Il capogruppo Pd in consiglio regionale dimessosi l’altro ieri, il consigliere dem autosospeso, un ex assessore e un manager citati nell’ordinanza: ecco tutti i pezzi del cerchio magico dell’ex premier scossi dalle indagini.
I gargoyle dem posti a guardia della roccaforte di Michele Emiliano si stanno sgretolando uno dopo l’altro. Due nomi in particolare hanno causato una deflagrazione tra i sostenitori del governatore pugliese. Il primo è quello di Filippo Caracciolo, finito nei guai da assessore all’Ambiente nel 2017 con l’accusa di aver pilotato una gara d’appalto in cambio di sostegno elettorale e solo un mese fa rinviato a giudizio. L’altro giorno si è dimesso, per le polemiche innescate dalle inchieste, da capogruppo del Pd in Consiglio regionale. Il secondo, invece, è quello di Michele Mazzarano, condannato nel 2022 in appello a 9 mesi di reclusione (pena sospesa) per corruzione elettorale, che dal gruppo del Pd si è autosospeso, per gli stessi motivi di Caracciolo. Quest’ultimo, barlettano molto legato al suo territorio, è arrivato a digerire perfino i rimbrotti della Corte dei conti sugli extra per l’autista pagato dal gruppo Pd a Emiliano e sulla sua fedeltà al governatore nessuno nella sinistra pugliese ha mai nutrito dubbi. Al congresso dem del 2013, quello che vedeva Matteo Renzi contrapposto a Gianni Cuperlo, inizialmente non nascose la voglia di mettere un freno al campione del fu Rottamatore, Fabrizio Ferrante, che tutti davano come capolista scontato. Massimo D’Alema, per tentare di neutralizzare Renzi, si schierò con Cuperlo e decise di guidare a Bari una delle tre liste che sosteneva il triestino (poi sconfitto). Alla fine qualcosa andò storto anche a Barletta e Caracciolo scelse i renziani, lasciando sbigottita la stampa locale, che la definì «una conversione al renzismo». Di certo sguazzava solo nell’area dalemiana, invece, Mazzarano, baffo alla D’Alema e un atteggiamento che sin da quando era un giovincello ricordava i modi di fare del lider Massimo. Ultimo segretario regionale dei Democratici di sinistra prima dello scioglimento del partito, si è poi barcamenato tra D’Alema ed Emiliano. Nel 2007, quando è nato il Partito democratico, è diventato il numero due, proprio durante la segreteria di Emiliano. Al suo quartier generale di Grottaglie era di casa il senatore Nicola Latorre, ovvero il braccio destro pugliese di Baffino. Prima che il suo nome finisse nei verbali della Procura di Bari perché Gianpaolo Tarantini lo indicava come beneficiario di tangenti, Mazzarano era responsabile organizzativo del partito. Proprio nel 2007, raccontarono le cronache, organizzò una cena, pagata da Tarantini, al ristorante barese la Pignata: vi parteciparono tra gli altri D’Alema ed Emiliano (che era sindaco di Bari). Alla fine l’accusa ricostruì che Tarantini aveva dato a Mazzarano 10.000 euro per il concerto di Eugenio Bennato all’evento di chiusura della campagna elettorale del Pd a Massafra, ma l’ipotesi di reato si è prescritta nel 2015. Quello stesso anno però è saltato fuori un patto con l’imprenditore tarantino Emilio Pastore, che fornì a Mazzarano sostegno elettorale, mettendogli a disposizione un locale e garantendogli voti per le regionali in cambio di un posto di lavoro per ciascuno dei suoi due figli. E la sentenza è passata in giudicato. Insomma sotto le macerie del sistema Emiliano fumano anche quelle dalemiane. Molto gradito in quest’area è pure uno degli uomini che i fratelli Alfonso e Vincenzo Pisicchio, finiti ai domiciliari nell’ultima inchiesta della Procura di Bari, avevano compulsato per tentare (inutilmente) di far vincere una gara bandita da Aeroporti di Puglia a una delle società che promuovevano in cambio di assunzioni e sostegno elettorale: Alessandro Di Bello, all’epoca alla guida di InnovaPuglia, la partecipata regionale per la programmazione strategica a sostegno dell’innovazione, e ora ai vertici della campana Soresa, società che studia azioni finalizzate alla razionalizzazione della spesa sanitaria. Un manager legatissimo al governatore pugliese, il gemello, politicamente parlando, di Vincenzo De Luca. E con le radici nell’area dalemiana c’è anche un altro assessore citato negli atti dell’inchiesta (ma non indagato): Cosimo Borraccino. I Pisicchio si sarebbero rivolti anche a lui per far sbloccare un finanziamento europeo a una delle società dalle quali avrebbero ricevuto utilità. Le intercettazioni risalgono al 2019 e allora Borraccino era assessore allo Sviluppo economico, mentre ora è consigliere delegato di Emiliano. La sua vicinanza al governatore, quindi, è indiscussa. Ai tempi della costituente di Articolo uno, però, si era lasciato trasportare probabilmente dalle fascinazioni della sua gioventù da militante dell’area comunista di Armando Cossutta e da consigliere regionale di Sinistra italiana accompagnò Baffino a Taranto per presentare la nuova piattaforma dalemiana, quella che poi ha partorito Roberto Speranza. Nel 2016 pure Borraccino si trovò in una brutta storia giudiziaria nella quale si ipotizzava la corruzione elettorale, ma al momento della contestazione, il reato risultò già prescritto e i pm mandarono in archivio il fascicolo. Stando alle ricostruzioni dell’epoca, Borraccino avrebbe organizzato colloqui con dei cittadini ai quali sarebbe stata prospettata la possibilità di un’assunzione in una società di vigilanza in cambio del voto. Una strategia che ricorda da vicino l’inchiesta sui Pisicchio. Che avevano addirittura delle liste dalle quali attingere. Le aziende che avrebbero aiutato nelle gare d’appalto si sospetta che avrebbero fatto girare dei soldi: «A fronte della promessa della dazione di 245.000 euro», scrivono gli inquirenti, «verosimilmente è stata consegnata a Vincenzo Pisicchio una somma inferiore, 156.000, il cui residuo, 65.000, è stato trovato durante una perquisizione in un sacco per i rifiuti sul balcone della cucina della sua abitazione». Ma anche dei regali (una Fiat 500, un iPhone, un tablet) e l’offerta dei banchetti per un evento politico di Alfonso e per la festa di laurea della figlia di Vincenzo. I due, però, oltre a ottenere dalle stesse società l’assunzione fittizia dei rispettivi figli, avrebbero fornito dei nominativi pescati in un lungo elenco contenente nome e cognome dei segnalati, titolo di studio, età, esperienze ed eventuale indicazione dell’appartenenza a categorie protette. «Alfonsino», si legge negli atti giudiziari, «ha deciso i candidati da far assumere, mentre Vincenzo, quale suo alter ego, si è esposto chiamando o preavvisando i candidati», che per rapporti di parentela o di militanza politica sarebbero stati riconducibili ai loro movimenti politici. Un abile lavoro di filiera che avrebbe ingrossato le file elettorali delle liste di Pisicchio. A sostegno di Emiliano.