novara, ndr), persona che nel 2004 aveva rilevato i tre moli. Stando alle loro dichiarazioni, detti moli erano effettivamente in uso alla famiglia Agnelli a partire dagli anni Settanta». In una memoria presentata a Torino dagli avvocati di Margherita si leggeva: «Detti posti barche, unici nel loro genere perché destinati a ricevere imbarcazioni superiori ai 100 metri, erano utilizzati per ormeggiare lo Stealth, nel porto di Antibes, e l’F100 e il Vulture (il tender del rimorchiatore, ndr), in quello di Beaulieu, tutte barche utilizzate dal senatore Agnelli. Il valore degli ormeggi è stimabile in 2 milioni di euro. Gli ormeggi di Beaulieu […] sono stati venduti nel gennaio 2004 all’industriale italiano Achille Boroli. Quello di Antibes, intestato alla Rahal holdings limited, società delle Isole Cayman è stato venduto, sempre nel 2004, al principe del Bahrein sceicco Salman Bin Hamad Al-Khalifa».
Per poter ormeggiare le imbarcazioni nella marina amata dai Boroli era necessario acquistare, per ciascun molo, 40 azioni della Societè anonyme du Port de Plaisance de Beaulieu.
Hurner scoprì che a possedere le 40 azioni del molo 26, utilizzato per l’ex rimorchiatore, era la Triaria, ovvero la offshore collegata al celebre conto di Morgan Stanley associato all’Avvocato e di cui Hans-Rudolph Staiger, il professionista svizzero di cui si è servito Gianni Agnelli in numerose occasioni, era amministratore.
Titolare delle azioni di un altro dei moli usati da Agnelli era, come detto, la Delphburn, amministrata sempre da Staiger.
Il 25 febbraio 2004, ovvero una settimana dopo l’accordo successorio tra Margherita e la madre Marella, le azioni rappresentative di tutti e tre i moli vennero vendute da Triaria.
Il 21 novembre 2011, Pietro Boroli, uno dei figli di Achille, spiega agli inquirenti: «Dagli inizi degli anni Settanta frequento la località di Beaulieu, dove ogni tanto ho avuto modo di vedere anche il senatore Giovanni Agnelli, il quale ormeggiava tra le altre la barca F100 presumibilmente in uno dei moli 25, 26 o 27».
Il fratello Marco Emilio Boroli aggiunge: «Mio padre sapeva che i moli di Beaulieu, indipendentemente dalle intestazioni a società offshore o a fiduciarie, erano del senatore Giovanni Agnelli o comunque, per essere più precisi, erano da questi utilizzati».
La sua ricostruzione prosegue: «Preciso che detti moli furono acquistati nel 2004 da mio padre Achille attraverso trattative dirette con la signora Ursula Schulte di Zurigo, facente capo allo studio legale Staiger, Schwald e Roesle di Zurigo». La Schulte era la più stretta collaboratrice a Ginevra di Gianluigi Gabetti, storico consigliere dell’ex presidente della Fiat.
A detta di Boroli, dell’affare si occuparono anche altri professionisti vicini all’Avvocato, come Iwan J. Ackermann e lo studio legale di Herbert Batliner (gentiluomo di sua Santità) e Johannes Gasser, da cui provenivano i contratti di vendita, e società con base nei paradisi fiscali del Lichtenstein, di Tortola e di Guernsey.
Il testimone, in una nota consegnata alla Procura di Milano e stilata insieme con la più stretta collaboratrice del padre, la svizzera Carla Mazzoleni, aveva provato a ricostruire anche i pagamenti.
Le tre società offshore riconducibili ad Agnelli avrebbero incassato 466.000 euro l’una.
L’uomo raccontò anche che il bonifico venne effettuato da una società offshore della sua famiglia su un conto di un anstalt (speciale istituto giuridico) di Vaduz riferibile all’Avvocato. Un gioco di scatole cinesi da far venire il mal di testa e di cui oggi non resta traccia. Come ha confermato Marco Emilio Boroli ai pm: «Documenti non ve ne sono perché sono stati distrutti».
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Lapo e John Elkann (Ansa)
Gli Elkann hanno messo una parte della loro liquidità in un fondo che punta sulle società tecnologiche appena nate. Finita male l’avventura nelle criptovalute.
Intelligenza artificiale. Biotecnologie. Criptovalute. Sfruttamento dei fondali oceanici. Sono gli investimenti offshore realizzati dagli Elkann con i patrimoni «coperti», tenuti lontani da occhi indiscreti grazie alle due holding del Liechtenstein rivelate dalla inchiesta della procura di Torino sull’eredità di Marella Caracciolo Agnelli. Scommesse non sempre fortunate.
Friedelstrasse 40, Berlino. Siamo nel cuore della capitale tedesca, non lontani dal cuore pulsante di Kreutzberg, in una zona di nuova gentrificazione e affollata di locali per stratupper, ricercatori e creativi che arrivano qui da ogni parte d’Europa per cogliere le opportunità offerta dalla città. A questo indirizzo ha sede il fondo d’investimento Berlin innovation ventures 1 GmbH (Biv1). Gestito da Lunar Ventures, è uno degli investimenti effettuati dalla Blue Dragons ag, la società riconducibile ai fratelli Elkann svelata dalle indagini della procura di Torino sull’eredità di Marella Agnelli.
Il fondo Biv1 è un fondo di venture capital per società tecnologiche. Ovvero, che investe nella fase iniziale di una nuova società e accompagna i giovani imprenditori nella prima fase di sviluppo della nuova società. Il fondo, attivo dal 2019, ha investito con il fondo gemello Lunar Ventures Gp in 24 nuove società, che spaziano dal software alle biotecnologie con una particolare attenzione alle applicazioni dell’intelligenza artificiale, vera gallina dalle uova d’oro del settore in questa fase di mercato.
I due fondi, Biv1 e Lunar Ventures Gp, hanno raccolto tra gli investitori circa 40 milioni di euro e hanno raccolto adesioni – circa 800 milioni di dollari – anche nel ricco e competitivo mercato americano. Non è chiaro quanto abbia investito la società riconducibile agli Agnelli-Elkann nel fondo Biv1. Quello che è stato possibile ricostruire è che l’investimento vale il 5,19% del valore dell’equity del fondo e che il valore nominale della quota è di poco superiore ai 2.000 euro.
L’investimento nel fondo di venture capital tedesco è l’unico, tra quelli di cui è stato possibile trovare traccia, nel quale la Blue Dragons è ancora investita. Gli altri due - ne ha parlato il Corriere della Sera nei giorni scorsi - sono la società di esplorazioni nelle profondità oceaniche The Metal Company (Tmc) e la società di criptovalute Celsius Network. Quest’ultimo investimento è finito male: Celsius Network, che proponeva un servizio di crypto-lending (prestiti basati su criptovalute digitali) è finita in bancarotta nel 2022, con 5,5 miliardi di debiti e un buco stimato in almeno 1,2 miliardi di dollari. La Blue Dragons di Eschen figura in un elenco di creditori depositato presso la procura del Southern District di New York. Nel 2023, la Federal trade commission americana ha multato Celsius Network per 4,7 miliardi, accusando i tre fondatori di sottratto almeno 4 miliardi di asset di consumatori e investitori, mentendo a più riprese ai propri clienti e prelevando «somme significative» da Celsius prima della bancarotta. Anche in questo caso, non è stato possibile determinare a quanto ammontasse l’investimento della Blue Dragons.
Le 500.000 azioni della The metal company (Tmc) sono invece state vendute dalla Blue Dragons nel 2021, ragionevolmente con un buon profitto. La società americana si occupa di cercare e, in un prossimo futuro, estrarre, metalli dalle profondità oceaniche, in particolare nel settore del Pacifico al largo delle coste del Messico. La società è quotata al Nasdaq e fino all’estate del 2021 oscillavano intorno ai 10 dollari ciascuna. In ottobre, quanto viene realizzata la vendita, il prezzo dei titoli era già precipitato a 4 dollari mentre ieri ha chiuso a 1,2 dollari. L’incasso della vendita della quota si è aggirato intorno ai due milioni di dollari. Nei documenti della Tmc depositati alla Sec - l’autorità Usa di controllo sui mercati finanziari - la Blue Dragons risulta amministrata da Johannes Matt e Christian Bolleter, i due fiduciari - cittadino del Liechtenstein il primo, svizzero il secondo - che gestiscono oltre alla Blue Dragons anche la Dancing Tree, domiciliata allo stresso indirizzo nel villaggio di Eschen, nel piccolo principato incastrato tra Svizzera e Austria. A differenza della Blue Dragons, per la Dancing Tree non è stato possibile ricostruire investimenti o partecipazioni. Prima delle scommesse su tecnologia, intelligenza artificiale e criptovalute, gli investimenti finanziari offshore della famiglia avevano preso altre direzioni.
Nel 2006, una delle società della galassia estera degli Agnelli, la Fima finance mangement delle Isole Vergini Britanniche, aveva investito in un fondo gestito da Actis Capital. Nato nel 2004, Actis Capital è uno spin-off privato di Cdc Group, il braccio finanziario del governo inglese per gli investimenti nei Paesi in via di sviluppo, specializzato in energia e infrastrutture.
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(IStock)
La Corte dei conti europea bacchetta l’Ue: «La Commissione non ha valutato adeguatamente i potenziali effetti nocivi delle energie rinnovabili offshore sulla biodiversità marina. Gli obiettivi di Bruxelles sono ambiziosi, ma anche irrealistici».
La Corte dei conti europea avverte: le energie rinnovabili offshore sono essenziali per la transizione ecologica, ma la Commissione europea non ha valutato adeguatamente i potenziali effetti sull’ambiente delle pale eoliche in mezzo al mare. Inoltre, secondo la Corte, le implicazioni socioeconomiche dello sviluppo delle energie rinnovabili offshore non sono state studiate in maniera sufficientemente approfondita. Un’altra tirata d’orecchi, l’ennesima, agli azzeccagarbugli di Bruxelles.
Gli obiettivi dell’Ue in tema di energia eolica prodotta in mare sono molto sfidanti o, come si dice a Bruxelles, ambiziosi. Si tratta di installare 61.000 megawatt (MW) di capacità produttiva entro il 2030, quando al momento siamo fermi a poco meno di 16.000. In sette anni, dunque, si dovrebbero installare in media 6.500 MW ogni anno di nuova potenza elettrica.
L’obiettivo di potenza installata al 2050, poi, è oltre ogni record possibile: 340.000 MW. Ad oggi ne mancano solo 324.000. Anche ipotizzando che davvero al 2030 ci possano essere 61.000 MW di capacità installata, tra il 2030 e il 2050 in Europa bisognerebbe installare comunque ancora 14.000 MW di capacità eolica offshore ogni anno. Probabilmente, però, nessuno sa dove, visto che le aree geografiche marine in cui ha senso mettere le torri per l’energia eolica non sono poi così tante. Le energie rinnovabili offshore possono essere generate dal vento (con turbine fissate al fondale e galleggianti), dagli oceani (sfruttando il moto ondoso o le maree) e da pannelli fotovoltaici galleggianti. Attualmente, in Europa esiste praticamente solo la tecnologia eolica. Di tutti i Paesi dell’Unione, la Germania conta la maggiore capacità offshore (8.100 MWa fine 2022, prevalentemente nel Mare del Nord), seguita da Paesi Bassi (3.200 MW), poi Danimarca e Belgio (entrambi attorno ai 2.300 MW). In Italia ci sono alcuni progetti in fase di sviluppo in alcune aree marine. I campi di energia eolica hanno senso se insistono su aree geografiche in cui esiste una ventosità media significativa, in grado di far muovere le pale eoliche per un certo numero di ore all’anno e ricavare così energia elettrica da vendere all’ingrosso per rientrare degli investimenti e avere un profitto. In Italia le aree marine idonee non sono molte, mentre il Mare del Nord, molto ventoso, è già parecchio affollato e lo sarà sempre di più.
In merito all’impatto ambientale, la Corte del Lussemburgo afferma che la creazione di grandi impianti eolici in mare può avere effetti negativi pesanti sulla biodiversità. Secondo la strategia della Commissione per lo sviluppo dell’eolico offshore, questa richiederà meno del 3% della superficie marina europea. Quindi, in teoria, l’impatto ambientale sarebbe contenuto. Però, gli impianti sono dati in concessione per un periodo massimo di 40 anni, dunque vi possono essere effetti di lungo periodo sull’ambiente marino nel quale insistono le torri eoliche. Tra gli effetti negativi, le collisioni di uccelli con gli impianti e la variazione delle rotte di transito degli stessi, la variazione della qualità dell’acqua dovuta al rilascio di contaminanti, l’effetto di spostamento della fauna marina dovuto al rumore subacqueo e alle fondazioni delle torri eoliche. Poi il degrado del fondale marino e il cambiamento dei modelli migratori a causa delle modifiche al campo elettromagnetico. La Corte conclude che non vi sono ancora analisi sufficienti per valutare l’impatto negativo sull’ambiente marino. La Corte ritiene che, date le attività umane esistenti in mare e la portata del previsto dispiegamento delle rinnovabili offshore, l’impronta ambientale sulla vita marina possa essere significativa e non sia stata presa sufficientemente in considerazione dalla Commissione e dagli Stati membri. Riguardo alle implicazioni sociali dello sviluppo delle energie rinnovabili offshore, la Corte afferma che né la Commissione né gli Stati membri si sono preoccupati di tenere conto dei possibili effetti di uno sviluppo così imponente. È la stessa Ue a dire nel documento COM(2020) 741 che le energie rinnovabili offshore saranno sostenibili solo se non avranno un impatto negativo sulla coesione sociale. È vero che il settore può dare lavoro a migliaia di persone, ma nessuno a Bruxelles si è preoccupato di verificare l’impatto sulla pesca, sia in termini economici che di occupazione. Inoltre, l’accettazione dei grandi parchi eolici in mare da parte delle popolazioni costiere non è scontata. Anzi, in Francia lo sviluppo di diversi campi eolici è stato frenato e contestato da residenti, pescatori e persino Ong ambientaliste, più realiste del re (per una volta, però, non a torto). La Corte conclude che gli obiettivi sono molto ambiziosi e irrealistici, che non c’è stata una adeguata valutazione dell’impatto sociale di un così violento sviluppo e che l’impatto degli impianti sull’ambiente marino non è stato né analizzato né fronteggiato in qualche modo. Ancora una volta, la Corte con sede in Lussemburgo mette il dito nella piaga e mostra, dati alla mano, il pressapochismo con cui a Bruxelles si procede.
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(IStock)
Gli impianti galleggianti (non solo pale) sono un’opportunità per il Paese, come dimostra l’«alleanza» che comprende Fincantieri e l’ex Ilva. Possibili sinergie per coinvolgere costruttori, scali e acciaierie. Ma le norme devono essere aggiornate.
La produzione di eolico offshore galleggiante attiverebbe in Italia una produzione aggiuntiva in alcuni settori chiave per un totale di 255,6 miliardi e un’occupazione di 1,3 milioni di addetti. La stima del contributo dell’eolico marino galleggiante al processo di decarbonizzazione nel nostro Paese e le ricadute di questa tecnologia sull’economia e le filiere locali è stata fatta da uno studio della Floating offshore wind community, il progetto creato da The european house - Ambrosetti in collaborazione con Renantis, Bluefloat energy, Fincantieri e Acciaierie d’Italia.
Si tratta, si legge in una nota, di un’iniziativa volta a sensibilizzare l’opinione pubblica e la politica sull’eolico offshore galleggiante e a costruire una strategia comune per facilitare la diffusione di questa prossima frontiera della produzione energetica in Italia. Al netto delle previsioni numeriche, è rilevante il fatto che per la prima volta i diversi attori che possono partecipare allo sviluppo della tecnologia si siedano attorno a un tavolo e ragionino su strategie comuni. E la posta in gioco può diventare ancor più interessante se si considera che il cosiddetto floating è l’occasione per mettere a sistema su larga scala le acciaierie che produrranno la materia prima per realizzare gli impianti, i costruttori, colossi come Fincantieri che anche grazie alla controllata norvegese Vard è leader nella progettazione e costruzione di navi di supporto agli impianti eolici in mare aperto. «Prevediamo che quasi 150 nuove navi saranno ordinate entro il 2027», ha detto l’ad Pierroberto Folgiero.
Le sinergie sono interessanti e possono coinvolgere anche il sistema dei porti. Come quello di Taranto dove, in realtà, uno schema simile è già partito nell’autunno dell’anno scorso facendo da apripista: il 5 novembre del 2022, infatti, Falck renewables e Bluefloat energy hanno definito un’intesa col gruppo turco Yilport, concessionario del terminal container di Taranto attraverso la società San Cataldo container terminal (Scct). L’obiettivo, avevano spiegato le società, «è raggiungere un accordo sulle modalità di utilizzazione a titolo esclusivo di un’area del terminal del porto per portare avanti le attività legate alle fasi di costruzione e di operatività dei progetti di eolico marino galleggiante che le due società energetiche stanno sviluppando in partnership paritetica». Falck renewables e Bluefloat energy si sono impegnate per la realizzazione di due grandi parchi eolici offshore al largo del Salento e di Brindisi. L’oggetto del memorandum è il potenziale utilizzo di un’area del terminal di Taranto, ubicato sul molo polisettoriale, «per lo sbarco, lo stoccaggio, la costruzione e l’assemblaggio delle piattaforme galleggianti e delle turbine eoliche in banchina». Le aziende hanno poi costituito un gruppo di lavoro per la concreta utilizzazione e valorizzazione dell’area che consentirà a Falck renewables e Bluefloat energy di programmare tutte le attività e a Yilport Taranto di valorizzare l’operatività completa del terminal.
Una mossa che può diventare anche geopolitica: più investono i turchi e meno spazio di manovra resta ai cinesi. Che nel porto pugliese hanno già messo un piede nel 2020, ai tempi del governo Conte, con l’accordo per l’insediamento di Ferretti group, il costruttore di barche di lusso controllata dalla società statale cinese Weichai, nell’area «ex yard Belleli». Negli ultimi mesi, inoltre, sono spuntate nuove società: il caso più curioso, raccontato da La Verità, è quello della italocinese Progetto internazionale 39 che ha vinto la gara per aggiudicarsi la piattaforma logistica del porto pugliese. Un dettaglio non irrilevante considerando che Taranto ospita la base Nato che controlla una parte rilevante del Mar Mediterraneo. Altro dettaglio: a ottobre 2021 Falck è passata di mano. La famiglia ha ceduto il controllo al fondo Infrastructure investments fund (Iif), gestito dal colosso americano Jp Morgan. Non solo. Il 19 gennaio 2023, durante l’incontro al ministero delle Imprese sul futuro dell’ex Ilva, l’ad di Acciaierie d’Italia, Lucia Morselli, ha fatto un elenco degli investimenti concordati con i soci citando tra questi un accordo con Falck renewables: «Noi diamo loro l’acciaio e loro daranno a noi energia rinnovabile», aveva aggiunto la Morselli. Di certo, se si vuole far diventare l’eolico galleggiante, la soluzione strutturale per accelerare la transizione energetica, bisogna progettare una filiera e servirà tanto acciaio.
Per lo sviluppo di eolico marino galleggiante, il nodo del processo autorizzativo è centrale. Il dl 387 del 2003 però non è ancora stato aggiornato e le linee guida, tanto auspicate, non sono ancora state adottate. La bozza di aggiornamento del nostro Piano nazionale integrato energia e clima prevede che solo il 2% dell’obiettivo di potenza rinnovabile elettrica installata al 2030 provenga da impianti eolici offshore. Secondo le stime del Global wind energy council, l’Italia sarebbe, invece, il terzo potenziale mercato mondiale per l’eolico galleggiante. Inoltre, secondo il Marine offshore renewable energy lab e il Politecnico di Torino, il potenziale italiano di eolico offshore galleggiante è pari a 207,3 Gw in termini di potenza, e 540,8 Twh/anno in termini di generazione.
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