Il Comune di Merano rappresentato dal sindaco Katharina Zeller ha reso omaggio ai particolari meriti letterari e culturali della poetessa, saggista e traduttrice Mary de Rachewiltz, conferendole la cittadinanza onoraria di Merano. La cerimonia si e' svolta al Pavillon des Fleurs alla presenza della centenaria, figlia di Ezra Pound.
Il sindaco di Merano Katharina Zeller (Ansa)
La sindaca di Merano che si era sfilata la fascia tricolore fa scena muta durante le celebrazioni per l’anniversario della Repubblica. E imbarazza ancora il Pd.
A questo punto è lecito pensare che alla sindaca di Merano Katharina Zeller (eletta lo scorso 18 maggio nelle file del Südtiroler Volkspartei sconfiggendo al ballottaggio, con il 57,4% delle preferenze, il primo cittadino uscente, il moderato Dario Dal Medico) il sostegno garantito alla sua giunta dal Partito democratico dia non poco fastidio. Il simbolo del Pd, cromaticamente parlando, richiama infatti in maniera esplicita la bandiera italiana e la cosa deve senz’altro suscitare nella Zeller un disagio non indifferente, vista la sua sempre più palese idiosincrasia per tutto ciò che con lo Stivale (eccezion fatta, si presume, per i denari elargiti dallo Stato italiano) ha a che vedere.
Non paga di essersi sfilata la fascia tricolore il giorno del suo insediamento, lasciando attoniti gli astanti e in particolare il suo predecessore Dal Medico, la sindaca 38enne (politicamente figlia d’arte, essendo i suoi genitori l’ex parlamentare di lungo corso Karl Zeller e l’attuale senatrice del Svp Julia Unterberger) si è astenuta, ieri, dal cantare l’inno nazionale durante le celebrazioni svoltesi a Merano in occasione della Festa della Repubblica. La volta scorsa, per il fatto di avere scansato con decisione la fascia tricolore, la sindaca aveva provato ad accampare delle scuse: «L’insistenza di Dal Medico nel volermi far indossare la fascia, in modo forzato e fuori dalle pratiche locali, è stata percepita da me come un gesto provocatorio e uno sgarbo istituzionale». Scuse, come si vede, assai deboli, tanto più tenendo conto che, diversamente da quanto dalla Zeller affermato, finora nessun primo cittadino meranese si era mai reso protagonista di una reazione analoga a quella che ha avuto lei. Nel caso dell’inno nazionale non cantato, invece, di giustificazioni più o meno pretestuose - almeno per adesso - non ne sono giunte. Del resto c’è un video - facilmente recuperabile sul web - che non lascia spazio a dubbi su quanto ieri è accaduto: mentre tutte le altre personalità presenti, alla sua destra e alla sua sinistra, pronunciano le parole scritte da Mameli e musicate da Novaro, con anche un alpino e un carabiniere intenti nel saluto militare, la Zeller non emette verbo, limitandosi a sfoderare un sorriso dalla fissità persino un po’ inquietante. Certo, da un punto di vista strettamente istituzionale la gravità dei due gesti non è comparabile, ma proseguendo di questo passo la sindaca pretenderà appunto che il Pd elimini il verde dal suo simbolo così da lasciare soltanto il rosso e il bianco della bandiera austriaca, dalla Zeller senz’altro molto amata a differenza dell’italico tricolore.
E a proposito di Pd, il segretario meranese dei democratici, Giuseppe Panusa, pochi giorni prima del ballottaggio aveva diffuso un comunicato per spiegare come il convinto supporto del suo partito alla Zeller fosse dovuto in primo luogo all’esigenza di non entrare in un governo formato anche da «forze nazionaliste, sovraniste e dichiaratamente di destra». Dunque dal nazionalismo si sta alla larga, ed è legittimo, ma il disprezzo della nazione ce lo si fa andare bene? Che posizione intendono prendere i dem al cospetto di una prima cittadina che mostra di non riconoscersi in alcun modo nel Paese a cui fino a prova contraria appartiene e del quale è addirittura una rappresentante? Purtroppo è impossibile ricevere una qualsivoglia risposta a questa domanda, dato che il Pd accuratamente tace. Nemmeno fosse la Zeller quando si tratta di intonare l’inno di Mameli.
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Riduci
Katharina Zeller, sindaco di Merano (Ansa)
Il primo cittadino di Merano può, se crede, non amare la nostra bandiera. Ma nelle occasioni formali, quando rappresenta le istituzioni è suo dovere onorarla. Tuttavia l’ideale sarebbe la gente come Benvenuti, che esibiva il patriottismo con fierezza.
Il Tricolore, l’orgoglio e il fastidio di essere italiani. Per uno di quegli strani casi della vita, il vecchio Tricolore è tornato a farci visita due volte nel giro di poche ore; potremmo dire, citando Karl Marx a rovescio, prima come farsae poi come tragedia. La farsa è quel siparietto che ha visto protagonista il neosindaco di Merano, la tirolese di sotto Katharina Zeller, che riluttava a indossare la fascia tricolore, se l’è messa, poi se l’è tolta, poi se l’è un po’ rimessa, infine se l’è definitivamente tolta, perché lei con l’Italia non vuole avere niente a che fare e soprattutto vuol farlo sapere ai suoi elettori sudtirolesi. La tragedia, invece, è la scomparsa di uno degli ultimi simboli viventi d’italianità, Nino Benvenuti, istriano cacciato da bambino con la sua famiglia dalla sua terra e che amava davvero l’Italia. Lo ha dimostrato mille volte nella sua vita di pugile e di cittadino; ma io ricordo un episodio mitico, che accadde alle Olimpiadi di Roma nel 1960, e che alcuni anni dopo fu per me la rappresentazione più bella dell’amor patrio: fu quando Nino vinse la medaglia d’oro e la bandiera italiana fu issata più in alto di quella americana e di quella sovietica che conquistarono le postazioni successive. L’inno di Mameli risuonò sovrano sugli altri inni nazionali. Vedere la bandiera della piccola grande Italia torreggiare su quella degli Stati Uniti e sulla falce e martello dell’Unione sovietica, vale a dire i due imperi allora dominanti, fu per me - ragazzo degli anni Settanta, che sventolava all’epoca il tricolore nelle piazze, quando era quasi proibito, comunque disdicevole e pericoloso - uno dei simboli più belli e rari da sbandierare per la fierezza di essere italiani. Non era il tricolore delle guerre e nemmeno quello dell’Italia fascista, non c’erano discorsi e trombettieri a enfatizzare il tricolore, c’era un tricolore issato in una competizione sportiva, pacifica, dei nostri tempi.
Quando anni dopo conobbi Nino Benvenuti glielo dissi e gli ricordai che come molti italiani, refrattari al pugilato, seguii con insolita passione i suoi mitici match con Emile Griffith e poi con Carlos Monzon, nel ’71; credo di non aver mai partecipato con tanto pathos a un incontro di pugilato, se non quando Benvenuti fu battuto da Monzon. Capì allora, a suon di pugni, la nobiltà della sconfitta; quella sconfitta fu più ricca d’umanità e di onore della vittoria mondiale con Griffith. Il precedente rispetto a Benvenuti era stato Primo Carnera, il gigante friulano, povero emigrato, e poi orgoglio degli italiani d’America e del mondo; ma altra epoca, altro mondo. Ma di tutta quella storia di Benvenuti, l’altro giorno le veline del mainstream sulle prime pagine dei giornali se ne sono dimenticate, per buttarla sulla solita menata, l’amicizia di Benvenuti con Griffith gay e nero, dunque doppiamente benemerito a prescindere.
Certo, nel tricolore di Benvenuti c’era la tragica epopea degli istriani e dalmati sfrattati dalle loro case, dalle loro terre. Nel tricolore rifiutato dalla Zeller c’è invece la storia di un’appartenenza mal sopportata, mai digerita, che è costata tanto, a noi italiani e a loro, ma su piani diversi. Forse in un’Italia perfetta, mi dicevo da ragazzo, Nizza e l’Istria, la Dalmazia dovevano essere italiane e l’Alto Adige doveva essere austriaco. Non erano poi sbagliati gli Imperi centrali, spazzati via dalla Prima guerra mondiale, perché i triestini e gli istriani convivevano bene con austriaci e slavi, non si sentivano a disagio sotto gli Asburgo, le diversità erano rispettate.
Ora non pretendo che chi non ha mai sentito l’identità italiana come sua, l’abbracci e si converta. Ci sono modi diversi di mantenere non solo il bilinguismo ma anche il bipatriottismo: un buon esempio è Jannik Sinner, che si mostra fieramente italiano, pur parlando in casa tedesco ed essendo altoatesino (ma risiedendo come molti suoi colleghi a Montecarlo). In fondo anche Alcide De Gasperi era perfettamente integrato nell’Austria, nella lingua e perfino nella Dieta di Vienna, prima di diventare il primo, grande statista dell’Italia repubblicana.
Del resto so bene che l’amor patrio non si può inoculare con un’endovena di bianco, rosso e verde, non è un vaccino obbligatorio da somministrare anche ai riluttanti, e la fascia tricolore non è olio di ricino da far ingurgitare a chi non la digerisce. Dunque capisco, forse si può ipotizzare per quelle zone a cavallo tra l’Adige e il Tirolo, una fascia simbolica che traduca il bilinguismo, che so, in un tricolore con stemma tirolese. Però l’amor patrio è come il coraggio di don Abbondio e chi non ce l’ha non se lo può dare e tantomeno glielo puoi imporre per decreto. E va riconosciuto che il loro vero amor patrio è verso la casa madre austriaca di cui sono i terroni: il Sud-Tirolo è l’unica regione d’Italia in cui ricorre la parola sud, preferiscono all’Alto Adige il Basso Tirolo: si è sempre i terroni di qualcuno, diceva Luciano De Crescenzo. Fatte queste premesse e condiviso il relativismo pirandelliano applicato alla geopolitica e all’amor patrio, arrivo a una conclusione: ci sono scelte che tu fai in libertà e con passione, e poi ci sono regole che tu devi rispettare anche se non le condividi. Sul piano del giudizio storico e del sentimento patrio, nessuno può impedirti di sentirti estraneo all’Italia e amante di un’altra patria, succede spesso anche da noi, al sud, per esempio. O ai corsi con la Francia, ai baschi con la Spagna, e via dicendo. Nel caso della Zeller, poi, mi pare che la bandiera del suo cuore non sia nemmeno quella austriaca ma quella arcobaleno; perché lei non ama il tricolore non tanto perché si sente tirolese (questo magari lo fa più per utilità elettorale) ma perché si sente progressista, cittadina del mondo, pacifista globale e amica dei diversi. Inclusiva verso tutti, meno gli italiani.
Ma finché sei in Italia, devi rispettare le leggi e la Costituzione italiana, devi rispettare lo Stato e il territorio nazionale in cui abiti, pur riluttante, e devi quindi seguire gli obblighi legali, formali e rituali. È lo Stato italiano la tua Casa di Legge, il luogo in cui sei inserito, bene o male che sia; sono i carabinieri italiani, i poliziotti italiani, i tribunali italiani, i governi italiani a tutelare i tuoi diritti. E rispetto a loro e allo Stato tu hai dei doveri. Dunque, fai pure una campagna per avere una fascia diversa o bipatriottica, esprimi pure i tuoi sentimenti e le tue opinioni; ma mettiti quella fascia, è tuo preciso dovere, oppure toglitela insieme alla tua carica di sindaco.
Aggiungo che per quel che mi riguarda sarei ben felice che la signora lasciasse l’Italia detestata. Perché non è sempre vero, come invece è il caso della dipartita di Nino Benvenuti, che sono i migliori ad andarsene per primi.
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Riduci
Katharina Zeller (Ansa)
La sinistra corre a difendere Katharina Zeller, prima cittadina di Merano. La quale, almeno, sbatte in faccia la realtà ai compagni: le differenze culturali esistono. E per cancellarle non basta un secolo, figuriamoci un referendum.
Non sembra aver suscitato particolare sgomento o indignazione a livello politico e soprattutto mediatico il triste siparietto andato in scena l’altro giorno a Merano, protagonista il neo sindaco Katharina Zeller, esponente del Südtiroler Volkspartei (Svp) e appartenente al gruppo linguistico tedesco. La signora ha rifiutato la fascia tricolore che il primo cittadino uscente, Dario Dal Medico (di centrodestra), le ha porto affinché la indossasse in favore di telecamere e flash. La Zeller prima ha cercato di svicolare («Ma sei sicuro che devo proprio metterla?»), poi - quando il collega gliela ha gentilmente infilata - se l’è levata in fretta e furia, appoggiandola su un tavolo: «Mettiamola qui, dai».
Quando i rappresentanti alto atesini del centrodestra sono insorti, la Zeller ha malamente cercato di giustificarsi. «La mia reazione nel rimuovere la fascia tricolore subito dopo che mi era stata posta sulle spalle non deve in alcun modo essere interpretata come un gesto di disprezzo verso i simboli della Repubblica o verso il tricolore stesso», ha detto. «Indosserò la fascia con il massimo rispetto in tutte le circostanze previste dal protocollo istituzionale, come sempre fatto anche dai miei predecessori di lingua tedesca. Vorrei inoltre sottolineare che in Alto Adige, per consuetudine, il distintivo ufficiale previsto per i sindaci è il medaglione con lo stemma della città. In questo contesto, l’insistenza dell’avvocato Dal Medico nel volermi far indossare anche la fascia - in modo forzato e fuori dalle pratiche locali - è stata percepita da me come un gesto provocatorio e un chiaro segnale di sgarbo istituzionale. In un momento già carico di tensione, ho vissuto quel gesto come una sfida personale. La mia reazione è stata istintiva, umana, e in nessun modo politica o simbolica contro il tricolore. Mi dispiace constatare che si stia cercando di strumentalizzare questo episodio per deviare l’attenzione dalla vera notizia: la netta e storica vittoria al ballottaggio, con uno scarto di 1.880 voti».
Insomma, secondo la Zeller il problema starebbe nella forzatura messa in atto dal suo predecessore. «Questo tentativo di sollevare una polemica infondata punta solo a sminuire l’importanza di un cambiamento politico maturo, costruito su un reale dialogo tra i gruppi linguistici, che ho sempre promosso e continuerò a promuovere con responsabilità», ha aggiunto l’esponente Svp. La quale però, parlando con Repubblica, è apparsa decisamente meno conciliante e anzi ha scelto di buttarsi sui grandi classici del vittimismo di sinistra: il sessismo e il fascismo. «Mi sono opposta a un gesto provocatorio, teso a presentarmi come una bambina infantile obbligata ad ubbidire a un esperto uomo maturo», ha dichiarato. Poi ha aggiunto: «Non lo rifarei ma mi sono opposta a un gesto provocatorio dell’estrema destra».
Ovvio: la provocazione sarebbe l’invito a indossare la bandiera italiana, per la quale con tutta evidenza prova una certa repulsione. Lei ha sbagliato, ma è colpa della destra, del sindaco uscente che è un «uomo maturo» e infido.
La Zeller può provare a girarla come le pare, ma il fatto è che ha rifiutato il Tricolore, e non c’è scusa che tenga. Semmai, i tentativi di incolpare i fasci brutti e cattivi la rendono solo più ridicola. Il suo gesto è stato offensivo e pure ipocrita, poiché non risulta che la signora abbia intenzione di rifiutare anche i benefici economici derivanti dall’appartenenza alla Repubblica Italiana.
In realtà, il suo atteggiamento non può stupire chi conosca anche solo superficialmente la situazione dell’Alto Adige, dove certo la componente germanofona ha ragioni storiche e culturali per rimarcare la propria diversità. Stupisce un filo di più e irrita l’atteggiamento della sinistra italiana, che ha immediatamente preso le difese della Zeller. La quale, giova ricordarlo, è sostenuta dal Partito democratico ed è figlia di due politici potenti, ovvero Julia Unterberger (senatrice Svp) e Karl Zeller (ex senatore molto influente). Anch’essi sono legati da un antico rapporto di amicizia con i dem, e infatti il senatore Pd ed ex sindaco di Bolzano Luigi Spagnolli è corso in sua difesa: «Credo che Katharina Zeller avesse in mente qualcosa che nulla aveva a che fare con la fascia, abbia agito senza pensarci e semplicemente non si è resa conto che avrebbe urtato delle legittime sensibilità», ha detto Spagnolli. «Non dimentichiamo che i sindaci Svp, in genere, come dice anche lei, prediligono come simbolo della loro carica il medaglione con lo stemma del Comune, simbolo ufficiale previsto dalla normativa regionale sugli enti locali, e sono quindi poco abituati alla fascia. Il gesto è stato un errore, ma escludo che vi sia stata volontà di vilipendio del Tricolore. Semplicemente, quando si diventa sindaci, una ridda di pensieri si accumula nella testa e può succedere di fare qualcosa di sbagliato».
Ancora più grottesco il commento di Corrado Augias uscito ieri in prima pagina su Repubblica. Augias ha stigmatizzato l’alleanza fra Fratelli d’Italia e alcuni elementi provenienti dalla Svp a Bolzano, a suo dire negativa perché espressione di due nazionalismi opposti. Poi ha cercato di giustificare la Zeller spiegando che, nei fatti, gli altoatesini germanofoni appartengono a una cultura differente dalla nostra. «La sutura tra le due comunità non si è completata in un secolo e non si risolverà nemmeno in un prossimo futuro», afferma il lungimirante Corrado. E può anche darsi che abbia ragione. Ma viene allora da chiedersi: se gli austriaci del Sudtirol alleati della sinistra non si sono integrati e non si sentono italiani, perché dovrebbero farlo migliaia di stranieri nordafricani, centrafricani e asiatici che sbarcano in Italia ogni anno? Eppure il Pd sta promuovendo un referendum che chiede di concedere a questi ultimi la cittadinanza dopo soli cinque anni: dovrebbero costoro diventare italiani in un lampo quando la componente tedesca altoatesina non ci è riuscita in un secolo e briciole?
La vicenda della Zeller svela almeno due evidenze. La prima è che a sinistra l’amor patrio è considerato un optional: va bene a corrente alternata e in generale interessa poco pure a chi non appartiene a minoranze culturali e linguistiche. Il rigetto per la bandiera e la nazione è diffuso, e tutte le culture e le etnie vengono difese e valorizzate a patto che non siano italiane. La seconda evidenza riguarda appunto queste culture ed etnie: si può anche sostenere che non esistano o non abbiano peso, che si possono modificare e sostituire abolendo i confini. Ma, piaccia o no, le culture esistono e sono rilevanti, resistono alle interferenze e non si uccidono facilmente, nonostante i tentativi dei progressisti. I quali, a differenza degli altoatesini, non hanno ragione alcuna per non sentirsi italiani.
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