content.jwplatform.com
Siamo in inverno, risalgono i contagi e risale la tensione mediatica. Ne parliamo con il dott. Roy De Vita
Siamo in inverno, risalgono i contagi e risale la tensione mediatica. Ne parliamo con il dott. Roy De Vita
Con Dario Giacomini e Alessandro Rico parliamo dei tentativi di fare risalire la tensione. E di chi oggi è ancora invisibile.
Non solo i casi di bronchioliti nei bambini: anche quelli dell'influenza stanno già crescendo in modo importante, ma per il Sistema sanitario sembra esistere solo il Covid. «La curva di esordio dell'influenza, come dimostrano i dati di Influnet (Istituto superiore di sanità, ndr), è quattro volte superiore rispetto agli ultimi 15 anni», dichiara Silvestro Scotti, segretario della Federazione medici di medicina generale (Fimmg). «La linea di partenza, alla 42esima settimana, pare altissima», aggiunge il medico all'Adnkronos osservando che i medici di famiglia stanno «vedendo molte epidemie familiari: parte il bambino poi seguono tutti gli altri. È una situazione preoccupante». Anche Marco Bosio, direttore generale dell'ospedale Niguarda di Milano, segnala che il virus influenzale «attualmente è già circolante. Lo si vede anche al Pronto soccorso: ci sono persone con sintomi respiratori, ma non hanno Covid». Non stanno aumentando i ricoveri, ma questo è l'ennesimo effetto delle misure anti-Covid che, negli ultimi due anni, hanno evitato la normale esposizione ai microorganismi che permettono al sistema immunitario di mantenersi in allenamento. In pratica, le stesse misure che ci hanno protetto dal Covid, avendo impigrito le difese dell'organismo, ci hanno reso, quest'anno, più suscettibili ad altre infezioni. È la condizione che alcuni specialisti definiscono debito di immunità: dopo un periodo di non esposizione a livelli tipici di virus e batteri, c'è un picco di infezioni.
Basta confrontare le curve sull'andamento dell'influenza degli ultimi anni su Influnet. «Nel 2017/18, al picco, cioè tra fine dicembre e gennaio, si contavano 15 casi per mille assistiti», spiega Giovanni Di Perri, professore ordinario di malattie infettive all'Università di Torino. «Nel 2019/20 erano 12-13 casi, mentre la scorsa stagione, in piena pandemia, si sono registrati due casi su mille assistiti. Oggi - mesi prima del picco - ne abbiamo già a quattro su mille. La curva nascente sta salendo ed è più alta rispetto alle stagioni precedenti». Particolarmente indicativo quello che sta accadendo nei bambini sotto i cinque anni e per i quali l'incidenza, sempre secondo l'Iss, è di 17, 9 casi per mille assistiti, contro il 4,2 della popolazione generale. «Una precedente stagione senza influenza, spiega la maggiore suscettibilità dei piccoli che, a differenza del resto della popolazione», afferma Di Perri, «non avendo avuto già contatti con altri virus respiratori, non hanno una memoria immunitaria che può proteggerli». Quest'inverno, quindi, chi ha avuto un contatto con un virus influenzale nel 2018, ma non nel 2019 e 2020, «potrebbe avere una forma un po' più forte di malattia del raffreddamento», continua il professore, «perché non ha avuto la vaccinazione spontanea dovuta a un minimo di esposizione e stimolo, ma si tratta di un assestamento del sistema di difesa. La memoria immunitaria, ottenuta per infezione o vaccino, protegge dalle forme gravi di influenza, come dal Covid, anche se si abbassano gli anticorpi».
L'influenza è una malattia sottostimata. Ha infatti causato più vittime di quelle generate dalle pandemie dell'ultimo secolo (dal 1918 a oggi): 48,41 milioni contro oltre 24 milioni. L'impatto globale dell'influenza è di oltre un miliardo di casi all'anno, con conseguenze che portano a un numero di decessi che varia fra i 290 a 650.000. In Italia, secondo uno studio del 2018, si stimano in media 300.000 ricoveri per l'influenza e complicanze: il 65% delle ospedalizzazioni e l'85% dei decessi riguardano principalmente persone over 65. In questa stagione sono attesi «dai 4 ai 6 milioni di casi di influenza vera, più le forme simil influenzali dei tanti virus meno invasivi, con in più il Covid», per Fabrizio Pregliasco, virologo della Statale di Milano, che ricorda come «nelle annate normali l'influenza ha fatto dai 6.000 ai 10.000 morti per le complicazioni». Tra queste, le più frequenti sono le broncopolmoniti e un aggravamento di condizioni croniche sottostanti. Cosa aspettarsi in questa stagione? Un aumento dei ricoveri, «anche se l'influenza, rispetto al Covid, impatta in misura minore sulle terapie intensive», ricorda Di Perri osservando che, «continuando a mantenere il distanziamento, l'incidenza potrebbe non essere elevata». Certo, soprattutto negli over 65 e nei soggetti fragili, c'è la vaccinazione che, per l'influenza, può essere fatta anche insieme alla terza dose dell'anti-Covid. Oltre a evitare le forme gravi delle malattie ridurrebbe la possibilità di co-infezione Covid e influenza che, come mostra uno studio britannico, raddoppia il rischio di ricovero in terapia intensiva e di morte rispetto alla sola infezione da Sars-Cov2. D'altro canto, una ricerca italiana del 2020 ha rilevato che, adulti e anziani vaccinati nel 2019 contro lo pneumococco, avevano meno probabilità di infettarsi con Sars-Cov-2. Ci aspetta una stagione influenzale inedita, soprattutto se si considera che, secondo Andrea Crisanti microbiologo dell'Università di Padova, il Covid si orienta verso i numeri di una «influenza severa».
In epoca non Covid, novembre era il mese dell'allarme virus influenzale. «Ogni anno si verificano diverse centinaia di morti attribuite direttamente all'influenza, ma stimiamo anche che 7-8.000 persone muoiano per conseguenze e complicanze di questa infezione», ammoniva nel 2015 Gianni Rezza, direttore del dipartimento malattie infettive dell'Istituto superiore di sanità. Dalle pagine del Corriere della Sera ricordava che nel 2014 «la stagione di attività è stata intensa per i virus influenzali, per cui ci siamo avvicinati a 6 milioni di casi».
La situazione non migliorò negli anni a seguire, come poi vedremo, ma oggi di influenza si parla malvolentieri, quasi fosse un malanno trascurabile. Meglio ingigantire i dati relativi ai contagi da coronavirus, nemmeno fossero l'elenco degli appestati. Ieri sui giornali uno dei titoli più ricorrenti era: «Il virus torna a far paura, a Bolzano 3.382 persone in quarantena». Roba da sobbalzare sulla sedia, che cosa mai avranno fatto per infettarsi tutti in un colpo? Poi vai a vedere i dati dell'Asdaa, l'azienda sanitaria dell'Alto Adige e scopri che ancora una volta vengono sparati dati cumulativi, come quando nel bollettino quotidiano nazionale conteggiano i casi da inizio pandemia, mai quelli relativi all'ultima settimana.
A Bolzano, dunque, non è arrivata la quinta ondata, almeno per il momento. Il 3 novembre sono stati segnalati 196 nuovi positivi e in quarantena ne erano finiti 133. Che poi sarebbe ora di intendersi sui termini, visto che quarantena significa isolamento né più né meno di quanto farebbe una persona colpita dall'influenza. Non era allarmante la situazione nemmeno il 2 novembre, con + 34 positivi e + 10 in quarantena. Il 31 ottobre c'erano + 134 in isolamento domiciliare e + 78 nuovi positivi, numeri ben lontani dal significare emergenza.
Lo conferma anche il commissario straordinario, riferendo che la situazione a livello nazionale «nel mese di ottobre mostra un rialzo della curva epidemica, con un progressivo incremento dell'incidenza settimanale di nuovi casi», però «alla crescita dei contagi non corrisponde, per ora, un incremento proporzionale di ospedalizzazioni». Il generale Francesco Paolo Figliuolo precisa infatti che «secondo le rilevazione aggiornate al 3 novembre, 3.029 persone sono ricoverate con sintomi in degenza ordinaria e 381 in terapia intensiva a fronte rispettivamente di 3.198 e 440 soggetti ricoverati al 30 settembre scorso».
Guardiamo che cosa accadeva sul fronte virus stagionale, prima che il Covid diventasse lo spauracchio onnipresente. Tra il 28 ottobre e il 3 novembre 2019, il primo bollettino stagionale della Rete Influnet dell'Istituto superiore di sanità segnalava 89.000 persone colpite da influenza, per un totale di circa 243.000 casi dall'inizio della sorveglianza, avviata il 14 ottobre di quell'anno. I nuovi positivi al Covid, invece, dal 1 ottobre al 1 novembre 2021, sono stati 99.025, tanto perché si comprendano le differenze di numeri e l'ingiustificato allarmismo.
Senza contare che nel 2019 l'Iss avvisava che i dati erano fortemente sottostimati, perché pochi medici avevano partecipato all'indagine. Scorrendo i vari rapporti della sorveglianza integrata dell'influenza, leggiamo per esempio che nella settimana tra il 23 e il 29 aprile 2018 ci furono 39.000 casi di sindrome influenzale e che «la mortalità è stata inferiore al dato atteso, con una media giornaliera di 184 decessi rispetto ai 199 attesi». Ieri, i nuovi 5.905 positivi al Covid sono stati presentati come «forte aumento» dei contagi. Nella stessa settimana, un anno prima l'Iss riportava «una media giornaliera di 189 decessi rispetto a 186 attesi». Fanno più di 5.500 decessi al mese mentre noi dobbiamo accontentarci del solo conteggio dei morti per Covid, 1.188 negli ultimi trenta giorni.
Nel 2017 ci fu un boom di decessi per influenza. «Possiamo stimare un dato nazionale di morti in eccesso tra 15 e 20.000», dichiarò l'allora presidente dell'Istituto superiore di sanità, Walter Ricciardi. «Lo scorso anno ad esser state colpite sono state oltre 8 milioni di persone, tra cui 833.000 bimbi sotto i 5 anni» spiegò a novembre 2019 Antonino Bella, responsabile della sorveglianza Influnet.
Adesso, invece, l'unico male sembra essere sempre e solo il Covid. Eppure non c'è motivo di allarmarsi con la situazione sanitaria attuale e con «l'86,41% della popolazione vaccinabile (soggetti over-12)» che ha fatto almeno una dose e l'83,18% «con ciclo completo», come ha ricordato Figliuolo. Basterebbe guardare i dati pubblicati e dare il giusto risalto alle notizie reali, non alle previsioni catastrofiche. Ieri la direzione dello Spallanzani, l'Istituto nazionale per le malattie infettive, comunicava che erano ricoverati 85 pazienti positivi «di cui 2 in via di dimissione», 9 sono in terapia intensiva e che «l'attuale quadro epidemiologico ha consentito di ridurre i posti letto dedicati al Covid-19 in altri ospedali della rete regionale».
Un'ottima notizia, che oggi pochissimi giornali metteranno in risalto. Si teme il ritorno alla normalità, meglio far vivere nel terrore costante. Così capita di leggere che nel Padovano i ricoveri in terapia intensiva quest'anno arriveranno «a quasi 33.000», ha spiegato Paolo Navalesi, direttore di anestesia e rianimazione, ma senza sottolineare che solo 6.647 saranno di pazienti Covid. E si preferisce scrivere che la Lombardia ha il maggior numero di contagi, +745, omettendo di spiegare che rappresentano un nulla su 105.766 tamponi effettuati ieri. In quella Regione, il 4 novembre di un anno fa, i test dai quali emersero 7.758 nuovi positivi erano appena 43.716. Quelli sì, furono numeri preoccupanti.
L'avanzata del coronavirus sembra rallentare: con i nuovi 2.470 contagiati di ieri il numero dei malati di Covid-19 è salito a 23.073. Domenica, però, l'aumento era stato di 2.853 unità. Ora il numero complessivo di contagiati, comprese le vittime e i guariti, ha raggiunto i 27.980. Ci sono infatti 2.749 pazienti guariti dopo aver contratto il coronavirus, 414 in più in 24 ore. Domenica i guariti erano 369. In sostanza: scende il numero di contagiati e sale quello dei guariti. «Mancano i numeri della Puglia e della provincia di Trento», spiega il capo della Protezione civile Angelo Borrelli, «ma il trend complessivo è in ribasso». Lo confermano anche i dati della Lombardia. A Milano il coronavirus frena, anche se Brescia sorpassa Bergamo per numero di nuovi contagiati. A Brescia ieri sono stati registrati 445 tamponi positivi in più rispetto a domenica. A Bergamo, invece, si contano 344 contagiati in più in 24 ore. Solo 42 nuovi casi, invece, a Lodi. «A conferma», ha detto l'assessore lombardo al Welfare, Giulio Gallera, «che la strada intrapresa per contenere il virus è stata giusta». In Lombardia ora ci sono 14.649 positivi al coronavirus. I positivi di ieri: 1.377, «un dato inferiore a quello di domenica», sostiene Gallera, «in linea con quello degli altri giorni». Il dato dei ricoverati, però, cresce: 1.273 pazienti sono entrati ieri in un ospedale lombardo. I decessi invece sono arrivati a 1.420, ossia 202 in più rispetto a domenica. Nelle terapie intensive della Lombardia sono ricoverate 823 persone, 66 in più rispetto a domenica. A Milano città i contagiati sono 813 (domenica erano 711).
All'appello per avere in fretta altro personale sanitario hanno risposto 27 medici e quattro infermieri militari, che da ieri sono al lavoro nel Papa Giovanni XXIII di Bergamo. «A oggi», conferma Gallera, «sono arrivate 2.200 domande e ne sono state selezionate 1.020». L'appello è stato esteso anche ai medici pensionati. E se per l'ospedale alla Fiera di Milano il governatore Attilio Fontana è ottimista e annuncia che sul personale «presto ci saranno novità», ma Borrelli smorza: «Mancano le attrezzature».
Nel frattempo la Sicilia si blinda: stop ai collegamenti con il continente. Da tempo il governatore Nello Musumeci aveva chiesto l'adozione di questa misura ed era stato criticato. Nella notte di domenica, però, il ministro delle infrastrutture e dei Trasporti, Paola De Micheli, ha firmato il decreto che prevede la sospensione dei collegamenti. In Sicilia i casi positivi sono 213 e rappresentano lo 0,0043% cento del totale degli abitanti nell'isola, pari a 4.999.891 persone. La media nazionale è intorno allo 0,05%. L'isola si trova in basso nella classifica delle regioni, dietro ci sono Molise, Calabria e Basilicata. In quest'ultima regione il governatore di centrodestra, Vito Bardi, ha assunto provvedimenti più stringenti per chi arriva da fuori: 14 giorni di quarantena per chiunque entri nei confini lucani. Crescono in Campania, invece, i comuni chiusi come Codogno: Nel Vallo di Diano, territorio campano della provincia di Salerno, dalla tarda serata di domenica ci sono quattro interi comuni in quarantena. Così ha disposto il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, dopo l'accertamento di 16 casi di positività in un giorno solo a Sala Consilina, Caggiano, Polla e Atena Lucana. La diffusione del contagio, confermano le autorità, è partita dallo svolgimento, tra la fine di febbraio e l'inizio di marzo, di due ritiri spirituali in una chiesa di neocatecumenali. Al primo incontro, svolto in un hotel di Atena Lucana a fine febbraio, hanno partecipato circa 20 persone, tra le quali tre parroci. Uno dei sacerdoti è risultato positivo. All'incontro ha partecipato un anziano di Bellizzi, sempre in provincia di Salerno, morto la settimana scorsa e contagiato dal Covid-19. Ora sono cinque, quindi, i comuni campani in isolamento. Ariano Irpino, il primo paese isolato da De Luca, è chiuso con dei posti di blocco che impediscono ingressi e uscite. Tamponi a tappeto sulla popolazione di Castiglione Messer Raimondo, paesino abruzzese di 2.000 abitanti. Si contano già nove contagiati e il sindaco ha chiesto una misura simile a quella adottata da De Luca in Campania. Anche in Liguria provvedimenti più stringenti: troppe persone a passeggio lungo le scalinate storiche e i sentieri collinari a La Spezia lo scorso weekend. Per questo il sindaco Pierluigi Peracchini ha vietato l'accesso con un'ordinanza in vigore fino al 3 aprile. A Lecce è polemica per un provvedimento, firmato dal governatore pugliese Michele Emiliano, che ha fermato un pezzo del polo d'eccellenza destinato alla gestione delle emergenze proprio poco prima della diffusione dell'epidemia. Conta 40 posti letto, pronti dal 21 dicembre, ma non parte perché è stato bloccato il rifornimento del serbatoio per l'ossigeno. In Piemonte, invece, la Regione ha annunciato l'apertura in pochi giorni del nuovo ospedale di Verduno, nel Cuneese: sarà il centro di riferimento regionale per il Covid-19.

Paolo Ascierto (Ansa)
Usato tempestivamente, il tocilizumab, farmaco immunoterapico indicato per la cura dell'artrite e degli effetti collaterali di alcuni trattamenti oncologici (Car-T), potrebbe evitare l'intubazione in terapia intensiva per Covid-19. A una settimana dai primi trattamenti all'ospedale dei Colli (Napoli), si accende la speranza di poter ridurre la percentuale - oggi intorno al 10% - di pazienti che finiscono in letti di rianimazione. La battaglia contro il coronavirus potrebbe quindi spostarsi nei reparti di terapia subintensiva dove, accanto ai caschi respiratori - ordinati a migliaia in Lombardia e Veneto - si potrebbe ottimizzare una cura farmacologica innovativa. Anche perché ci vorranno parecchi mesi per testare efficacia e sicurezza del primo farmaco specifico per il coronavirus di Wuhan, sviluppato in questi giorni dall'Università olandese di Utrecht per bloccare in modo specifico una proteina fondamentale del virus Sars-Cov2. Tocilizumab «è stato somministrato in sette pazienti intubati», spiega alla Verità Paolo Ascierto, oncologo dell'Istituto Pascale di Napoli. «Tre hanno avuto un miglioramento, di cui uno importante: la tac ha mostrato un'importante riduzione della polmonite e potrebbe essere presto estubato. Degli altri quattro, tre sono stabili, mentre purtroppo uno è morto dopo poche ore dalla somministrazione del farmaco per un peggioramento del distress respiratorio. Venerdì abbiamo trattato altri tre pazienti non intubati. Erano in reparto con condizioni respiratorie critiche. Due di questi, sabato hanno avuto miglioramenti importanti: uno ha anche tolto l'ossigeno, l'altro è stazionario e ripete il trattamento».
Quanti sono i pazienti trattati?
«Attualmente ne risultano 600. L'azienda produttrice (Roche, rdr) sta fornendo il farmaco gratuitamente per questo impiego, è distribuito praticamente su tutto il territorio nazionale».
Ha già dei dati dagli altri centri?
«Tra i dati molto interessanti ci sono quelli di Fano-Pesaro, ove su 11 pazienti trattati otto hanno avuto un miglioramento. All'ospedale di Padova Sud (quello di Schiavonia, dove è stato scoperto il focolaio di Vo', ndr), su sei pazienti trattati, i primi dati di due mostrano un miglioramento importante dopo 24 ore».
Su quali presupposti avete iniziato l'uso di tocilizumab nella Covid-19?
«Quando abbiamo fatto un brain storming in istituto (al Pascale di Napoli, ndr) e c'è venuta questa idea, abbiamo contattato i nostri colleghi cinesi, dato che c'è una partnership tra l'istituto e la Cina. Ci hanno detto che era un'ottima idea: l'avevano usato su 21 pazienti e 20 di loro avevano avuto miglioramenti in 24-48 ore. Questo è stato lo studio che ci ha aperto la strada. Poche ore dopo eravamo all'azienda dei Colli per decidere sui primi due pazienti da trattare».
Quando partirà lo studio?
«A giorni, grazie a un protocollo già presentato ad Aifa. A fianco della sperimentazione continua l'impiego off label, cioè fuori indicazione, visto i risultati promettenti che abbiamo avuto. I dati dei pazienti trattati off label verranno messi insieme a quelli della sperimentazione, per capire quali sono i soggetti che hanno avuto un beneficio maggiore e le tempistiche per la somministrazione».
Alcuni usano il farmaco in terapia subintensiva per evitare l'aggravamento.
«Quello che ci dicevano i cinesi, e che stiamo vedendo anche noi, è che un trattamento fatto prima evita, praticamente, al paziente di andare in terapia intensiva. Dei nostri sette soggetti, tre hanno avuto miglioramento. Fra i pazienti critici in reparto, ma non intubati, che abbiamo trattato, tre hanno avuto miglioramento e l'altro tutto sommato era stazionario, ma siamo fiduciosi che possa rispondere al ritrattamento. Tutte le informazioni che abbiamo dagli altri centri vanno in questa direzione. I pazienti in terapia subintensiva sono quelli che potrebbero avere vantaggi maggiori ed evitare l'intensiva».
Dei medici osservano che ridurre l'attività del sistema immunitario potrebbe favorire l'aggressione del virus. Cosa ne pensa?
«Bisogna conoscere l'immunologia e l'immunoterapia dei tumori, dove usiamo strategie che danno a volte effetti collaterali dovuti all'iperattivazione del sistema immunitario. Quello che avviene nel polmone in seguito a infezione da Covid-19 è una iperattivazione del sistema immunitario che diventa deleteria. L'immunosoppressore serve a ridurre questa iperattivazione e, utilizzato come facciamo noi, e come ci hanno suggerito i cinesi, one shot, cioè un solo trattamento ripetibile la seconda volta dopo 12 ore e non più, non dà questi problemi».

