Si avverte un fastidio subbuglio gastrico quando si osserva l’ennesima mobilitazione degli intellettuali andata in scena alla Biennale di Venezia. Non tanto per la causa difesa, che se sostenuta in altre forme sarebbe condivisibile senza tentennamenti. Piuttosto per la consapevolezza del fatto che i nostri maestri del pensiero, i nostri fulgidi artisti e rigogliosi creativi si muovono soltanto per battaglie che garantiscano non solo luminosi riflettori ma pure diffusi apprezzamenti. Manifestano, firmano e si indignano, insomma, soltanto per campagne riconosciute e approvate nel tinello della cultura che conta, mai per qualcosa che sfugga agli schemi, che esponga a rischi e attacchi. Pochissimi scelgono questa seconda via, e ne pagano amaramente le conseguenze. Viene in mente ciò che scriveva Massimo Fini una quarantina di anni fa, e cioè che «la vera e determinante questione morale italiana più che nella notoria corruzione della classe politica sta proprio qui: nella corruzione degli intellettuali, nella loro abdicazione, per opportunismo, viltà e tornaconto, alla coerenza nell’aver eretto la malafede a principio o, quantomeno, a modo di vita. Perché una società i cui politici sono corrotti può recuperare, ma una società in cui gli intellettuali e i moralisti sono più corrotti di coloro cui pretendono di far la morale non può che precipitare nel caos». Queste righe sono ancora più che valide. Mai che i nostri attori sfilino e si espongano per una causa che esca dai rigidissimi confini del politicamente corretto. Eppure distinguersi dalla massa è possibile, eccome se lo è, e lo dimostrano gli esempi nemmeno eccessivamente eroici di artisti e intellettuali stranieri. Per altro gente di grande successo e provata fama, che nessun interesse avrebbe a cantare fuori dal coretto dei buoni. Prendiamo il romanziere Sebastian Faulks, uno che sforna bestseller e a cui hanno pure affidato a un certo punto la prosecuzione della saga di James Bond. In una lunga intervista al Telegraph, Faulks, che non è certo un pericoloso destrorso, ha il fegato di parlare di immigrazione, proprio mentre in Inghilterra sono in corso furenti proteste contro l’attualentestione del sistema di accoglienza. «Ciò che manca è un dibattito veramente maturo», dice lo scrittore. «Di quanti migranti economici abbiamo bisogno? Perché abbiamo bisogno di così tante persone? Quando i precedenti occupanti (quelli che già vivono nel Regno Unito, ndr) hanno smesso di fare certi lavori e perché? E come gestire il flusso di immigrati?». Secondo Faulks il problema della migrazione di massa è prima di tutto economico, e a suo dire il tema andrebbe approfondito pubblicamente ma «questo non accade», crede, «perché non appena si inizia ad avere una discussione del genere, non appena si suggerisce una restrizione sui numeri o sui flussi controllati, allora la gente di sinistra dice che sei razzista». Sinceramente: ce lo vedete voi uno scrittore italiano a dire una cosa del genere in una intervista al Corriere della Sera? Se anche ci provasse, dal giorno dopo smetterebbero di invitarlo ai festival. È per questo, per non perdere prestigio che i nostri creativi preferiscono attenersi a copioni già scritti, aggregarsi a battaglie codificate e tutto sommato «presentabili», con l’unico risultato che in questa maniera contribuiscono a renderle conformiste e retoriche, meno efficaci e oneste. A scegliere cause urticanti finisce che si perdono ingaggi e compensi. Ne sa qualcosa J.K. Rowling, un’altra - dall’alto del suo impero mediatico - potrebbe fregarsene di parteggiare per questo e per quello, e invece da anni si scaglia contro i deliri trans ricavandone insulti e boicottaggi. Chris Columbus, regista dei primi due film di Harry Potter, ha dichiarato che non sarà possibile una reunion del cast originale. Motivo? Gli attori di Harry Potter si sono rivoltati contro la Rowling per i suoi commenti sui trans. «È diventato tutto così complicato con tutta questa politica», dice Columbus. «Ogni membro del cast ha la propria opinione, che è diversa dalla sua, il che rende tutto impossibile. Non so che cosa le sia successo». Beh, è successo che la Rowling ha scelto una lotta sbagliata, cioè non approvata dal pensiero prevalente nel mondo culturale occidentale, e ne paga le conseguenze. Certo non la si può oscurare o emarginare visto il peso che ha, ma la si può trattare come una pazza, come una che con l’età ha perso la brocca, e nel frattempo si organizzano boicottaggi contro di lei e le si bloccano i progetti. Eppure, J.K. non recede. Ce lo vedete uno scrittore italiano di successo a fare lo stesso? Certo che no. E allora, quando gli intellettuali di casa nostra si schierano compatti e firmano appelli, la prima reazione è quella di diffidare. La loro presenza rende le lotte meno serie, non più autorevoli. Cose che accadono quando si sceglie la via del conformismo.
Gli attivisti affilano le spade per la futura crociata trans: rivendicare il «terzo cesso»
Le femministe britanniche festeggiano. J.K. Rowling gongola su X: «Non scherzate con le donne scozzesi». Ma la battaglia per stabilire che le foglie sono verdi d’estate non è finita: gli attivisti trans stanno già affilando le spade, dopo la sentenza dell’altro ieri, con cui la Corte suprema di Londra ha affermato - incredibile! - che donne si nasce. A suggerir loro la strada da battere per vedersi riconosciuto, al contrario, il presunto diritto di diventarlo, è addirittura l’authority inglese per le pari opportunità. Kishwer Falkner, presidente dell’Equality and human rights commission (Ehrc) del Regno Unito, ha invitato gli interessati a sfruttare il loro «potere di rappresentanza» per rivendicare un «terzo spazio» a loro dedicato.
La discussione è nata dall’analisi delle immediate conseguenze del verdetto, secondo il quale identificarsi con il genere femminile non è sufficiente per ottenere le stesse tutele giuridiche che l’Equality act del 2010 concede alle donne. Le femministe di Edimburgo avevano promosso un ricorso contro un provvedimento del 2018, varato dal governo ultraprogressista di Nicola Sturgeon, che aveva permesso agli uomini di ottenere il cambio di sesso con un semplice certificato, regalando così ai trans quei benefici di legge. L’Ehrc di Falkner ha avvisato che, ai sensi dell’ultimo provvedimento dei giudici, il Servizio sanitario nazionale (Nhs) e gli altri enti pubblici del Regno Unito potranno essere sanzionati, in caso non si adeguino alla sentenza. Ad oggi, in ospedali e cliniche si trattano da donne tutte le persone che si indentificano come tali. Da adesso, invece, i trans non potranno più usare servizi riservati alle donne biologiche, nei nosocomi e nelle case di cura oltre che nelle palestre e nelle prigioni. Ecco perché la Commissione, che dovrà stilare delle linee guida per amministratori e funzionari, sta fomentando la futura campagna politica: se non possono stare insieme alle donne ma non vogliono stare nemmeno con gli uomini, i trans dovranno godere del suddetto «spazio». Vedrebbero ridotte le aspirazioni dal riconoscimento del «terzo sesso» a quello del «terzo cesso», compiendo comunque un ennesimo passo verso l’autosegregazione. La frammentazione della comunità in una miriade di gruppi, spesso l’un contro l’altro armati.
La fonte d’ispirazione ideologica è la stessa cui, ieri, hanno attinto i giornali italiani, praticamente listati a lutto. La Stampa, ad esempio, invocava «un approccio più inclusivo», basato «sulle esperienze concrete di discriminazione, piuttosto che su identità fisse. Chi subisce violenza, emarginazione o stigma - indipendentemente dal sesso assegnato alla nascita o dall’identità di genere - dovrebbe avere diritto a protezione». È l’alleanza dei sedicenti oppressi, che i filosofi definiscono «intersezionalismo», tanto di moda anche al di là dell’Atlantico. In questo caso, spostare l’accento dalla specificità del femminile alla comune esperienza di ingiustizia sociale serve a occultare la prepotenza di chi, di quella dimensione inscindibile dalle evidenze biologiche, vuole appropriarsi a sua discrezione. E benché infiniti martellamenti propagandistici ci abbiano quasi assuefatto ai ragionamenti sgangherati, suona ancora grottesco vedere un quotidiano che si domanda «cosa significa essere donna oggi». La donna non è donna da sempre? Al di là del ruolo, dell’importanza e delle prerogative che le varie civiltà le hanno accordato? La linea l’ha dettata, su Repubblica, l’artista Fumettibrutti, alias Josephine Yole Signorelli: «Definire i corpi attraverso il sesso biologico è escludente, ma soprattutto crea i presupposti per una progressiva nuova ondata di regressione sul fronte dei diritti». Oppure, per un’ennesima crociata Lgbtq+…
Il risvolto paradossale che potrebbe assumere la vicenda britannica dovrebbe aiutarci a ricordare che, in fin dei conti, il punto incassato è comunque, a sua volta, il prodotto di una civiltà deteriorata. Di un’epoca nella quale, per affermare l’ovvio, c’è bisogno di passare per le aule dei tribunali e i parlamenti. Proprio gli onorevoli di Westminster, nel 2023, furono chiamati a votare su una petizione che chiedeva di specificare che la parola sesso indicasse il «sesso biologico e non il “sesso stabilito da un certificato di riconoscimento del genere”». Sì: l’uomo è uomo, la donna è donna, per fare un bambino ci vogliono mamma e papà. La necessità di utilizzare il potere politico, o il martelletto di un magistrato, per scolpire su pietra ciò che non è più impresso nelle coscienze è il frutto della medesima avaria culturale che permette ai militanti transi di sfruttare il «potere di rappresentanza» e piegare al capriccio gli ordinamenti giuridici.
Il woke arretra e il principio di realtà riconquista qualche posizione. È vero. Ma fuori dalle trincee, il nostro mondo è in rovina.
«Fiera di voi». Così JK Rowling ha esultato per la storica sentenza della Corte Suprema inglese sulla definizione di donna in base al sesso biologico. L’autrice di Harry Potter, attiva da tempo nella polemica contro la cosiddetta «ideologia gender» e in difesa della «differenza biologica» delle donne, ha sostenuto e finanziato il gruppo femminista For Women Scotland, autore del ricorso arrivato fino al più importante tribunale britannico: «È toccato a queste donne straordinarie e tenaci, con un esercito di persone a sostenerle» ha scritto Rowling su X, «far arrivare il caso alla Corte Suprema e vincerlo. Così hanno protetto i diritti delle donne e di tutte le ragazze del Regno Unito». Infine un messaggio con la definizione di donna dal dizionario: «Donna, sostantivo: un essere umano adulto femminile».
«Abbiamo sempre sostenuto la protezione degli spazi basati sul sesso biologico: questa sentenza porta chiarezza e fiducia, per le donne e per chi fornisce servizi come ospedali, rifugi o club sportivi», ha detto il portavoce del premier Keir Starmer mentre per Jane Fae, direttrice del gruppo di sostegno TransActual UK,«la sentenza è molto preoccupante per i diritti umani».
Tra le primissime reazioni in Italia quella di Roberto Vannacci: «È stato ristabilito ciò che dovrebbe essere ovvio per chiunque non sia stato accecato dall’ideologia: la definizione legale di donna si basa sul sesso biologico. Non su un certificato modificato, non su un’identità dichiarata, ma sulla realtà dei corpi. Nell’Equality Act del 2010 i termini uomo e donna si riferiscono chiaramente al sesso biologico, non al sesso certificato. È una sentenza storica che segna un confine netto tra realtà e ideologia. Un confine che in Europa si cerca invece di cancellare in nome di un’inclusività che ha come unico effetto quello di negare le donne, riducendole a un’identità percepita, a una fantasia. L’Unione europea non vuole che si dica la verità: che le donne sono femmine e gli uomini sono maschi. Che la biologia non è un’opinione e non si può riscrivere a colpi di attivismo».
«Cosa dirà la sinistra - e con loro le finte femministe - adesso che sono i giudici a dire che una donna deve nascere donna? Se lo dice Trump non va bene, se lo stabiliscono i tribunali?», è stato invece il commento della deputata leghista Laura Ravetto. «La sentenza inglese si fonda su un principio biologico oggettivo e scientificamente fondato: il sesso biologico è determinato alla nascita ed è inscritto nel patrimonio genetico di ogni individuo. Il riconoscimento giuridico di questa realtà non è una negazione della dignità delle persone transgender, ma un’affermazione del fatto che il diritto non può prescindere dalla realtà biologica» afferma la deputata di FdI Ylenia Lucaselli, «Negare la differenza sessuale significherebbe minare le basi della protezione di diritti specifici legati al sesso, come quelli previsti per maternità, sport, salute femminile. La sentenza riafferma quindi un principio di verità che oggi è spesso messo in discussione in nome di una percezione soggettiva del genere. Ma la legge, per essere giusta, deve partire dalla realtà, e la realtà è che essere donna implica un dato biologico».
«C’è voluta addirittura una sentenza della Corte suprema del Regno Unito per ribadire cosa è una donna, cioè, un essere umano adulto di sesso femminile, e non chiunque si autopercepisca come tale», dice Maria Rachele Ruiu, portavoce di Pro Vita & Famiglia Onlus, «si tratta di una sentenza che, oltre a tutelare le donne, ribadisce l’infondatezza dell’approccio gender secondo cui l’identità percepita prevale sui dati biologici oggettivi, innati e immodificabili dell’identità sessuata: essere uomini o donne è un fatto incontrovertibile. È urgente che anche il governo italiano prenda maggiore coraggio per smantellare questa delirante ideologia che ha invaso anche l’Italia promossa dai movimenti Lgbtqia+ e trans-femministi».
La sintesi più efficace e spietata di questa storia orrenda l’ha fatta J.K. Rowling su X: «Non dobbiamo pubblicare uno studio che affermi che stiamo facendo del male ai bambini perché le persone che dicono che stiamo facendo del male ai bambini useranno lo studio come prova che stiamo facendo del male ai bambini, il che potrebbe renderci difficile continuare a fare del male ai bambini».
Sembra una filastrocca, e invece è il riassunto della sgradevole vicenda che ha per protagonista la dottoressa statunitense Johanna Olson-Kennedy, responsabile della gender clinic più grande degli Usa presso il Children’s Hospital di Los Angeles. Come ha raccontato il New York Times, la autorevole professionista della salute nel 2015 ha dato il via a uno studio che rientrava in un ampio progetto federale sui giovani transgender, finanziato dal governo per il tramite del National Institutes of Health con la bellezza di 9.7 milioni di dollari. Secondo il quotidiano americano, la Olson-Kennedy «e i suoi colleghi hanno reclutato 95 bambini da tutto il paese e hanno somministrato loro dei bloccanti della pubertà, che impediscono i cambiamenti fisici permanenti - come il seno o un abbassamento della voce - che potrebbero esacerbare il loro disagio di genere, noto come disforia. I ricercatori hanno seguito i bambini per due anni per vedere se i trattamenti migliorassero la loro salute mentale. Un vecchio studio olandese aveva scoperto che i bloccanti della pubertà miglioravano il benessere, risultati che hanno ispirato le cliniche di tutto il mondo a prescrivere regolarmente i farmaci come parte di quella che oggi viene chiamata cura di affermazione di genere».
Insomma, gli studiosi americani cercavano basi scientifiche su cui fondare l’approccio che oggi va per la maggiore, cioè quello cosiddetto «affermativo», che consiste di fatto nell’accettare e incentivare l’autodeterminazione delle persone (anche minorenni) che si dichiarano transgender. Piccolo problema: lo studio della Olson-Kennedy non ha dato i risultati sperati: «I bloccanti della pubertà non hanno portato a miglioramenti della salute mentale, ha detto la dottoressa, molto probabilmente perché i bambini stavano già bene quando è iniziato lo studio».
I minori erano «davvero in ottima forma quando sono arrivati, ed erano davvero in ottima forma dopo due anni». Come nota il New York Times, «questa conclusione sembrava contraddire una precedente descrizione del gruppo, in cui la dottoressa Olson-Kennedy e i suoi colleghi avevano notato che un quarto degli adolescenti erano depressi o con tendenze suicide prima del trattamento».
Dove sta il problema? Semplice. Nel fatto che «nei nove anni trascorsi da quando lo studio è stato finanziato dal National institutes of health, e da quando l’assistenza medica per questo piccolo gruppo di adolescenti è diventata una questione scottante nella politica americana, il team della dottoressa Olson-Kennedy non ha pubblicato i dati. Alla domanda sul perché, ha detto che i risultati potrebbero alimentare il tipo di attacchi politici che hanno portato al divieto dei trattamenti di genere tra i giovani in più di 20 stati, uno dei quali sarà presto preso in considerazione dalla Corte Suprema».
Come mai i risultati dello studio non sono stati resi pubblici? «Non voglio che il nostro lavoro venga utilizzato come arma», ha detto la dottoressa che lo ha guidato. «Deve essere perfettamente puntuale, chiaro e conciso. E questo richiede tempo». La Olson-Kennedy sostiene che i dati saranno pubblicati, prima o poi, ma ha aggiunto che il suo team «ha subito ritardi anche perché il Nih aveva tagliato parte del finanziamento del progetto. Ha attribuito quel taglio a scelte politiche, che il Nih negato».
Il punto è che ci si può nascondere finché si vuole dietro i presunti tagli e le presunte complicazione. Ma la realtà emerge piuttosto chiaramente. Come ha ben colto J.K. Rowling, i medici americani non vogliono rendere noti i risultati del loro studio perché questi contraddicono le loro visioni ideologiche e l’impostazione attualmente dominante. E non si tratta di una nostra supposizione: la professionista americana lo dichiara senza problemi. «La dottoressa Olson-Kennedy è uno dei sostenitori dei trattamenti di genere per gli adolescenti più accesi del paese ed è stata testimone in molte sfide legali contro i divieti statali», scrive il New York Times. «Ha detto di essere preoccupata che i risultati dello studio possano essere utilizzati in tribunale per sostenere che «non dovremmo usare i bloccanti perché non hanno alcun impatto su di loro», riferendosi agli adolescenti transgender».
Sono frasi agghiaccianti: sappiamo da tempo che non vi sono certezze scientifiche sull’uso dei bloccanti della pubertà. Ma questa brutta faccenda mostra al di là di ogni dubbio fin dove possa arrivare l’ottusità ideologica. In assenza di prove si continuano a somministrare ai ragazzini e alle ragazzine farmaci potenzialmente molto dannosi. E quando emergono prove a favore della loro inutilità, queste prove vengono nascoste. Sempre il Times spiega che alcuni ricercatori che hanno partecipato allo studio «erano allarmati dall’idea di ritardare i risultati che avrebbero implicazioni immediate per le famiglie di tutto il mondo».
Già, i risultati non sono stati pubblicati. In compenso, però, è stata data larga diffusione alle ipotesi (apparentemente infondate) della dottoressa Olson-Kennedy. Scrive il New York Times che «nel 2020, il gruppo della dottoressa Olson-Kennedy ha descritto il profilo psicologico iniziale dei bambini arruolati nello studio statunitense sui bloccanti della pubertà, la cui età media era di 11 anni. Prima di ricevere i farmaci, circa un quarto del gruppo riferiva sintomi di depressione e ansia significativa, e un quarto ha riferito di aver avuto pensieri suicidi. L’8% ha segnalato un tentativo di suicidio in passato. In un rapporto sullo stato di avanzamento presentato al Nih in quel periodo, la dottoressa Olson-Kennedy delineò la sua ipotesi su come se la sarebbero cavata i bambini dopo due anni di trattamento con i bloccanti della pubertà: che avrebbero mostrato «una diminuzione dei sintomi di depressione, ansia, sintomi di trauma, autolesionismo e tendenza suicidaria, e un aumento della qualità della vita nel tempo».
Come sappiamo, questa ipotesi non è stata confermata dalle ricerche: un risultato che gli studiosi statunitensi hanno accuratamente evitato di rendere noto al pubblico, poiché temevano che avrebbe portato acqua ai critici dell’ideologia transgender. Così ormai funziona la scienza occidentale: viene sempre ascoltata e idolatrata, a patto che confermi ciò che la politica vuole imporre.
Ha ragione J. K. Rowling: siamo di fronte a quello che sarà ricordato (o almeno dovrebbe esserlo) come «uno dei peggiori scandali medici della storia». Secondo la scrittrice, «i Wpath files mostrano al di là di ogni dubbio che interventi chirurgici e farmaci i cui benefici non sono dimostrati vengono somministrati a persone che non possono dare il consenso informato». Conclusione: «Se continui a fare il tifo per questo, sei complice».
La creatrice di Harry Potter (nel frattempo denunciata alla polizia dall’attivista trans India Willoughby per «misgendering», cioè per utilizzo di pronome sbagliato) in un post pubblicato sui social ha fornito la perfetta sintesi di una vicenda incredibile quasi ignorata dai media italiani. L’organizzazione di inchiesta indipendente Evironmental Progress di Michael Shellenberger ha messo le mani su una notevole mole di materiale riguardante la World professional association for transgender health, ovvero la associazione per la tutela della salute dei pazienti trans al mondo. Si tratta di centinaia di messaggi che i membri dell’associazione (medici e professionisti sanitari, per lo più) si sono scambiati a proposito delle cure da somministrare ai pazienti - anche giovanissimi - intenzionati a cambiare sesso.
Quel che emerge dai file (ribattezzati Wpath Leaks) è raccapricciante: in buona sostanza, i medici mostrano di non avere alcuna certezza sul risultato dei processi di medicalizzazione, di non essere in grado di far comprendere ai pazienti - soprattutto i più giovani - la portata degli interventi a cui verranno sottoposti e, più in generale, di sottomettere totalmente la scienza all’ideologia. Il fatto è che i membri del Wpath si sentono parte di una sorta di «avanguardia». Si percepiscono come eletti impegnati in una missione civilizzatrice, e liquidano tutti i loro critici alla stregua di «nemici della scienza», retrogradi e terrapiattisti.
Un atteggiamento che si evince con facilità dal commento che Marci Bowers, presidente del Wpath, ha rilasciato dopo l’uscita dei file interni. «Wpath è ed è sempre stata un’organizzazione fondata sulla scienza e sull’evidenza, le cui raccomandazioni sono ampiamente approvate dalle principali organizzazioni mediche di tutto il mondo», ha scritto la Bowers. «Siamo i professionisti che meglio conoscono le esigenze mediche degli individui trans e di genere diverso e ci opponiamo a coloro che travisano e delegittimano le diverse identità e i complessi bisogni di questa popolazione attraverso tattiche intimidatorie. Il mondo non è piatto. Il genere, come i genitali, è rappresentato dalla diversità. La piccola percentuale della popolazione che è trans o diversa dal punto di vista del genere merita assistenza sanitaria e non costituirà mai una minaccia per il binario di genere globale».
Come vedete non ci sono risposte nel merito ma un generico richiamo alla fede scientifica, un pizzico di vittimismo e l’accusa ai critici di essere idioti con l’anello al naso. Gli eletti del Wpath si propongono come i soli in grado di comprendere le esigenze dei pazienti aspiranti trans, e non accettano valutazioni esterne sul loro lavoro. Il che la dice lunga sulla disponibilità al dialogo di costoro.
Il problema è che tutto questo non è affatto una novità. Era già stato denunciato ampiamente ben prima che l’organizzazione di Shellenberger facesse esplodere il bubbone, ma nessuno è intervenuto per timore di essere accusato di transfobia. Che mancassero le evidenze e che a guidare la grande macchina del cambiamento di sesso fosse soprattutto l’ideologia era già stato dimostrato dagli approfonditi articoli di Eliza Mondegreen, laureata in psichiatria e autrice di inchieste per la testata britannica (di sinistra) Unherd.
Dopo anni di ricerca su questo complicato settore della medicina, la Mondegreen arriva ad affermare che «diventare un buon clinico di genere significa superare le proprie riserve e i propri dubbi sugli interventi forniti al servizio della causa. A differenza della pratica medica in altri settori - come la gestione del diabete o il trattamento del cancro - il campo della medicina di genere non ha indicatori oggettivi di malattia su cui basarsi, solo la testimonianza del paziente secondo cui il suo corpo così com’è è insopportabile, e deve essere cambiato. Alla conferenza del Wpath del 2022 a Montreal ho sentito più e più volte la stessa storia: i medici si alzavano e raccontavano ai loro compagni di fede come avevano superato i loro dubbi. Un chirurgo plastico si è sentito a disagio la prima volta che un paziente gli ha chiesto di eseguire un intervento di “annullamento”, che rimuove tutti i genitali esterni. In una ricapitolazione contorta del viaggio dell’eroe, il chirurgo ha poi superato le sue riserve e ora esegue regolarmente questi interventi chirurgici estremi e incoraggia i suoi colleghi chirurghi a seguire il suo esempio».
Per diventare un bravo clinico del genere, insomma, è necessario compiere una sorta di percorso di illuminazione, mettere da parte i propri dubbi e abbracciare la fede. Già alla fine del 2023, dopo aver partecipato ad alcuni incontri fra membri del Wpath, la Mondegreen scriveva: «È difficile immaginare che i medici che esercitano in altre aree della medicina non si pongano domande così basilari, soprattutto quando le basi del trattamento sono così oscure. Ma un buon clinico di genere, guardando un paziente, non vede ciò che potrebbero vedere i non credenti come voi o me. Un buon medico cade sotto l’influenza della stessa fantasia del paziente e cospira con lui per dare vita al suo sé transgender. In questo quadro, non esiste un “realmente trans”. Esiste solo ciò che dice il paziente e la disponibilità del clinico a mettersi al servizio della visione del paziente».
«Per anni», insiste l’autrice, «i clinici di genere hanno rassicurato pazienti e genitori sul fatto che le prove alla fine avrebbero confermato le nobili promesse della transizione: che la transizione salva la vita; che gli approcci psicoterapeutici al disagio di genere non funzionano e costituiscono invece una “terapia di conversione” non etica. Ma mano a mano che i dati iniziano ad arrivare, sembra improbabile che la transizione sia all’altezza di queste elevate aspettative».
Il medico «illuminato» che si occupa di disforia di genere e di pazienti trans, ovviamente, non è disposto ad accettare alcun tipo di critica. «Un intero campo della pratica medica si è impegnato in un oscurantismo virtuoso», ha scritto ancora Eliza Mondegreen. «I clinici che affermano il genere si sentono incompresi dai loro critici. Non si fidano degli estranei per mettere il lavoro che svolgono nella giusta luce. C’è sempre il rischio che qualcuno guardi agli interventi chirurgici ricostruttivi salvavita del torace per i minori transmascolini e veda la cosa sbagliata: medici che eseguono amputazioni del seno su ragazze adolescenti in difficoltà. Pertanto, per difendere il lavoro “salvavita” che svolgono, devono dissimulare, oscurare o praticare altre forme di “inganno celeste”». A parere dei membri del Wpath, «i critici delle cure che affermano il genere rientrano nello spettro della transfobia: con i dinosauri da un lato, i genocidi dall’altro. […] Il risultato di questa visione manichea del mondo è che non c’è dialogo possibile con i critici e non c’è spazio per un serio dissenso all’interno del movimento stesso: “Se combattiamo tra di noi, le forze di oppressione hanno vinto”, ha affermato il presidente uscente dell’Usparth Maddie Deutsch. Nessuno, in nessuna conferenza, ha discusso i rischi e le incognite legati ai bloccanti della pubertà e ai loro possibili effetti sullo sviluppo del cervello, o le prove che suggeriscono che i bloccanti possono cambiare il corso della vita di un bambino trasformando quella che potrebbe essere stata una fase di sviluppo in una condizione permanente».
Questa è la verità sul Wpath: la scienza e l’attenzione al paziente vengono cancellate in nome di una pseudoreligione, a danno di giovani e giovanissimi. Ha ragione da vendere J.K. Rowling: chi non si oppone a questo schifo è complice.







