Promesso quasi due mesi fa, il decreto Semplificazioni è previsto nel corso della settimana che si conclude venerdì 10 luglio. Dentro, il governo vorrebbe inserire un nuovo Codice dei contratti. Non c'è però ancora nulla di definitivo, perché Pd e 5 stelle non sono allineati sulle strade da percorrere. I secondi vorrebbero replicare il «modello Polcevera» (utilizzato per ricostruire il ponte Morandi), con una sospensione per due anni di tutto il Codice dei contratti e l'affidamento a commissari di tutte le opere pubbliche strategiche. L'area dem, invece, vorrebbe rivedere passo dopo passo il Codice stesso, modificando le norme del subappalto, della qualificazione delle stazioni appaltanti, delle società in house e del partenariato tra pubblico e privato.
I lavori sul testo del decreto procedono, e sono stati accelerati per dare l'idea che il governo riesca a infilare in Gazzetta almeno un decreto al mese. Questo sulle semplificazioni burocratiche è infatti prodromico al testo che uscirà dal Cdm a fine luglio. Per quella data, i giallorossi lavorano a una sorta di Cura Italia bis. Con l'obiettivo di erogare nuova spesa a copertura della cassa integrazione e dei bonus Inps destinati alle famiglie e ai lavoratori autonomi. Pure su questo Pd e 5 stelle sono del tutto allineati. L'intento sembra quello di di prolungare l'agonia del Paese, e attendere che le aziende falliscano per poi erogare sussidi. Aggiungere qua e là budget per la cassa integrazione e risorse per i bonus. L'esecutivo giallorosso non studia, infatti, il modo per evitare i fallimenti, ma basa tutta la strategia elettorale sul sostegno a chi il lavoro non ce l'ha. Al grido di allarme di Carlo Sangalli lanciato durante gli Stati generali per le 270.000 piccole imprese a rischio crac si potrebbe rispondere concretamente nell'arco di pochi giorni. Il prossimo decreto avrebbe potuto contenere 50 miliardi di deficit ed essere tutto destinato a tagliare le tasse di chi produce. Tagliare il cuneo fiscale e l'Irap.
Purtroppo non sarà così. Il governo di Conte mira ad altro, e si nutre di tavoli di crisi. Ciò che lascia perplessi è il passo della politica, che appare sempre indietro rispetto alla realtà. Quando è scoppiata la pandemia, molti analisti e qualche giornale tra cui La Verità, hanno sottolineato che per avere un'idea dell'entità delle misure da mettere in campo sarebbe bastato calcolare il Pil perso durante il lockdown e proiettare la somma nel corso del 2020. Almeno 200 miliardi, per stare larghi 300. Invece le prime proiezioni di Roberto Gualtieri sono state di 3,6 miliardi, specificando che l'importante sarebbe stato mantenere subito dopo i conti in ordine. Poi il decreto Cura Italia ha sforato per 25 miliardi. A seguire il dl Rilancio, con altri 55 di extradeficit e, in aggiunta, 100 come saldo netto a finanziare. E ora si rincorrono le lancette perché a Ferragosto i soldi (debiti, per essere precisi) saranno terminati. Così si realizza la Fase 3 di Conte: tappare i buchi delle due fasi precedenti. Il dramma è che il governo dovrà tornare in Aula e chiedere un nuovo sforamento, che durerà ben poco. Nel frattempo, ministeri come quello dei Trasporti lanciano piani di sviluppo e interventi drastici sulle infrastrutture del Paese. Con quali risorse? Se tutto lo stanziabile viene bruciato dalle fiamme della cassa integrazione e dai sussidi, e se il denaro del Recovery fund arriverà a fine 2021 - come molto probabile - nel frattempo il Paese dovrà infilarsi in un frigorifero e aspettare. Forse una nuova ondata, così il governo potrà chiedere l'aiuto del fondo Salvastati destinato alle emergenze. Ovviamente, è un paradosso. Ma attenzione: non c'è da escludere che qualcuno nella maggioranza possa aver pensato la stessa cosa. Scandoloso, ma c'è di peggio.
Per esempio, il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, vive chino sulle slide convinto di essere rimasto a dicembre del 2019 a ripetere la stessa manfrina elettorale. «Le tasse? Noi le abbiamo abbassate. Dal 1° luglio ci saranno stipendi più alti per 16 milioni di lavoratori, grazie alla determinazione del Pd per la legge di bilancio del 2020. Da settembre non ci sarà più il superticket sulla sanità. Questo governo ha già abbassato le tasse e aumentato i salari», scrive su Facebook il fratello del noto attore. Gli è solo sfuggito che la manovra 2020 conteneva originariamente 12 miliardi di tasse, che si sono ridotte di un 20% solo perché il Covid ha travolto tutto. È vero, prevedeva un taglio del cuneo fiscale di circa 3 miliardi, che avrebbe aiutato circa 16 milioni di lavoratori - inclusi gli 11 che già godevano del bonus Renzi. Ma soprattutto Zingaretti dimentica che nel frattempo il Covid ha sterminato famiglie e posti di lavoro. Solo a marzo e aprile sono rimasti senza stipendio poco più di un milione di lavoratori in più. Di questi, oltre 400.000 hanno perso il posto: questi non godranno di alcun taglio del cuneo fiscale. Per rispetto nei loro confronti sarebbe meglio aggiornare il post su Facebook.
«Non vogliamo diventare i monatti di Mani pulite». Il grido d'allarme arrivò da un giovane magistrato di Brescia, Angelo Antonio Chiappani, 25 anni fa quando quella Procura fu travolta dalle inchieste su Antonio Di Pietro. La metafora manzoniana rimase inascoltata. Fu soffocata dalla canea di chi pretendeva - a torto o a ragione - che giudici e pm cercassero casa per casa i cadaveri della Prima repubblica, forzassero gli armadi per rinvenirne gli scheletri e gettassero tutti sul carretto diretto alla pira purificatrice. Uno scempio politico mentre le telecamere riprendevano la scena.
Oggi l'autore di quella battuta è procuratore capo a Bergamo ed è difficile che non avverta il peso del contrappasso: sarà ancora lui a correre il rischio di diventare un monatto perfino più paradossale, quello della pandemia. Lui al culmine di un percorso professionale di prim'ordine. Lui che arriva dopo la frase della collega Maria Cristina Rota sulle responsabilità di Giuseppe Conte sulla mancata zona rossa a Nembro e Alzano. Lui che prende il comando (la sede era vacante da oltre un anno) proprio mentre infuria l'indignazione governativa. Lui che compare nelle intercettazioni dello scandalo Palamara. Sembra un puzzle perfetto, sono solo fatti concatenati che ci rivelano una triste verità: 25 anni sono trascorsi invano.
Siamo ancora qui. A utilizzare gli stessi riflessi condizionati, a invocare inchieste, ad attendere sentenze per attribuire loro conseguenze politiche. Siamo ancora qui - mentre la classe dirigente è rinchiusa a Villa Pamphili in un surreale Todo Modo postdemocristiano - a delegare ai giudici il potere di scegliere chi guiderà il Paese. Sia chiaro, se Palazzo Chigi ha responsabilità è giusto che emergano ed è già importante che l'omerico scaricabarile del premier sia stato smascherato. Vogliamo però ripartire dal giorno zero: in un Paese civile non può essere un tribunale a giudicare un'epidemia mondiale. A decidere se i tempi e i modi di combattere un virus letale arrivato dalla Cina dopo due mesi di omertà di Pechino siano stati corretti da parte di medici, virologici, anestesisti, tecnici di laboratorio, amministratori di ospedali, assessori e ministri della Sanità. Ma sarà così, il grottesco è la nostra cifra istituzionale.
Sarà così perché il palcoscenico è già stato allestito e il circo è pronto: comitati con striscioni, sindacalisti arrabbiati, accusatori dell'ultima ora, chiamate in correo per invidie di categoria, minacce di morte per sentenze mediatiche già confezionate. Vecchia storia. Notizie chiave nascoste a riga 44, generici titoli stragisti (esempi di scuola in Lombardia). Oggi divoratori di involtini senza memoria lanciano accuse di inettitudine dai loro talk show. Manca il popolo dei fax e siamo a Tangentopoli. Unici al mondo senza pudore a caccia degli untori. Nel frattempo la politica non dà segni di vita. Tutti nascosti dietro la toga di turno (si prevedono più processi) sperando che peschi la carta giusta come un sorteggio di Champions. Con l'aggravante che le allegre conversazioni di Luca Palamara hanno restituito ai cittadini un mondo giudiziario tutt'altro che equilibrato e terzo e indipendente.
È da mezzo secolo che l'Italia delega ai tribunali la propria Storia. Per evanescenza della politica abbiamo lasciato ai magistrati l'esclusivo peso della lotta alla mafia (ce lo ricordano le targhe in memoria di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino). Per incapacità di governo e opposizione abbiamo investito solo le Procure della lotta al terrorismo: due leggi speciali e corone di fiori per i pm uccisi. Per subalternità di un'intera classe dirigente abbiamo assistito alla decimazione della Prima repubblica nell'ordalia selettiva mediatico-giudiziaria e poi nella demonizzazione di Silvio Berlusconi. Un virus con l'elmetto a punta è perfetto per l'ennesimo regolamento di conti: epidemia colposa per i più sfortunati e dividendo politico per gli altri. In mezzo le tricoteuse.
Questa volta è perfino più facile. Agli imputati non si contesterà ciò che hanno fatto ma ciò che non hanno fatto. In giuridichese, il nesso di causalità. Si cerca «la prova diabolica» (copyright di Carlo Nordio), sostenendo che se il malcapitato avesse fatto ciò che doveva fare lo tsunami epidemiologico che ha schiantato il pianeta non si sarebbe verificato. Neanche Bruce Willis in Armageddon, ma guai a dirlo. Come per i sismologi de L'Aquila, accusati di non avere previsto il terremoto; dibattimento galileiano che tutto il mondo rilanciò per la sua intrinseca follia. Qui, dove l'afflittività del processo è più grande di quella della pena, si rischia una nuova stagione di barbarie mentre il Paese è in ginocchio.
Davanti a una pandemia l'aridità della visione leguleia è solo asfissia della ragione. Lo diciamo con la massima comprensione per chi cerca di lenire il dolore famigliare in un'aula di giustizia e con la massima disistima per chi cerca crediti elettorali. Il virus cinese è stata un'immensa tragedia collettiva; da Sergio Mattarella all'ultimo dei sottosegretari, tutti hanno il dovere di dare risposte politiche e di difendere il Paese come prevede la Costituzione. Devono rinforzare le strutture sanitarie, scegliere esperti di valore e istituire una Commissione d'inchiesta per far emergere eventuali responsabilità organizzative. L'ultima parola non può essere una sentenza.
Gli Stati generali sono già un fallimento. Le porte chiuse servono a coprire il vuoto
No, non era decisamente questa la vigilia che Giuseppe Conte e Rocco Casalino avevano sognato per i cosiddetti Stati generali: i pm davanti all'uscio di Palazzo Chigi, i leader dell'opposizione indisponibili a fare le comparse a Villa Pamphili, i fischi in piazza al grido di «buffone» e soprattutto i mitici «fantastiliardi» europei ridotti a miraggio sfocato e lontano.
A pensarci bene, sono passati solo nove giorni dal 3 giugno, quando il premier, su un tappeto rosso srotolato per lui nel cortile di Palazzo Chigi, aveva lanciato la kermesse, immaginandola come una marcia trionfale nel gran giardino barocco della villa romana. E invece, con una rapidità ipotizzata da pochi, il clima si è improvvisamente rovesciato, e sembra preludere, se non a una via crucis, certamente a un cammino accidentato e insicuro.
dissenso
Conte pensava di avere le spalle coperte in Europa, ripeteva a se stesso che a Bruxelles avrebbero fatto di tutto per evitare che l'opposizione guidata da Matteo Salvini potesse risalire la china: ma ora ogni giorno che passa conferma che le cose stanno diversamente. I progetti Bei e Sure sono ancora in fase embrionale (si stanno raccogliendo le garanzie nazionali); il Mes, nonostante l'opera zelante di tanti piazzisti italiani e non, prevede vincoli, controlli e tutte le condizionalità indicate in regolamenti e trattati che nessuno ha modificato; mentre il Recovery fund ogni giorno si allontana nel tempo e dimagrisce quanto a dimensione, e - nella migliore delle ipotesi - farà arrivare in Italia non più di qualche spicciolo nel 2021.
In compenso Conte teme l'offensiva giudiziaria (giova ricordare che il premier non è deputato o senatore, e quindi non gode nemmeno della tenue protezione derivante dallo status di parlamentare), e soprattutto, deve per la prima volta fare i conti con un dissenso popolare che gli era stato nascosto dalla bolla in cui è protetto dentro Palazzo Chigi, tra like sulle dirette social e sondaggisti amici.
Morale: fino a ieri sera, il programma di una kermesse troppo lunga e slabbrata era ancora in alto mare. Sabato, giorno inaugurale, ci saranno gli interventi internazionali, a partire dal presidente del Parlamento europeo David Sassoli e dalla presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen; da lunedì sarà la volta delle parti sociali. Ma arrivare fino alla domenica successiva senza soldi veri sul tavolo, senza la legittimazione delle opposizioni, e con il mondo produttivo che ha già ampiamente fatto conoscere le sue opinioni nelle audizioni parlamentari, sarà davvero un'impresa.
La stessa trovata dei lavori «a porte chiuse», oltre che un improvviso capovolgimento del mantra grillino dello streaming, sembra più un modo per coprire il vuoto che un autorevole e sobrio scudo di riservatezza. Il copione è già scritto: se non ci sarà conoscenza integrale dei lavori, tutto sarà affidato al ping pong mediatico tra le veline di Palazzo Chigi (veicolate soprattutto per l'ossequiosa informazione Rai) e i retroscena alimentati dagli stessi partecipanti.
Intanto ieri il premier ha visto a Palazzo Chigi le forze di maggioranza. Più che altro per reciproca debolezza (sia di Conte sia di Matteo Renzi) sembra reggere la tregua con Italia viva. Ettore Rosato e Maria Elena Boschi hanno definito «positivo» il confronto con Conte, insistendo in particolare sul loro «piano shock» per sbloccare cantieri e opere pubbliche. Sa di palla calciata in tribuna anche la nota vergata da Renzi per la sua newsletter: «Spero che saranno utili gli Stati generali. È importante avere una visione di insieme per spendere più di 80 miliardi di euro che abbiamo “rubato" ai nostri figli. Chiederemo al governo di portare la discussione anche nelle aule parlamentari con un bel dibattito che tolga ogni alibi alle opposizioni. Bene gli Stati generali a Villa Doria, benissimo che i risultati di questo lavoro siano presentati nella sede della democrazia, il Parlamento».
Anche sul fronte grillino, toni fiacchi e dichiarazioni neutre, dopo l'incontro del premier con i capigruppo Davide Crippa e Gianluca Perilli. Per Luigi Di Maio, «i prossimi Stati generali saranno un importante momento di dibattito e pianificazione. Un nuovo inizio da cui ripartire». Ancora più vago e fumoso Vito Crimi: «Ci si deve aspettare una prospettiva di investimento, non dobbiamo immaginare un programma dettagliato di cosa faremo domani; dobbiamo individuare se vogliamo essere un Paese che si inserisce in un processo di transizione energetica? Sì o no? Vogliamo essere un Paese che investe nell'innovazione? Allora su quello dobbiamo investire tutte le nostre risorse. Dobbiamo trovare quali sono le direttrici in cui il Paese deve muoversi perché tutto quello in cui investiremo nei prossimi mesi, darà la direzione da qui a dieci anni».
situazione drammatica
Interlocutorie e blande anche le dichiarazioni dei capigruppo del Pd Graziano Delrio e Andrea Marcucci dopo il loro faccia a faccia con Conte. Per Delrio «è stato un primo incontro proficuo, il presidente ci ha espresso il percorso che intende svolgere e ci ha invitato a continuare il dialogo e la collaborazione con il governo». Stessi toni da parte di Marcucci: «Il Pd apprezza questa iniziativa, con i gruppi parlamentari il percorso è stato serio e approfondito. A valle di questi incontri il confronto proseguirà in maniera costruttiva». Parole in politichese lontanissime dalla situazione drammatica di aziende sull'orlo della chiusura e di centinaia di migliaia di lavoratori con il posto a rischio.







