Il commissario Ue Brunner, oggi a Roma, sposa il piano Meloni sui rimpatri. Il Pd rosica: «Sorprendente». Sbarchi giù del 60%.
Attivo dal 2002, l’organismo ha condannato solo 11 delinquenti. Ma i giudici prendono 180.000 euro l’anno più benefit e pensione a 62 anni. E ora Trump fa scattare le sanzioni.
Giorgia Meloni (Getty Images)
Altro che giustizia lenta: il legale che ha presentato la denuncia dice di averla inviata via mail venerdì e lunedì il fascicolo era già aperto. Il 18 gennaio la Corte dell’Aja predispone il mandato di arresto per il libico, ma il testo viene modificato dopo il suo rilascio.
Più si approfondisce la vicenda del carceriere libico che ha portato all’iscrizione nel registro degli indagati di mezzo governo e più si ha la sensazione di essere in presenza non soltanto di un intrigo internazionale, ma anche di una vera e propria trappola costruita per mettere in difficoltà l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni.Cominciamo dalla fine e cioè da chi ha denunciato il presidente del Consiglio e i ministri. L’avvocato Luigi Li Gotti, già difensore di mafiosi e sottosegretario alla Giustizia nel governo Prodi. Lasciamo perdere i suoi orientamenti politici, che nell’arco di una vita passano dal Movimento sociale al Pd e concentriamoci su quanto ha detto per giustificare la sua iniziativa. In tv l’avvocato ha spiegato di aver presentato un esposto nominativo contro premier e ministri per una questione di dignità. Lui non sopporta che un boia sia stato restituito alla Libia dal governo italiano. «Vivo in un Paese civile e non accetto che possa convivere con la barbarie».
Una lezione morale che si può anche condividere, ma che pronunciata da un legale che ha difeso assassini e criminali stupisce alquanto. La domanda viene spontanea: la coscienza che suscita riprovazione contro la scarcerazione di Almasri scatta solo quando non scatta la parcella? La difesa deve essere garantita a tutti? Ovvio, ma anche a un carceriere libico (e poi spiegheremo perché), non soltanto a chi ha sciolto un bambino nell’acido. Ma è l’indignazione che funziona a giorni alterni a stupire.
Se si libera un presunto terrorista in cambio di Cecilia Sala non c’è problema, se si manda libero un presunto seviziatore di immigrati invece c’è eccome. Accordarsi per uno sconto di pena a un mafioso che ha sciolto nell’acido un bimbo si può fare, se invece si viene a patti con un carceriere e seviziatore libico no.
Ma a parte queste semplici riflessioni, c’è un altro aspetto che merita attenzione ed è la tempistica della denuncia. Almasri viene liberato il 21 gennaio e Li Gotti sostiene in tv di aver inviato la denuncia via mail il 23, ossia giovedì scorso. Di solito sabato e domenica anche la magistratura riposa, ma già lunedì 27, come da notifica agli indagati, la Procura di Roma comunica l’iscrizione di Giorgia Meloni, Matteo Piantedosi, Carlo Nordio e Alfredo Mantovano nel registro delle notizie di reato, per l’accusa di favoreggiamento e peculato. Altro che lentezza della giustizia, i pm della Capitale quando c’è di mezzo il governo sono veri e propri Speedy Gonzales. E alla velocità bisogna aggiungere anche la considerazione con cui è stata tenuta la denuncia dell’avvocato Li Gotti. In altri tempi, ad esempio quelli del Covid in cui i presidenti del Consiglio disponevano provvedimenti semi notturni che comportavano la privazione delle libertà costituzionali dei cittadini, gli esposti, invece di essere valutati con la regola dell’obbligatorietà dell’azione penale, finivano direttamente nel cestino. La favola bella dell’atto obbligato, che viene raccontata da Li Gotti ma anche da gran parte della stampa, è una bubbola per allocchi, perché tutti sappiamo che ci sono indagini che possono procedere a passo di lumaca e altre che hanno la priority, come quando ci si imbarca in aeroporto.
E ora andiamo anche all’inizio della storia, ovvero al mandato di cattura emesso dalla Corte penale internazionale. La Procura dell’Aja chiede l’arresto il 2 ottobre dello scorso anno, ma i giudici prima di prendere in esame la questione la lasciano decantare per parecchie settimane. Quando si decidono a esaminare la richiesta, Almasri è in Europa e circola liberamente nei Paesi che riconoscono la giurisdizione della Corte, ma in quei giorni i giudici non autorizzano l’arresto del carceriere libico. Poi però, quello che Li Gotti chiama boia (e che forse lo sarà, ma al momento nessuna sentenza definitiva lo definisce tale) arriva in Italia e dei tre giudici che compongono il collegio due si convincono che vada sbattuto in cella, mentre un terzo dissente e poi diremo il perché. Sta di fatto che viene notificato il mandato di cattura e il 19 Almasri viene arrestato a Torino. Perché Socorro Flores Liera vota contro l’arresto, che alla fine viene disposto a maggioranza dalla Corte? Come è scritto nelle pagine finali dell’ordinanza, il giudice dissenziente ritiene che la Corte non abbia titolo per intervenire in questa vicenda, ma poi anche i colleghi che hanno votato a favore dell’arresto sembrano dubitare di alcune accuse contro Almasri, perché poco o nulla dimostrate. Non voglio affatto sostenere che il carceriere libico sia uno stinco di santo o che sia ingiustamente accusato: probabilmente molti dei reati che gli vengono addebitati sono stati commessi.
Tuttavia, i dubbi sulla possibilità di provare ciò di cui è accusato Almasri probabilmente spiegano l’esitazione della Corte, che ha impiegato mesi prima di decidere. Però non ci fanno capire perché all’improvviso il 18 gennaio i giudici decidono a maggioranza, ignorando i buchi dell’inchiesta della Procura dell’Aja e le perplessità del terzo magistrato che componeva il collegio. Soprattutto non ci spiegano perché, dopo aver disposto il 18 gennaio un mandato d’arresto, la Corte senta il bisogno di modificarlo il 24, correggendolo «per errori tipografici e materiali», per poi pubblicarlo solo il 25 gennaio, quando il «boia» è da giorni in Libia.
Perché ci furono esitazioni a ordinare l’arresto quando Almasri circolava liberamente in Germania e poi tanta fretta quando arrivò in Italia, al punto da scrivere un’ordinanza che richiese una correzione?
Perché, insomma, c’era un super ricercato che nessuno cercava, se non quando ha deciso di venire in Italia per godersi una partita della Juventus?
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Francesco Lo Voi (Ansa)
Prima la sua Procura ha messo una nota «riservata» dei nostri 007 a disposizione dei cronisti (sotto indagine) di un quotidiano che da anni sguazza nelle beghe interne ai servizi segreti. Una velina molto scomoda per la Presidenza del Consiglio, dal momento che svelava presunte spiate di tre barbe finte ai danni del capo di gabinetto di Giorgia Meloni. Poi ha iscritto sul registro degli indagati per favoreggiamento personale e peculato il premier, due ministri, Matteo Piantedosi e Carlo Nordio, e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, l’autorità delegata ai servizi segreti, per la scarcerazione del generale libico Osama Almasri Habish Najeem, accusato di crimini contro l’umanità, e per suo trasferimento a Tripoli su un Falcon, sempre dei servizi segreti. Una trasvolata che ha portato alla contestazione del peculato. Da queste due notizie deduciamo, magari sbagliando, che Francesco Lo Voi non abbia in simpatia le agenzie d’intelligence e che non sopporti l’uso improprio dei voli di Stato della Cai, la compagnia gestita dai servizi segreti. Ma c’è chi collega questa apparente ostilità al contenzioso in corso da mesi tra lo stesso governo, nella persona di Mantovano, magistrato in quiescenza, e Lo Voi, proprio in materia di voli di Stato.
La notizia è apparsa ieri, seppure un po’ nascosta, sul Corriere della Sera, dove si leggeva: «Non senza malizia fonti di governo ricordano che il procuratore Francesco Lo Voi, cui si deve l’avviso di garanzia, ha fatto ricorso al Consiglio di Stato perché Mantovano gli avrebbe tolto l’aereo dei servizi con cui, per motivi di sicurezza, volava da Roma a Palermo e ritorno». In effetti, ieri, siamo riusciti a visionare il carteggio intercorso tra Mantovano e il procuratore in tema di voli di Stato, il cui utilizzo era stato concesso negli anni ’90, dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, ad alcuni procuratori siciliani e al capo della Direzione nazionale antimafia. Da allora è passata molta acqua sotto i ponti e quasi tutte le toghe sono state lasciate a terra. A partire da Nino Di Matteo che, pure, ha ricevuto minacce di morte da Totò Riina. L’oggetto della prima missiva del febbraio 2023 è chiarissimo: «Richiesta di voli di Stato del procuratore della Repubblica di Roma dottor Francesco Lo Voi» e «diniego di autorizzazione allo stato degli atti». Il 16 febbraio, il magistrato prova a far valere le proprie ragioni con l’Ufficio voli di Stato: «Per quanto possa rilevare, rappresento che - così come In passato - l’uso del volo di Stato consente uno spostamento molto più rapido rispetto a quello dei voli di linea, evita la presenza dello scrivente in ambienti e situazioni di facile riconoscibilità personale (aerei e aeroporti) ed evita altresì l’Impiego di personale di scorta (con le conseguenti spese a carico dell’amministrazione di appartenenza) conseguenti all’utilizzo di mezzi diversi; superfluo segnalare che per lo spostamento da Roma a Palermo o viceversa non è utilmente praticabile l’utilizzazione del mezzo ferroviario o l’uso di autovettura, in considerazione dei lunghissimi tempi di percorrenza, non compatibili con le esigenze di servizio».