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La Transizione ha portato a un incremento delle emissioni globali pure nel 2023. Bruxelles non controlla la rivoluzione tech che fa aumentare del 4% il gas serra.
Ci sono i numeri che evidenziano come di questo passo la transizione green non abbia nessuna possibilità di successo. E c’è la strategia che puntando su rinnovabili, incentivi spesso a pioggia per imporre alcune fonti e termini perentori, decisa dalla Commissione Ursula 1, ha portato a questi numeri. Visto che i primi passi della Commissione Ursula 2 lasciano pensare che non tiri aria di mea culpa o ripensamenti è quasi certo che la rivoluzione energetica di cui pure il sistema industriale e sociale avrebbe bisogno si sia infilata in un cul de sac dal quale si vedono pochi spiragli di uscita.
È questa la sintesi alla quale giungono alcuni articoli pubblicati sull’ultimo numero della Rivista Energia, il trimestrale fondato e diretto dall’ex ministro dell’Industria Alberto Clò che si occupa, con approfondimenti di analisti ed esperti, spesso e volentieri di temi green.
I numeri dicono, per esempio, che la riduzione delle emissioni globali, che rappresenta il fine ultimo delle politiche green, non è mai stato raggiunto. Le emissioni globali, infatti, continuano ad aumentare e sono cresciute anche nel 2023 (+2,1%) arrivando in un decennio 2013-2023 al non lusinghiero risultato di un complessivo +8,3%.
Non solo. Perché secondo un’analisi basata sulle tendenze in atto e le simulazioni future di Stefania Migliavacca ed Enzo Di Giulio (Eni Corporate University) il target net-zero al 2050 annunciato da 145 Paesi «è ancora straordinariamente lontano e dunque non realistico». Motivi? Per arrivare al risultato sperato le emissioni di CO2 dovrebbero diminuire di dieci volte il calo osservato nel passato quinquennio, mentre l’intensità carbonica dell’elettricità si dovrebbe ridurre del 16% all’anno, contro l’1% dell’ultimo quinquennio. Insomma, non bastano degli aggiustamenti, servono dei veri e propri stravolgimenti.
Che non si scorgono all’orizzonte, anche perché i modesti risultati raggiunti a oggi nei termini di riduzione delle emissioni stanno già provocando una mezza rivolta sociale.
E dire che fin qui è stato sottovalutato un altro fenomeno, quello della rivoluzione tecnologica che se non viene governata e indirizzata promette di trasformarsi in una nuova scheggia impazzita nelle dinamiche ecologiste. «La filiera del settore industriale digitale è fra le più interconnesse e globalizzate che esistano», si legge in un approfondimento della Rivista curato da Giovanna Sissa (Università di Genova), «costruire ogni singolo dispositivo a partire dai processi di estrazione delle materie prime, fino alla produzione dei componenti e all’assemblaggio, richiede energia e produce emissioni di carbonio». L’analisi evidenzia che l’universo digitale è responsabile di emissioni di CO2 comprese fra quelle del terzo e del quarto Stato al mondo: più del Giappone e Russia e dietro solo a Cina, Stati Uniti e India».
In numeri: «L’impronta carbonica dell’intero settore può valutarsi - tra emissioni incorporate derivanti dall’utilizzo di energia primaria nei processi di produzione, trasporto e smaltimento ed emissioni derivanti dal consumo di energia in fase di utilizzo - in 1,2-2,2 miliardi di tonnellate (dato al 2020), con un contributo fra il 2,3% e il 4,2% delle emissioni globali di gas serra».
Una quota che nel tempo è destinata a crescere ancora visto che entro il 2030 i soli data center rappresenteranno l’8% del consumo energetico totale negli Stati Uniti. Tre volte quanto valgono oggi. Ma chi ne parla? Chi se ne occupa? E qui arriviamo al secondo punto delle premessa.
I cittadini e gli elettori hanno manifestato attraverso il voto la loro diffidenza rispetto al modo in cui l’Europa sta gestendo la transizione, considerata una delle prime causa dell’inflazione e del rallentamento dell’economia. La protesta si è materializzata in uno spostamento di voti a favore dei partiti nazionalisti e contrari alle politiche climatiche. «Ma tutto questo», si legge ancora nell’analisi di Rivista Energia, «non sembra aver intaccato le convinzioni della Von der Leyen che ha formato la nuova Commissione con gli sconfitti Verdi e si appresta (ma la trattativa è in corso) a scegliere un commissario alla Transizione (Teresa Ribera) che se possibile promette di far peggio di Frans Timmermans.
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In India prezzi agricoli in salita, record di emissioni nel 2023 nonostante gli sforzi occidentali, l’Egitto in cerca di gas dall’estero, perché negli USA l’auto elettrica non sfonda, il rame in Cina si accumula nei magazzini.
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Lo studio di Bloomberg dimostra che, per arrivare all’obiettivo nel 2050, servirebbero 34.000 miliardi di ulteriori investimenti. E Deloitte smonta l’illusione dell’abbattimento dei consumi energetici nell’edilizia: la riconversione verde è insostenibile.
La rivoluzione verde fallirà perché costa troppo. A fare questa previsione non sono malmostosi osservatori avversari del progresso ma agenzie internazionali di riconosciuta fama. Si tratta di Deloitte (una delle più blasonate società di consulenza del mondo) che valuta fra 800 e 1.000 miliardi la spesa necessaria per rendere eco-compatibile il patrimonio edilizio italiano. Ancora più devastante la previsione di Bloomberg (l’agenzia di informazioni finanziarie creata da Michael Bloomberg prima di diventare sindaco di New York) secondo cui l’obiettivo di un’economia globale a zero-emissioni per il 2050 costerebbe circa 250.000 miliardi di dollari. Per avere un’idea delle grandezze in gioco significa mobilitare risorse pari a due volte e mezza il Pil mondiale. Chi paga? Non certo le famiglie che dovrebbero in larga parte subire scelte non condivise. Ma nemmeno gli Stati considerando che ormai il debito mondiale (pubblico e privato) ha toccato il 360% del Pil. Non a caso Giorgio Spaziani Testa, presidente di Confediliziam parla di cifre fuori da ogni logica e si augura che la direttiva europea per le case green «venga spazzata via dalla prossima legislatura».
In Italia la riqualificazione del patrimonio immobiliare, secondo l’analisi di Deloitte, coinvolgerebbe otto edifici su dieci. In Germania arrivano al 45%, in Spagna al 25% e in Francia appena al 21%. La nuova legislazione europea, che entrerà in vigore il 28 maggio, stabilisce misure che imporranno ai governi europei un miglioramento strutturale dell’efficienza energetica degli edifici per abbattere i consumi energetici e le emissioni di Co2. Secondo la rielaborazione di Deloitte da dati Istat, nel 2024 il parco immobiliare italiano è costituito da più di 13 milioni di edifici, di cui circa l’89% a uso residenziale. La stragrande maggioranza (oltre l’83%) risulta costruito prima del 1990 – un dato leggermente più alto della media Ue (76%) – e più della metà (57%) è risalente a prima degli anni Settanta. Deloitte calcola che per mettere in regola servirebbero fra 800 e 1.000 miliardi. Chi paga? Difficile mettere questo peso sulle spalle delle famiglie. Servirebbe un intervento dello Stato di dimensioni tali da far impallidire il Superbonus. Ovviamente si tratta di una finestra che si affaccia sul surreale.
Altrettanto improponibile appare la spesa per avere un mondo a emissioni zero nel 2050. Il nuovo rapporto New Energy Outlook di Bloomberg stima che sono necessari ulteriori investimenti per 34.000 miliardi di dollari. «Per ogni dollaro destinato ai combustibili fossili, è necessario investire in media 3 dollari in energia a basse emissioni di carbonio nel resto del decennio, rispetto alla parità odierna», sottolinea il report. «Un sistema energetico globale completamente decarbonizzato entro il 2050 potrebbe costare 250.000 miliardi di dollari: una cifra non insignificante, il 19% in più rispetto a una transizione guidata dall’economia, in cui gli obiettivi dell’Accordo di Parigi vengono mancati e il riscaldamento globale raggiunge i 2,6°C.
In pratica – sottolinea il New Energy Outlook di Bloomberg - per mantenere il riscaldamento globale a 1,75°C, le tecnologie pulite devono diffondersi rapidamente: triplicare la capacità globale di energia rinnovabile entro il 2030, diffondere i veicoli elettrici fino a eliminare i veicoli a combustione entro il 2034 e incrementare significativamente la cattura e lo stoccaggio del carbonio. Anche nel caso base senza ulteriori politiche di supporto, le energie rinnovabili potrebbero comunque costituire il 50% della produzione elettrica entro il 2030, grazie alla loro competitività economica. Tuttavia, il rapporto avverte che solo un rapido calo delle emissioni permetterà di mantenere viva la possibilità di raggiungere l’obiettivo delle zero emissioni nette entro la metà del secolo.
Le sfide maggiori rimangono per settori come il trasporto marittimo e aereo, l’industria pesante e l’energia, dove sarà essenziale scalare biocarburanti, idrogeno e tecnologie di cattura del carbonio. Anche se i combustibili fossili giocheranno ancora un ruolo importante, la domanda di petrolio e carbone è destinata a un declino strutturale, mentre il gas naturale potrebbe crescere moderatamente, continua il report. Le energie rinnovabili, i veicoli elettrici e lo stoccaggio dell’energia sono indicati come soluzioni chiave per ridurre le emissioni, migliorare la sicurezza energetica e ridurre i costi energetici. Anche se, fondamentale, gli investimenti globali nelle reti elettriche dovranno superare la spesa per le energie rinnovabili per raggiungere emissioni nette pari a zero entro il 2050. Secondo il New Energy Outlook di Bloomberg il mondo dovrà quasi raddoppiare la propria rete elettrica portandola a 111 milioni di chilometri, equivalente a quasi tre quarti della distanza dal sole. Il prezzo da pagare per una tale revisione sarà di circa 24,1 trilioni di dollari, rispetto ai 22,7 trilioni di dollari spesi per le energie rinnovabili per raggiungere l’obiettivo. Sono numeri buoni per il Monopoli. Non certo per l’economia reale.
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Le misure green fanno fiasco: il 2023 è stato l’anno in cui è stata diffusa più CO2 a livello globale, quindi ci siamo impoveriti per niente. Pure il tetto al prezzo del petrolio russo fa più danni a noi che a Mosca.
Record di emissioni di anidride carbonica nel 2023. A dispetto di tutti gli sforzi, nonostante i costi altissimi dell’energia e la pioggia di sussidi al green, il 2023 diventa l’anno in cui le emissioni mondiali di origine antropica hanno toccato il massimo. Lo certifica la serissima pubblicazione annuale Global Carbon Budget, curata da Global Carbon Project, un network di studiosi e ricercatori, uscito ieri e pubblicato dall’altrettanto seria Earth System Science Data.
La concentrazione di CO2 nell’atmosfera è arrivata a 419,3 parti per milione in media nel 2023 (+2,4 ppm) e le emissioni da fossili nell’anno hanno toccato 37,5 miliardi di tonnellate, nuovo record (+ 400 milioni di tonnellate). Le emissioni totali (considerato l’uso del suolo e il cemento) hanno toccato quest’anno 40,9 miliardi di tonnellate. Il report contiene molti dati interessanti. Ad esempio, diventa lampante come tutti gli sforzi che l’Europa, a suon di miliardi di euro, sta facendo per tagliare le emissioni sono totalmente annullati dall’aumento delle emissioni di India e Cina, che quest’anno hanno raggiunto il loro massimo storico. Se l’Europa, con i sacrifici che tutti vediamo, è riuscita a tagliare le proprie emissioni di 200 milioni di tonnellate di CO2, l’India ha cancellato questo piccolo vantaggio emettendone 230 milioni in più. Poi la Cina ha fatto il resto con altri 460 milioni di tonnellate in più. Persino gli Stati Uniti nel 2023 sono stati virtuosi, emettendo 150 milioni di tonnellate in meno, ma anche i loro sforzi sono stati inutili. In sintesi, la Cina è il maggior emettitore mondiale di CO2 derivante dall’uso di combustibili fossili, con 11,9 miliardi di tonnellate di CO2 emessa nel 2023, in crescita rispetto al 2022 del 4%. Seguono gli Usa, con 4,9 miliardi di tonnellate, in calo del 3%. Poi l’India, con 3,1 miliardi di tonnellate, in crescita del 8,2%. Poi l’Unione europea con 2,6 miliardi di tonnellate, in calo del 7,4%. La Cina da sola, cioè, emette 4,5 volte quanto l’intera Ue. Il resto del mondo emette per 14 miliardi di tonnellate. Nel complesso, le emissioni cinesi pesano per il 31% del totale, quelle degli Usa per il 14%, le emissioni indiane pesano per l’8%, quelle Ue per il 7%, quelle della Russia per il 4%, le giapponesi per il 3%.
Nel mondo, il combustibile responsabile delle maggiori emissioni è il carbone, con 15,4 miliardi di tonnellate di CO2 emessa. Seguono il petrolio (12,1 mld T), il gas (7,8 mld T).
Da notare che degli 11,9 miliardi di tonnellate emesse dalla Cina, ben 8,5 sono dovute al carbone (pari al 71%). In pratica, le sole emissioni derivanti dall’uso del carbone in Cina sono pari a 3 volte l’intero stock di emissioni annuali di tutta l’Ue. Allo stesso modo, le emissioni da carbone in India sono pari a 2 miliardi di tonnellate di CO2, pari al 65% delle emissioni totali indiane e al 76% di quelle totali europee.
Non solo: le emissioni dall’uso di carbone in Cina rappresentano il 55% del totale mondiale di emissioni da uso di carbone. L’Ue, nel 2023, ha emesso 1,2 miliardi di tonnellate dall’uso di combustibili a base di petrolio, 640 milioni di tonnellate da gas, 577 milioni di tonnellate da carbone. Tutti valori in netto calo rispetto all’anno precedente.
Utile anche osservare la proiezione relativa alle necessità di contenere l’aumento della temperatura entro i 1,5° centigradi. Per riuscirci, il mondo dovrebbe dimezzare le emissioni annuali entro il 2030 ed azzerarle completamente entro il 2037. Se l’obiettivo invece fosse di contenere le temperature entro gli 1,7 gradi di aumento, il dimezzamento delle emissioni si sposterebbe in avanti al 2040 e l’azzeramento totale al 2054. Con un obiettivo di 2 gradi, le emissioni sarebbero da dimezzare entro il 2050 ed azzerare entro il 2080. Dunque, tutto ciò che fa l’Occidente viene cancellato dall’aumento delle emissioni dei Paesi in via di sviluppo e dalla Cina. Con la stretta europea sulle emissioni, come è evidente, il risultato è una tripla sciagura. Da una parte, l’economia non cresce, i bilanci pubblici affondano nei debiti e il potere d’acquisto dei cittadini si assottiglia. Dall’altra, la Cina si avvantaggia della deindustrializzazione occidentale e occupa i mercati con i suoi prodotti a basso costo, favorita dal dumping ambientale. Infine, non si raggiunge l’obiettivo di ridurre le emissioni, che infatti aumentano.
La propensione occidentale a farsi del male è peraltro evidente anche dalla paradossale vicenda delle sanzioni al petrolio russo, decise da G7 e Unione europea in seguito all’invasione dell’Ucraina da parte di Mosca. Secondo un rapporto del Centre for Research on Energy and Clean Air (Crea), il tetto al prezzo del greggio russo, fissato a 60 dollari al barile, è stato comodamente aggirato con una serie di escamotage. Qualche effetto c’è stato, certo, ma molto inferiore alle attese. Circa la metà dei carichi russi ha viaggiato esattamente come prima del price cap, mentre sul resto le triangolazioni con altri Paesi hanno consentito di evitare il vincolo. Il price cap ha provocato soprattutto disagi e prezzi più alti in Europa, senza ottenere il risultato per cui era stato istituito. Un altro fallimento occidentale da aggiungere alla lista.
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