Tradotto per noi comuni mortali significa che, qualora in un parco due persone si sedessero su una panchina a una distanza inferiore al metro, il capo giunta avrebbe l'obbligo di mandare i vigili urbani a far sgomberare tutti, transennando il parco. Stessa norma sui mezzi pubblici: chi sale deve mantenere lo spazio di un metro dagli altri passeggeri. E però ciò che vale in un giardino pubblico o su un tram non vale in una chiesa. Già, perché secondo la norma, i fedeli durante la messa dovranno rimanere a una distanza di almeno un metro e mezzo, altrimenti - immagino - il parroco potrebbe incorrere in una multa o, peggio, nella chiusura della cattedrale. Perché su una panchina si possa chiacchierare a un metro uno dall'altro e su una panca, mentre si prega, si debba mantenere una distanza di sicurezza di almeno un metro e mezzo, nessuno lo sa. Così come nessuno sa dire come mai il regolamento preveda che dal barbiere si debba stare lontani almeno due metri. Chiacchierare a un metro, pregare a uno e mezzo e farsi tagliare i capelli o la barba a due? Ma l'escalation a che cosa è dovuta? Se si sta in fila per rifarsi l'acconciatura o se si è seduti su una poltroncina sotto il casco del parrucchiere si rischia di più che se ci si inginocchia per pregare? E che dire delle disposizioni che riguardano ristoranti e spiagge, dove a quanto pare il distanziamento sociale prevede una misura minima di due metri se si consuma un pasto e di cinque metri se si prende il sole? Al parco sulla panchina basta un metro e sulla spiaggia, sdraiati su un lettino, il metro si moltiplica per cinque? Di sicuro gli scienziati che consigliano Giuseppe Conte avranno le loro buone ragioni, tuttavia si fatica a capire quale logica detti le condizioni che poi vengono emanate per decreto.
Ma non ci sono solo le astruse regole delle distanze, perché è l'intera burocrazia statale che si sta sbizzarrendo nello studio di come complicare la vita dei cittadini, i quali già provati dalla pandemia e dagli arresti domiciliari, adesso dovrebbero assoggettarsi a mille indicazioni. Un esempio di come l'apparato pubblico stia contribuendo a non far capire più niente lo fornisce l'agenzia delle Dogane e dei monopoli, la quale ha addirittura pubblicato una guida per lo sdoganamento delle mascherine, un manuale talmente complicato e rigoroso che sta contribuendo a bloccare alle frontiere le importazioni di dispositivi di protezione. Ma che cosa prevedono le nuove disposizioni? Per esempio che il marchio CE, cioè la certificazione di sicurezza prevista nei Paesi Ue, sia sulla confezione delle mascherine, ma non sulla mascherina stessa. Dunque, se il simbolo non è applicato nel posto giusto «occorre inviare apposita autocertificazione all'Istituto superiore di Sanità come da articolo 15, comma 2 del Dl 17 marzo 2020, numero 16 e attendere la pronuncia». Oppure si può sdoganare, ma non vendere. Che in altri Paesi, per esempio la Cina, cioè uno dei principali produttori di mascherine, ma anche negli Stati Uniti o in Australia, gli standard di sicurezza abbiano una denominazione diversa da quella usata in Europa e anziché il simbolo CE si usi N95 o KN95, ovviamente non ha assolutamente sfiorato il burocrate, il quale ha emanato le disposizioni mettendosi l'anima in pace anche se il nuovo indirizzo rischia di bloccare l'arrivo dei dispositivi di sicurezza. Certo, di falsari ce ne sono tanti in circolazione, soprattutto in Cina, e dunque è giusto usare ogni precauzione, soprattutto quando c'è di mezzo la salute. Il problema è che anche quando le mascherine sono targate CE come vuole la legge, per consegnarle alle aziende e agli ospedali le dogane chiedono un'autocertificazione in cui si dichiari, prima ancora di aver preso visione della merce, la regolarità della certificazione. Insomma, il classico modulo che piace tanto agli uffici statali, che poi va inviato a una casella di posta certificata valida per tutto il territorio nazionale. «Le richieste di validazione dei dpi», spiega una circolare, «saranno prese in carico da un team di tecnici multidisciplinari e gestite amministrativamente dalla direzione nazionale ricerca». Chiaro il concetto? Se vi servono le mascherine, per il personale sanitario o per distribuirle in farmacia, dovete non solo trovarle, pagare e importarle, ma poi dovete fare domanda e mettervi comodi in attesa di una risposta. Cioè: campa mascherina… che il Covid corre. Forse non ci ammaleremo di coronavirus, ma di burocrazia e di follia di certo sì.
Ps. Qualche cervellone è riuscito a complicare anche il bonus per l'acquisto dei monopattini elettrici. Per riceverlo infatti bisognerà superare un percorso a ostacoli e poi, una volta giunti a destinazione, si otterrà un credito in un «borsellino virtuale» che potrà essere speso in abbonamenti ai mezzi pubblici. Ovvio, no? Uno va con il monopattino in città e la città lo ripaga con un bonus per prendere l'autobus. Applausi al burocrate e a chi scrive e approva i decreti.
Ma per chi ci ha presi, il premier Conte? Per bambini scemi? Ci racconta le favole? Ci nasconde la medicina nella minestrina? Ce la fa ingoiare di nascosto? Ce la propina pezzo a pezzo, goccia a goccia, giorno dopo giorno? Eppure gli italiani si stanno dimostrando, eccezioni a parte, un popolo maturo: non andrebbero forse trattati da persone adulte? Non andrebbe detta loro tutta la verità? Non andrebbero richiesti tutti i sacrifici che servono, tutti insieme, in una volta, con la durezza necessaria ma con altrettanta chiarezza? Perché il premier non tira fuori le palle? Perché non scompiglia il ciuffo e dichiara a testa alta (magari lasciando stare Churchill, ecco) che quello che è stato fatto finora non basta e che dunque bisogna andare fino in fondo con misure durissime? Perché non le prende tutte in una volta, con decisione e senza tentennamenti? Che senso ha, mentre i bollettini di guerra elencano fino a 800 morti al giorno, continuare a parlare di gradualità? E di prudenza? La gradualità è una minaccia, ormai. E la prudenza è diventata la cosa più imprudente che ci sia.
Quello che viviamo è assurdo, anche se all'assurdità ci siamo quasi abituati: non fa in tempo ad arrivare un'ordinanza restrittiva, che già si dice che non basterà. Che ci vuole altro. Che bisogna fare di più. Venerdì sera, dopo una nuova giornata di notizie contraddittorie e confuse, sono arrivate le nuove regole. Una ministretta all'acqua di rose, piena di buchi e di incertezze, che tutti, ministri compresi, sanno essere del tutto insufficiente. Mentre si pubblica l'ordinanza già si dice, come al solito, che c'è bisogno di un ulteriore intervento. Ma perché non farlo subito allora?
Per altro le nuove regole, ancora una volta, lasciano spazio a mille ambiguità. Per esempio: si vietano le «attività ludiche e ricreative all'aperto» ma «si consente di svolgere attività motoria in prossimità della propria abitazione», come se l'attività motoria non fosse ludica o ricreativa, ma un dovere professionale. Oppure: si dice che «è vietato ogni spostamento verso abitazioni diverse da quella principale, comprese le seconda case utilizzate per vacanza» ma solo «nei giorni festivi e prefestivi, nonché in quegli altri che immediatamente precedono o seguono tali giorni». Ma che cosa vuol dire? Che nella casa al mare o in montagna ci si può andare, ma solo di mercoledì? E di venerdì no? E con il martedì come la mettiamo? E il giovedì? E soprattutto: non erano già del tutto vietati i trasferimenti nelle seconde case? Perché rimettere in discussione un divieto assoluto che sembrava già acquisito?
Di fronte a una situazione eccezionale ci vogliono misure chiare. Devono essere draconiane? Lo siano. Bisogna vietare le corse nelle strade? Le si vietino. Senza se e senza ma. Bisogna proibire i viaggi nelle seconde case? Lo si faccia. Ma non solo di venerdì o lunedì. Sempre. Gli italiani non sono dei bambini, hanno dimostrato fermezza e sangue freddo, capiscono la situazione: dunque meritano la verità. E se la verità è amara pazienza. Meglio mandare giù la medicina in un colpo solo che prenderla a piccole dosi. Questo stillicidio di restrizioni, questa garrota che si stringe poco a poco intorno alla nostra vita sociale, sta diventando una tortura supplementare. Che aggiunge, al disagio già enorme, un ulteriore disagio: quello di non sapere. Di non capire. Di non avere certezze. Di vivere ogni ordinanza, in attesa di quella dopo, che sarà peggio ancora.
Oltretutto questo modo di procedere si sta dimostrando, oltre che assai doloroso, anche inefficace. Intanto perché se due settimane fa si fossero presi provvedimenti più restrittivi, come molti esperti suggerivano, forse oggi non avremmo superato la Cina per numero di morti. E poi perché di fronte a norme confuse e contraddittorie si generano comportamenti negativi, come gli assalti ai supermercati di queste ore. Inevitabile, non vi pare? Se per un intero giorno dici che i supermercati vanno chiusi, poi dici che non saranno chiusi, poi dici che forse li chiuderai, riesci nel miracolo di non fare nulla e fare danni insieme. Che non è propriamente ciò di cui abbiamo bisogno in queste ore così difficili.
Ora, io capisco che di fronte all'inefficacia dei provvedimenti la via più semplice sia quella di buttare la croce sugli italiani, dicendo che è colpa loro, che sono furbetti e irresponsabili. Ma lo ripeto: non è così. Forse agli italiani bisognerebbe soltanto dare indicazioni più chiare e determinate (oltre che controlli rigorosi. Ribadiamo: che ci fa ancora l'esercito nelle caserme? Nemmeno un soldato deve stare in caserma, se si vuole vincere la guerra). Se uno dice che non si può correre ma si può correre attorno a casa, che non si può andare nelle seconde case ma ci si può andare di mercoledì, che la passeggiata è vietata però è anche concessa per un tempo limitato, che gli autogrill restano aperti però vengono chiusi e i supermercati vengono chiusi però restano aperti, è ovvio che si genera il caos. E hai voglia, poi, a prendertela con quelli che portano Fido a fare il bisognino…
Per questo troviamo grave quello che ci raccontano i retroscena di Palazzo Chigi. E cioè il fatto che questo modo di procedere, questo tentennamento continuo, il saggiare progressivo della resistenza degli italiani, non sia un errore, frutto di casualità, ma una vera e propria strategia. Cioè la tattica scelta dal premier Conte. Il quale non se la sente di imporre misure drastiche tutte in un colpo perché teme di «esasperare gli animi dei cittadini». E così procede per gradi. Goccia a goccia. Giocando a nascondino con il ministro della Salute Roberto Speranza, che vorrebbe più rigore, e cercando di scaricare un po' delle responsabilità sulle Regioni, che allora procedono in ordine sparso. Ma così facendo si ottiene l'effetto contrario di quello che si vorrebbe: gli animi dei cittadini, infatti, si esasperano ancor di più. Giorno dopo giorno. Ministretta dopo ministretta. E inoltre non si vedono i frutti di tanti sacrifici. Stiamo facendo un capolavoro al contrario: il massimo del costo sociale con il minimo del risultato sanitario. E va bene il clima di unità nazionale, vanno bene gli appelli di Mattarella a restare compatti, va bene la concordia nel Paese, ma forse è il caso di chiedersi: usque tandem? Usque tandem, Giuseppi? Fino a quando dovremo subire questa tattica suicida? Perché non cambi rotta? Gradualità e prudenza ci stanno uccidendo. Mettile da parte, se ne sei in grado. Altrimenti mettiti da parte tu, prima che siamo tutti spacciati.
Grazie al contributo fondamentale del nostro presidente del Consiglio abbiamo conquistato la palma di untori internazionali, riuscendo a superare, nella classifica dei Paesi da cui stare alla larga e di cui respingere i cittadini, perfino il focolaio principale del coronavirus, cioè la Cina. Gli italiani vengono messi in quarantena ovunque nel mondo, quando addirittura non sono respinti come persone non gradite. È di ieri la notizia di una nave da crociera che non è stata fatta attraccare a Phuket, in Thailandia, perché a bordo c'erano dei nostri connazionali, malgrado nessuno avesse sintomi riconducibili all'influenza cinese. In Spagna hanno rimandato a casa un disabile giunto da Verona perché proveniente da una immaginaria «zona rossa». A Londra un autista di Uber invece si è rifiutato di far salire quattro ventenni nonostante i giovanotti vivano da tempo nella capitale inglese e non facciano viaggi a casa da parecchio tempo. In pratica, intorno a noi è stato steso un cordone sanitario che ci impone l'isolamento.
E tuttavia, nonostante la nostra classe politica si sia data un gran da fare per pubblicizzare l'epidemia da coronavirus nel mondo, ottenendo in premio un grafico della Cnn che mostra come il contagio sia partito dall'Italia, i veri untori non siamo noi. Già, mentre da noi il primo caso rilevato risale al 20 di febbraio, quando il famoso paziente zero ha fatto il suo ingresso all'ospedale di Codogno, altri sono arrivati prima di noi e forse proprio a loro si deve la diffusione del virus nel resto d'Europa, Italia compresa. Nei giorni scorsi, nel silenzio generale, abbiamo raccontato il caso Webasto, ossia l'azienda tedesca in cui si è registrato il primo caso di contagio da coronavirus. Nella sede bavarese del colosso dell'automotive germanico un dipendente venne contaminato da una collega arrivata dalla Cina già intorno al 20 gennaio, cioè circa un mese prima che a Codogno si scoprisse che un manager dell'Unilever avesse il Covid-19. Secondo le ricostruzioni del New England journal of medicine, il dirigente dell'industria di componentistica nel settore delle auto avrebbe partecipato ad alcuni incontri di lavoro con la corrispondente giunta da Pechino e il 24 di gennaio avrebbe iniziato ad avere i primi sintomi della malattia, ma, non rendendosene conto, aveva continuato a lavorare, infettando alcuni suoi colleghi. Una volta scoperto, i tedeschi non avevano dato grande pubblicità al fatto. Né qualcuno aveva indagato per scoprire se il dirigente avesse avuto contatti con altri e con l'Italia. O se li avesse avuti qualcuno con cui lui era entrato in contatto. Certo è che, come abbiamo raccontato ieri, la Webasto nel nostro Paese ha due sedi e dalle prime analisi il ceppo virale isolato in Italia ha la stessa provenienza di quello tedesco. Ieri la Germania, attraverso il proprio ministro della Salute, è stata costretta ad ammettere di avere una situazione simile alla nostra, dichiarando che la maggior parte dei casi da coronavirus non è d'importazione, cioè del contagio non si può dare la colpa a noi, come invece all'inizio qualche crucco ha cercato di fare. In Westfalia sono stati costretti a chiudere le scuole, esattamente come si è fatto in Lombardia e Veneto e ora nel resto d'Italia.
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I tedeschi si arrendono all'evidenza. Nel frattempo, però, hanno nascosto che il primo focolaio europeo è stato in Baviera, lasciando che fossimo noi a essere considerati gli untori. Boom di malati anche in Francia, dove pure non si è alzato subito l'allarme epidemia.
Grazie al contributo fondamentale del nostro presidente del Consiglio abbiamo conquistato la palma di untori internazionali, riuscendo a superare, nella classifica dei Paesi da cui stare alla larga e di cui respingere i cittadini, perfino il focolaio principale del coronavirus, cioè la Cina. Gli italiani vengono messi in quarantena ovunque nel mondo, quando addirittura non sono respinti come persone non gradite. È di ieri la notizia di una nave da crociera che non è stata fatta attraccare a Phuket, in Thailandia, perché a bordo c'erano dei nostri connazionali, malgrado nessuno avesse sintomi riconducibili all'influenza cinese. In Spagna hanno rimandato a casa un disabile giunto da Verona perché proveniente da una immaginaria «zona rossa». A Londra un autista di Uber invece si è rifiutato di far salire quattro ventenni nonostante i giovanotti vivano da tempo nella capitale inglese e non facciano viaggi a casa da parecchio tempo. In pratica, intorno a noi è stato steso un cordone sanitario che ci impone l'isolamento.
E tuttavia, nonostante la nostra classe politica si sia data un gran da fare per pubblicizzare l'epidemia da coronavirus nel mondo, ottenendo in premio un grafico della Cnn che mostra come il contagio sia partito dall'Italia, i veri untori non siamo noi. Già, mentre da noi il primo caso rilevato risale al 20 di febbraio, quando il famoso paziente zero ha fatto il suo ingresso all'ospedale di Codogno, altri sono arrivati prima di noi e forse proprio a loro si deve la diffusione del virus nel resto d'Europa, Italia compresa. Nei giorni scorsi, nel silenzio generale, abbiamo raccontato il caso Webasto, ossia l'azienda tedesca in cui si è registrato il primo caso di contagio da coronavirus. Nella sede bavarese del colosso dell'automotive germanico un dipendente venne contaminato da una collega arrivata dalla Cina già intorno al 20 gennaio, cioè circa un mese prima che a Codogno si scoprisse che un manager dell'Unilever avesse il Covid-19. Secondo le ricostruzioni del New England journal of medicine, il dirigente dell'industria di componentistica nel settore delle auto avrebbe partecipato ad alcuni incontri di lavoro con la corrispondente giunta da Pechino e il 24 di gennaio avrebbe iniziato ad avere i primi sintomi della malattia, ma, non rendendosene conto, aveva continuato a lavorare, infettando alcuni suoi colleghi. Una volta scoperto, i tedeschi non avevano dato grande pubblicità al fatto. Né qualcuno aveva indagato per scoprire se il dirigente avesse avuto contatti con altri e con l'Italia. O se li avesse avuti qualcuno con cui lui era entrato in contatto. Certo è che, come abbiamo raccontato ieri, la Webasto nel nostro Paese ha due sedi e dalle prime analisi il ceppo virale isolato in Italia ha la stessa provenienza di quello tedesco. Ieri la Germania, attraverso il proprio ministro della Salute, è stata costretta ad ammettere di avere una situazione simile alla nostra, dichiarando che la maggior parte dei casi da coronavirus non è d'importazione, cioè del contagio non si può dare la colpa a noi, come invece all'inizio qualche crucco ha cercato di fare. In Westfalia sono stati costretti a chiudere le scuole, esattamente come si è fatto in Lombardia e Veneto e ora nel resto d'Italia.
Situazione analoga anche in Francia, dove in Alta Savoia si scoprirono malati da Covid 19 ben prima che da noi. A Mulhouse si temono centinaia di contagiati ed è all'allarme nel dipartimento dell'Oise, a Nord di Parigi. I dati ufficiali parlano di meno di 500 malati, con 9 morti, ma lo stesso Emmanuel Macron ha ammesso che nei prossimi giorni il coronavirus si espanderà inesorabilmente.
E che dire degli spagnoli, quelli che hanno rimandato a casa un ragazzo disabile perché arrivava da Verona? Il giovane non poteva certo essere considerato un untore, anche perché il coronavirus è presente nella penisola iberica da ben prima che si manifestasse in Italia. Infatti ieri El Pais ha rivelato che la prima morte registrata in Spagna per effetto del contagio risale al 13 febbraio: un uomo di 69 anni che non arrivava da Milano o Roma, ma dal Nepal. Poi nello stesso periodo è morto un altro uomo di Bilbao, che in ospedale ha infettato 10 persone, ora ricoverate in stato grave.
L'elenco potrebbe continuare. I casi di Germania, Francia e Spagna (ma potremmo aggiungere anche la Gran Bretagna) non sono dovuti a un paziente italiano, bensì a una malattia che non ha confini e non ha un solo untore. Il virus non fa distinzioni fra cinesi ed europei o americani. Gli unici a farle sono alcuni Paesi impauriti, che pensano di fermare il contagio alla dogana, senza rendersi conto che ha già superato la frontiera. Certo, se la nostra classe politica fosse stata più abile, a comunicare ma anche a prendere le misure più drastiche, sarebbe riuscita a contenere i danni, evitando di trasformarci in untori in diretta tv e in mondo visione. Ma per capire questo servirebbe chi, oltre a parlarne, sa che cos'è un'emergenza sanitaria.





