A pochi giorni dalla conferma di condanna della Corte d’appello di Brescia (8 mesi di reclusione), arriva una nuova sentenza che smonta ancora una volta l’impianto accusatorio che Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro avevano sostenuto durante il processo Eni-Shell per il blocco Opl 245 in Nigeria. Le oltre 400 pagine delle motivazioni con cui il tribunale di Milano ha assolto il 14 luglio Abubakar Alhaji Aliyu dall’accusa di corruzione internazionale contengono un giudizio severo su tutto l’impianto accusatorio, che De Pasquale aveva continuato a sostenere in questi mesi, nonostante l’assoluzione di tutti gli imputati nel filone principale del processo (perché il fatto non sussiste) e la condanna in primo grado per aver omesso prove agli imputati. La giudice Tiziana Landoni, nelle motivazioni, parla di salti logici «non condivisibili», valutazioni non fondate e ipotesi «gravemente generiche» e «incoerenti» formulate dalla Procura, ribaltando di fatto l’intera costruzione accusatoria sul caso Eni-Shell-Opl 245.
Uno dei punti più netti riguarda l’ex amministratore delegato di Eni, Paolo Scaroni. Il pm aveva sostenuto che le dichiarazioni rese da Scaroni nel 2011, in cui definiva «non andata a buon fine» la trattativa sulla licenza petrolifera nigeriana, potessero costituire un «tentativo di depistare» o di «minimizzare» il suo coinvolgimento. La sentenza smentisce questa ipotesi senza mezzi termini. Anche perché quelle parole, scrive la giudice, «non sono state un tentativo di depistare o di minimizzare, ma la rappresentazione fedele delle decisioni adottate dal vertice di Eni in quel preciso momento storico». Un passaggio che ribalta completamente la lettura accusatoria. Landoni respinge anche la valenza indiziaria attribuita dall’accusa agli incontri tra Scaroni ed Emeka Obi, presunto intermediario nigeriano. Le indagini avevano ipotizzato riunioni riservate a Milano e Parigi, mai riscontrate negli atti.
La sentenza osserva che «non si rinviene traccia di incontri o appuntamenti nelle scrupolose annotazioni cronologiche di Obi» e che le dichiarazioni del teste Vincenzo Armanna, su cui la Procura aveva costruito parte della tesi, sono inattendibili e non confermate. Un passaggio della sentenza è dedicato all’ex dirigente Eni considerato per anni uno dei testimoni chiave dell’accusa. Il tribunale ne contesta la credibilità, riportando integralmente un brano del suo esame in aula: il giudice scrive che il dichiarante «ammette una confusione tra ricordi effettivi e deduzioni ricavabili dalla lettura dei documenti», e che la giustificazione fornita - «son passati tre anni» appare «risibile». Un giudizio severo, che mina alla radice l’attendibilità di uno dei pilastri dell’impianto accusatorio costruito dai pm De Pasquale e Spadaro. Secondo la sentenza, Armanna non solo non ricorda con precisione i fatti, ma confonde letture retrospettive e ipotesi personali, rendendo le sue dichiarazioni inutilizzabili sul piano probatorio. La motivazione entra nel merito delle prove e rileva che l’accusa ha compiuto un salto logico non condivisibile nel tentativo di estendere le conoscenze generiche di Armanna a tutti i dirigenti Eni imputati. Il riferimento alla cosiddetta formula della corruzione, contenuto in una mail interna di Shell, viene respinto: non prova alcun accordo illecito ma semmai un diverso accordo di natura politica tra Dan Etete e il presidente nigeriano. Landoni contesta inoltre la tesi di un ambiente corrotto generale, osservando che un contesto difficile non basta a dimostrare il dolo richiesto per un reato di corruzione internazionale. La Procura, scrive, ha sovrapposto rapporti personali, sospetti e documenti costruendo un teorema senza riscontri. Da qui l’assoluzione piena di Abubakar (difeso dall’avvocato Carlo Farina) perché il fatto non sussiste. Il tribunale rileva infine che il documento Opl 245 brief, indicato dai pm come prova della corruzione, era in realtà un testo tecnico interno, privo di contenuto illecito.







