Partiamo da un tweet di un presunto top manager e ovviamente molto democratico: Chicco Testa, gran frequentatore di Capalbio lido. È stato il privatizzatore di Enel, ma anche parlamentare del Partito comunista, è stato leader di Legambiente, ma anche tra i più accesi sostenitori del nucleare. Il «ma anche» è dovuto per rispetto del suo nume tutelare Walter Veltroni. Qualche giorno fa ha cinguettato: «Lo Stato incassa tra tasse e concessioni 9 miliardi, Autostrade ha un utile netto di 2 miliardi, se nazionalizziamo prendiamo 2 e perdiamo 9. Chi glielo spiega?». Già, chi glielo spiega che uno che non sa cos'è e come si calcola l'utile netto è stato al vertice dell'Enel? In realtà se lo Stato rinazionalizzasse Autostrade incasserebbe 11 miliardi all'anno: 9 più 2!
Quella di Autostrade è stata l'ultima svendita di spessore. Come tutte le privatizzazioni è stata fatta con un'operazione che tecnicamente si chiama di leveraged buyout. Tradotto: compro indebitando la società. Regista dell'operazione è stato Gian Maria Gros Pietro, delfino di Romano Prodi e suo successore alla presidenza dell'Iri, che dopo un paio d'anni dalla vendita di Autostrade ai Benetton ne diventerà presidente.
Gros Pietro arriva all'Iri nel marzo del 1997, non c'è rimasto molto da vendere e forse non c'è neanche tutta questa necessità di farlo. L'impegno preso da Beniamino Andreatta con Karel Van Miert nel 1993 di azzerare i debiti di Efim e di Iri è stato di fatto onorato: sono già stati incassati oltre 100.000 miliardi. In più Autostrade è una società che non perde, anzi dà guadagni allo Stato e soprattutto è strategica per lo sviluppo. Ma proprio questo sarà l'argomento di Gros Pietro che predica contro un deficit infrastrutturale del Paese e va dicendo in giro e in ogni dove che servono i privati per fare investimenti. A spalleggiarlo il direttore dell'Iri, Pietro Ciucci, che ad Autostrade vendute ritroveremo presidente dell'Anas. Insomma è una questione di «famiglia».
In quel momento al vertice di Autostrade ancora irizzata c'è Giancarlo Elia Valori, che aveva già resistito nel 1994 all'idea di Prodi di vendere Autostrade. Ma Gros Pietro insiste e prova a mettere in vendita i caselli che generano sì un interessante cash flow, ma che hanno un problema: chi fissa le tariffe? Gli investitori esteri non si fidano del fatto che i prezzi siano di fatto in mano allo Stato, che in più ha anche il potere di controllo sugli investimenti.
Nel frattempo nel 1998 a Palazzo Chigi sale Massimo D'Alema e nel 1999 Prodi si insedia al vertice della Commissione europea. L'Italia deve stare nel novero dei Paesi euro e a Gros Pietro dicono: tira su un po' di soldi. È lui che ha il pallino di Autostrade e fa un bando che dice: cessione del 30% a un socio forte, il 70% sul mercato. Il 22 ottobre 1999 al cda dell'Iri arriva solo una manifestazione d'interessi: è di Edizione srl, la finanziaria della famiglia Benetton. La proposta di una cordata australiana, messa in campo probabilmente per evitare accuse di favoritismi, svanisce come neve al sole. Edizione srl offre 5.000 miliardi (2,5 miliardi di euro), al collocamento sul mercato si conta di riavere altri 8.000 miliardi di lire (circa 4 miliardi di euro). Ma il punto è che ai Benetton vengono assicurate due cose: il sistema di determinazione tariffario non sarà cambiato, l'Anas non farà controlli sugli investimenti. Alessandro Danovi (Unibergamo) e Francesco Rubino (Bocconi) hanno dedicato uno studio ponderoso alla creazione di valore per Benetton e ne hanno concluso che «la privatizzazione della società Autostrade ha generato per gli azionisti un notevole valore, sia in riferimento a quanto emerso al momento dell'operazione in termini di prezzo pagato, sia ai ritorni successivi legati all'introito di una consistente remunerazione». Si certifica che i Benetton hanno pagato pochissimo Autostrade, ma soprattutto che, speculando sull'Opa, hanno fatto un vero affare.
La privatizzazione di Autostrade si svolge in questo modo. Edizione srl crea una società, la Schemaventotto, che il 9 marzo 2000 acquista dall'Iri il 30% di Autostrade spa per 2.566 milioni di euro. I soldi li mettono per una metà gli azionisti di Benetton e per un'altra metà le banche. Nel novembre del 2002 lanciano l'Opa sul capitale restante di Autostrade e, a chiusura, pagando meno di 7.000 miliardi di lire, Schemaventotto ha circa l'83% del capitale. I soldi glieli presta Unicredit e Mediobanca. A quel punto rivende un po' di azioni e incassa all'incirca 3.000 miliardi. Sostanzialmente alla fine dell'operazione i Benetton hanno comprato Autostrade recuperando tutti i soldi che avevano anticipato. Nel 2002 il governo ratifica tutte le operazioni finanziarie e si fa festa. Il 6 giugno 2002 Giancarlo Elia Valori lasciando la presidenza di Autostrade dà un pranzo di gala alla Casina di Macchia Madama a Roma. Fa servire pesce spada marinato, risotto con gamberi e fiori di zucca, spigole in crosta di patate e gelato al grand marnier, il tutto annaffiato da Arneis fresco per gli ospiti di riguardo: Gilberto Benetton, Gianni Mion (ad di Edizione holding), Gian Maria Gros Pietro (neo presidente di Autostrade), Vito Gamberale, Piero Gnudi (presidente dell'Enel e commercialista di Prodi) e Marcellino Gavio (l'altro signore delle autostrade italiane).
Tutto è a posto anche perché nelle more della privatizzazione si sono scordati (?) di fare due cose. La prima: rivedere il sistema di fissazione delle tariffe. La seconda: il sistema dei controlli. Per le tariffe c'è un'equazione ancora oggi utilizzata. È un po' complicata, ma ha l'X Factor. Non è uno show, semmai una slot machine: vince sempre il banco, cioè Autostrade. Il parametro X è il coefficiente in base al quale va garantita la remunerazione del capitale investito. Basta che Autostrade annunci un investimento per avere più soldi. Si capisce così perché, in 15 anni di gestione Benetton, Autostrade abbia fatto utili per 10 miliardi e oggi sia la terza società, certificato da Janus Enderson, a distribuire i dividendi per azione più ricchi: 63 centesimi. Quando era pubblica Autostrade era soggetta al controllo dell'Anas, ma privatizzata, è rimasta di fatto libera da qualsiasi vincolo. Ciucci diventato presidente Anas si guardò bene dal chiedere l'istituzione dell'Autorità di vigilanza, peraltro prevista all'atto della cessione. Così fino al 2013 nessuno ha controllato Autostrade e anche quando è stata insediata l'Autorità le sono stati conferiti poteri solo sulle nuove concessioni.
Dunque Benetton e soci se ne stanno tranquilli tra due guanciali. Nel frattempo hanno continuato a crescere. Certo si sono comprati Abertis diventando il primo gruppo mondiale con oltre 11.000 chilometri gestiti e hanno continuato a guadagnare tantissimo. Ma c'è un'altra acquisizione molto interessante sempre in tema di privatizzazioni. È quella di Sat, le autostrade tirreniche che dovrebbero costruire la Livorno-Civitavecchia. L'autostrada non c'è, ma solo la promessa di farla ha garantito ad Atlantia l'adeguamento delle tariffe al rialzo. Per inciso: presidente di Sat è Antonio Bargone, ex deputato Pds, dalemiano di ferro già sottosegretario ai lavori pubblici nel primo governo Prodi e nel secondo D'Alema. Perché la storia continua...
(1. Continua)
Ha un omonimo del Quattrocento, minore francescano che censurava i facili costumi delle donne e del suo tempo: un moralista! Il frate in questione è tal Pietro dei Gros. A cambiare l'ordine dei fattori a volte qualcosa cambia. Ecco Gros Pietro di cognome e Gian Maria di nome. Professore di economia aziendale, di professione presidente di tutto. In segreto magari è anche terziario francescano, di certo è cresciuto all'ombra delle sacrestie democristiane: il suo mentore era Carlo Donat Cattin, il suo vettore la Cisl. Torinese del 1942, era una delle teste d'uovo della corrente democristiana di sinistra industrialista opposta alla corrente dossettiana incarnata da Beniamino Andreatta e che ha avuto come braccio armato Romano Prodi. I due, Prodi e Gros Pietro, hanno viaggiato di conserva e il torinese con la sua faccia da parroco che profuma di borotalco è stato il succhiaruote del bolognese che lo portò alla presidenza dell'Iri nel 1997. Nel 1999 vendette Autostrade ai Benetton, nel 2002 diventò presidente di Atlantia dove è rimasto fino al 2010, assicurando agli industriali veneti profitti da capogiro, circa 8 miliardi in 8 anni, allungamenti di concessioni come ad esempio quella per la Livorno-Civitavecchia, autostrada inesistente per la quale però ricevono un bonus sui pedaggi per gli investimenti futuri e molto incerti.
Gros Pietro, ancorché riciclatosi come banchiere, è l'ultimo grande boiardo di Stato, una specie che abita il Jurassic park dell'economia, ma che fa un gran comodo ai «prenditori» che se ne stanno all'ombra di Confindustria. Dotato d'intelletto fino, ha sempre fatto credere di avere doti evangeliche: puro come una colomba, scaltro come un serpente. Se Prodi ha scelto di stare sotto i riflettori della politica, Gros Pietro ha optato per le prebende dei consigli di amministrazione. Chiunque abbia un conto corrente con Intesa San Paolo e le sue infinite ramificazioni locali dovrebbe sapere che è il presidente del Consiglio di amministrazione della più potente banca italiana che lo retribuisce con circa 900.000 euro all'anno.
Ma è stato praticamente tutto e il contrario di tutto. Ha presieduto l'Eni, fatto parte del Cnel e per il Cnr, si è occupato delle politiche industriali del Paese. Prima ha incoraggiato l'industria di Stato anche in funzione di ammortizzatore sociale: da Taranto a Bagnoli arrivando alla Sme, Gros Pietro ha sempre magnificato l'Iri. Poi però quando Prodi lo ha voluto nel comitato privatizzazioni, si è sperticato a favore della necessità di vendere il patrimonio pubblico per approdare all'euro.
Da ricercatore diceva che il Paese ha un grave deficit infrastrutturale, da presidente di Federtrasporti e di Autostrade disse che non si poteva fare di più. Ma il florilegio di Gros Pietro è la dichiarazione, da presidente dell'Iri, che avrebbe superato in privatizzazioni sia Francia che Germania portando all'Italia 100.000 miliardi di lire e poi svendette Autostrade per meno di 6,7 miliardi di euro, consentendo ai Benetton di pagarla a rate e sostanzialmente facendo indebitare Autostrade con un'operazione che tecnicamente si chiama leveraged buyout . Ma una ragione, come abbiamo visto, c'era. Oggi siede nel board dell'Abi, è presidente di Stm (da cui ricava circa 360.000 euro), la cassaforte di famiglia dei Gavio, i terzi più potenti concessionari di autostrade d'Europa: 4.100 chilometri «protetti» dai governi di centrosinistra e dalle omologhe amministrazioni piemontesi.
Gros Pietro ha un debole per le corsie, soprattutto quelle preferenziali. Da presidente dell'Iri ha venduto, nel 1999, alcune autostrade ai Benetton e dopo due anni è diventato presidente di Atlantia e quando ha lasciato, nel 2010, si è accasato con i suoi conterranei Gavio, anch'essi beneficiari del gran lavoro di lobby fatto da Gros Pietro che da quel momento è noto nell'ambiente come Mr Telepass. Quando i Benetton gli dettero il benservito non la prese benissimo. Sospettò che ci fosse dietro Romano Prodi, suo ex sponsor, continuando una lite cominciata quando il «Bologna» era presidente del Consiglio. In verità i Benetton, amici della sinistra delle buone azioni, quelle di Borsa, hanno scaricato Gros Pietro perché dovevano fare posto ad altri rampanti: in particolare a Giovani Castellucci, un marchigiano di Senigallia e dunque gabelliere per costituzione. Dice il proverbio «meglio un morto in casa che un marchigiano all'uscio», ricordando quando erano esattori del Papa, e Gros Pietro lo ha imparato a sue spese perché con Castellucci - uscito di scena da Atlantia anche Vito Gamberale - si è fatta la tanto agognata fusione con Abertis.
Oltre a quelle preferenziali il nostro colleziona anche le corsie presidenziali. È al vertice dall'università di Confindustria Luiss e di un'altra decina di consigli di amministrazione. Uno in particolare è interessante: Nomisma. È il think thank creato a Bologna da Romano Prodi e dopo la furiosa litigata che ha tenuto divisi i due professori democristiani nessuno ha capito come mai Gros Pietro abbia preso in mano la leva del comando in Strada Maggiore.
Evidentemente deve essere riuscito a restaurare il ponte con il Professore che nel 2006 era crollato per colpa di un'autostrada. Era il 2006 e Gros Pietro stava agendo in tutti i modi per fondere Atlantia con Abertis, che possedeva le autostrade spagnole oltre ad una fortissima presenza in America latina, dove i Benetton volevano arrivare. A fare da prologo il fatto che Autogrill - ogni rustichella che mangiate ingrassa i trevigiani e ora forse vi verrà più facile fare una deviazione per andare in trattoria o partire riforniti da casa - avesse conquistato la rete di «ristoranti» autostradali in Spagna. Antonio Di Pietro, allora ministro delle Infrastrutture e Trasporti, si mise di traverso e Prodi premier non riuscì a spianare la strada al suo ex amico e pupillo Gros Pietro. Che per tutta risposta accusò il governo di miopia e protezionismo. C'era in ballo anche il suo stipendio da un milioncino di euro.
Quattro anni dopo i Benetton lo hanno scaricato e hanno proseguito verso la fusione con Abertis. Che a Gros Pietro ha creato anche il rinfocolarsi di un'antica inimicizia: quella con Giancarlo Elia Valori che era presidente di Autostrade quando venne privatizzata. Valori ha una rete interazionale di rapporti e rappresenta la faccia opposta a Gros Pietro: la sua rivincita l'ha avuta perché oggi se ne sta in fondazione Abertis facendo da mediatore tra i Benetton e Florentino Peres. Ai Benetton, però, Gros Pietro - anche se non riuscì a chiudere con Abertis - ha portato in dote il decadere del veto d'ingresso nell'azionariato di Autostrade di costruttori (Il presidente del Real Madrid lo è) e di produttori di veicoli, la blindatura della concessione e soprattutto ha tolto all'Anas il potere di controllo. È l'argomento forte dei Benetton in questo momento contro il premier Giuseppe Conte che gliela vuole revocare.
A chiudere il cerchio della mirabile carriera di Gros Pietro mancava il credito. Ed eccolo finalmente al posto di Giovani Bazoli, il deus ex machina della finanza cattolica per mezzo secolo e il contraltare di Enrico Cuccia nella stagione d'oro del capitalismo familiare.




