Clemente Mastella, sindaco di Benevento, a Dimmi La Verità: "Per il governo il passaggio autunnale è molto delicato. Il consenso della Meloni è ancora alto ma eviterei contrasti con l'Europa. Ha la capacità di diventare la Merkel tedesca ma deve essere meno rigida ideologicamente"
Giorgia Meloni (Ansa)
Nessuno nega che le Procure debbano fare il proprio dovere anche con gli esponenti delle istituzioni, ma è sospetta la concomitanza tra inchieste e proposte di legge che toccano il potere dei magistrati.
Ci risiamo. Sono passati trent’anni ma siamo ancora al punto di partenza, cioè allo scontro tra politica e magistratura. Il conflitto ci lasciò in eredità le ceneri della prima Repubblica, andata in fumo nell’incendio di Tangentopoli. E la seconda si aprì con lo stesso scenario di quella che l’aveva preceduta, ovvero con un avviso di garanzia recapitato con un tempismo perfetto nella redazione del Corriere della Sera mentre era in corso a Napoli il G7, ovvero la riunione dei grandi della terra. Silvio Berlusconi, fresco di incarico di presidente del Consiglio, mentre stringeva le mani a Bill Clinton, a François Mitterand e a Helmut Kohl (ma c’erano anche Boris Yeltsin, John Major e Jaques Delors) fu costretto a stringere i denti per la botta, che di lì a breve, complice le trame di Oscar Luigi Scalfaro che garantì a Umberto Bossi la prosecuzione della legislatura, portò alla caduta del governo e alle dimissioni del Cavaliere.
Nel corso degli anni sono state innumerevoli le volte in cui le vicende politiche si sono incrociate con quelle giudiziarie. A destra come a sinistra. Basti ricordare che a innescare la crisi che portò all’addio di Romano Prodi al suo secondo giro a Palazzo Chigi fu un’inchiesta della Procura di Santa Maria Capua Vetere, che portò all’arresto di Sandra Lonardo, moglie dell’allora ministro della Giustizia Clemente Mastella, all’epoca impegnato in una riforma delle intercettazioni e più in generale delle procedure di carriera dei magistrati. Al Guardasigilli, indagato insieme con la consorte, furono contestati sette reati. Inutile dire che dopo quasi dieci anni i coniugi furono assolti dall’accusa di concussione nei confronti del governatore della Campania e anche dalle altre che erano state contestate, ma nel frattempo il governo era caduto da un pezzo e gli italiani avevano visto sfilare cinque nuovi presidenti del Consiglio e un paio di elezioni.
Se cito il caso Berlusconi che risale a quasi trent’anni fa e quello dell’ex leader dell’Udeur è perché tra i tanti che potrebbero essere menzionati mi paiono i più significativi per dimostrare che qualcosa nel rapporto tra giudici e politica non funziona. Nessuno nega che la giustizia debba fare il proprio corso e non guardare in faccia a nessuno, anche se c’è di mezzo un rappresentante delle istituzioni. Tuttavia, è mai possibile che l’iter giudiziario incroci sempre quello di leggi che toccano da vicino le toghe? Ed è altrettanto incredibile che gli avvisi di garanzia, oltre ad essere recapitati quasi sempre a mezzo stampa, giungano a destinazione, cioè siano resi noti all’opinione pubblica, mentre sono in corso decisioni importanti. Berlusconi incontra i grandi della Terra? Prima deve incontrare il maresciallo che gli recapita la notizia della sua iscrizione nel registro degli indagati. Mastella parla alle Camere? Ma prima deve parlare con la signora che gli comunica di avere gli ufficiali di polizia giudiziaria sull’uscio. Daniela Santanchè deve riferire in merito a una vicenda che la riguarda e che l’opposizione spera di usare per farla dimettere dall’incarico di ministro del Turismo? E qualcuno si incarica di far uscire in prima pagina la notizia delle indagini a suo carico.
Il nostro Giacomo Amadori ha spiegato come è nata la vicenda che riguarda la Pitonessa (è il soprannome che le viene attribuito). La denuncia di alcuni soci di minoranza ha fatto scattare l’inchiesta e di conseguenza la sua iscrizione – segretata – nel registro degli indagati. I fatti risalgono a prima che nascesse il governo Meloni, ma guarda caso se ne ha notizia solo in prossimità del giuramento al Quirinale. Coincidenza? Forse.
Ma poi, nonostante le indagini non abbiano fatto un passo avanti - anzi forse qualcuno indietro, con l’archiviazione di alcune richieste - ecco che in prossimità dell’intervento in Senato del ministro rispuntano, rilanciate con maggior forza. Difficile non scorgere una manina. Difficile non intravedere un disegno che punta a mettere in difficoltà l’esecutivo. Soprattutto se il rilancio delle accuse alla Santanchè coincide con il rinvio a giudizio del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, accusato di aver passato a un collega alcune note di servizio riguardanti l’anarchico Alfredo Cospito. Per di più, dopo che la stessa Procura aveva richiesto l’archiviazione. Inoltre, ciliegina sulla torta, ecco un’indagine per violenza sessuale a carico del figlio minore di Ignazio La Russa, quasi a pareggiare i conti con il figlio di Beppe Grillo.
Risultato, dopo trent’anni siamo tornati al punto di partenza. Alla guerra fra politici e magistrati, con accuse di invasione di campo dei primi ai secondi. In trent’anni le abbiamo viste tutte, ma abbiamo anche visto il Paese andare a rotoli, più indebitato di prima, più incapace di risolvere i problemi di prima. So che susciterò qualche reazione contraria, ma per me o si recide questo nodo, facendo in modo che indagini «politiche» non interferiscano con la vita del Paese (penso a inchieste come quella che frugò nel letto di Berlusconi) o meglio reintrodurre l’autorizzazione a procedere voluta dai padri costituenti. A meno di non preferire che l’Italia vada a ramengo.
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Clemente Mastella (Imagoeconomica)
Il sindaco di Benevento: «La Meloni deve fare il campo largo e guardare al centro: faccia il suo Pdl. Se ci riesce verrà proiettata al governo dell’Europa. Boccio la Schlein: se il Pd scivola sempre più a sinistra perderà ancora».
«Giorgia Meloni salga sul predellino. Il campo largo lo deve fare lei. Guardi al centro, più che a destra. E fondi un nuovo grande partito dei moderati. È un’occasione unica, in Italia e in Europa». Elly Schlein? «Finché si buttano a sinistra continueranno a perdere». Clemente Mastella, sindaco di Benevento e navigatissima intelligenza democristiana, nonché rappresentante della formazione Noi di centro, si diverte, in chiusura di stagione, ad assegnare le pagelle ai protagonisti della politica italiana.
Cominciamo dal premier?
«Giorgia Meloni è promossa con qualche nota a margine. Le consiglio solo di non esasperare i toni con Bruxelles. Non è vantaggioso».
Cioè?
«Lei era guardata in Europa come me, giovane politico sbarcato a Roma da Ceppaloni: mi trattavano un po’ da cafone. Oggi il talento della Meloni mi pare riconosciuto anche oltreconfine, anche se, quando fa una battuta fuori posto, agli altri la perdonano e a lei ancora no».
Però?
«Però oggi con l’Europa devono fare i conti tutti, anche i cosiddetti patriottici. Non dico che dev’esserci subordinazione, ma neanche contrasto continuo. Altrimenti ce la faranno pagare».
Il Mes sarà usato come merce di scambio in una trattativa con Bruxelles sul Pnrr?
«Quando arriva la frana, il Mes è la vanga con la quale potrai spalare. La trattativa può starci, ma non deve suonare come un ricatto. Un po’ tutti i Paesi vedono all’orizzonte guai economici, e se la tensione sale troppo, il rischio è che a un certo punto ognuno cominci a pensare per sé».
Quando è partito il governo, lei disse che Meloni doveva essere un po’ democristiana e un po’ draghiana. Ha seguito il consiglio?
«Sta spingendo tantissimi Draghi-boys, e da questo punto di vista è più draghiana di Draghi».
Serve una svolta?
«Il campo largo lo deve fare la Meloni, non la sinistra. Deve diventare leader di un’area moderata che possa avere peso in Europa. Insomma, anche Giorgia Meloni deve salire sul predellino. E farsi il suo Pdl, come Berlusconi».
Come fosse l’erede del Cav?
«Esattamente. E sarebbe anche più forte, perché andrebbe a fare da tramite pure con gli ungheresi e i polacchi, attenuandone le intemperanze. Prima però deve tagliare gli ultimi ponti con il passato tradizionalista. La formula è: più Mes, meno Msi».
Se riuscisse?
«Verrà proiettata al governo dell’Europa, insieme ai popolari. Se invece non ce la fa, i popolari europei continueranno ad avere mani libere assieme ai socialisti e ai macroniani».
Proseguiamo con le pagelle: Matteo Salvini?
«Lo promuovo, anche se in passato non mi ha trattato benissimo: però devo dire che ultimamente sta facendo più il ministro che il capopartito. Lo apprezzo».
Più concreto e meno rumoroso?
«Non so se il ponte sullo Stretto resterà nel libro dei sogni, però su alcuni temi concreti sta cercando di smuovere la palude. Prima lo vedevo troppo impulsivo, continuava a girare ovunque, mentre adesso mi sembra stia seguendo la lezione di De Mita: “Ogni tanto, fermati e pensa”».
Elly Schlein: promossa o bocciata?
«Sono costretto a bocciarla. E infatti io preferivo Bonaccini. D’altronde, se scivoli a sinistra e non bilanci al centro, non c’è niente da fare: continuerai a perdere».
Questa la profezia?
«Il centro esercita ancora la funzione di mitigare le asprezze, i fanatismi, le esagerazioni ideologiche. Non puoi fare finta che non esista».
E le elezioni in Molise lo dimostrano?
«Nella famosa “limonata di Campobasso”, cioè l’incontro Schlein-Conte-Fratoianni, io non ho visto un solo moderato. Al tavolo c’era un 5 stelle, una di sinistra, e uno ancora più di sinistra. Così, altro che limonata: rimarrai spremuto. Siamo lontanissimi dall’Ulivo…».
Perché?
«Il centrosinistra vinse le elezioni nel 2006, anche se di misura, grazie al centro. È un dato di fatto. Da quando la coalizione si è sbilanciata a sinistra, non ha più vinto le elezioni. Certo, è tornata al governo più volte: ma sempre in maniera stramba, per vie traverse».
Quindi il patto Pd-5 stelle è la strada sbagliata?
«Io dico che il centrodestra, con tutti i suoi problemi, una solidarietà di fondo tra gli alleati ce l’ha. Quella tra Conte e Schlein mi pare una semi-solidarietà, una cosa che la gente proprio non capisce».
Cosa vuol dire semi-solidarietà?
«Fanno finta di volersi bene, ma non c’è fiducia. Come si dice dalle mie parti, “a futti i compagni”. Così non si va da nessuna parte. Che cosa propongono agli italiani? Qual è la speranza, quale il sogno che proponi?».
Previsione per le prossime Europee?
«Chi guadagnerà di più in termini di consenso è ancora la Meloni. Schlein non andrà male, e potrà tenersi la segreteria: ma saranno solo voti movimentisti, con cui in termini di strategia politica si fa poco e niente. C’è poco da fare: da quelle parti la scemenza storica l’hanno fatta quando hanno fondato il Pd, mettendo insieme sinistra e democristiani. E infatti mi sono rifiutato di partecipare».
Lei alle Europee ci sarà?
«Certo, anche se dovrò fare sintesi con qualcuno per superare la soglia di sbarramento».
E poi?
«E poi, fin quando ho la forza fisica, vorrei continuare a fare il sindaco di Benevento. Siamo la provincia che è stata più abile ad investire i fondi del Pnrr. A proposito: perché i governatori possono fare il terzo mandato, e noi sindaci no? Mi pare un’idiozia costituzionale».
Per chiudere con il pagellone: la coppia centrista Renzi-Calenda.
«Siccome non si capiscono tra di loro, non li capisce nessuno. E poi sul territorio non hanno un voto: anche se Renzi è un bravissimo venditore di sé stesso».
Cioè?
«Nel Molise, per ragioni di amicizia, ho sostenuto il presidente eletto, insieme all’Udc e Italia viva. Risultato? Il mio segretario regionale ha preso 4.000 voti, quello di Renzi solo 400, ma il senatore va in giro a dire che abbiamo vinto grazie a lui».
E come si spiega?
«Si spiega col fatto che Matteo Renzi è un campione a fare ammuina».
Ammuina?
«Come la regia marina di Franceschiello di Borbone: per darsi un tono, chi stava a poppa andava a prua e viceversa, solo per il gusto di fare casino. Come certi gorilla che si battono il petto senza attaccare mai. Così fa Renzi».
Riconoscerà che il senatore fiorentino ha innegabili qualità tattiche.
«Verissimo, però non ha voglia di consumarsi le scarpe in periferia, tra la gente, per costruire il partito. È lo stesso tipo di sofferenza che colpì Craxi».
Che c’entra Craxi?
«Persa la poltrona di presidente del Consiglio, Craxi entrò in depressione. C’era da capirlo: prima trattava con i grandi del mondo, e dopo con il segretario di sezione di Roccacannuccia».
E quindi?
«Allo stesso modo, Renzi ha fatto il premier giovanissimo: oggi tornare a occuparsi di Isernia per lui è una frustrazione, e infatti è più allettante andare a fare conferenze con lo sceicco. Da questo punto di vista, Berlusconi ha dato una lezione importante».
Quale?
«Anche sul picco di popolarità e di consenso, Berlusconi è rimasto umile, ha continuato a ricevere e stringere la mano a tutti. Per far questo devi avere dentro una grande pazienza».
Lei divenne ministro nel primo governo Berlusconi, nel 1994: aneddoti?
«Le racconto questa. Eravamo io, Pierferdinando Casini e Francesco D’Onofrio. Atterriamo a Linate, e io pago di tasca mia le centomila lire al tassista. Direzione Arcore».
E poi?
«Era una giornata particolare, un’indagine aveva colpito il fratello di Berlusconi. Ci fecero fare parecchia anticamera, e il Cavaliere non si vedeva. Io girovagavo, e mi accorsi che lui teneva dei cioccolatini in tutte le stanze della villa, ma proprio dappertutto».
E dunque?
«E dunque in tre ore di attesa ci siamo fottuti tutti i Ferrero Rocher che c’erano ad Arcore».
È una confessione?
«D’altronde eravamo tre democristiani uno più ghiotto dell’altro. Alla fine si materializza il Cavaliere e fa una cosa inaspettata: dopo cena, si mette al pianoforte e inizia a cantare. Era l’inno di Forza Italia, nuovo di zecca».
E voi?
«Rimasti di sasso. Era l’ultima cosa che potevamo immaginare: una musica per un partito? Noi della prima repubblica siamo rimasti a guardarlo con stupore e ammirazione. Era cambiato tutto, in politica, ma in quei giorni ancora non l’avevamo capito. Lui invece sì».
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Giuseppe Conte e Beppe Grillo (Ansa)
Restano a casa Fico, Crimi, Toninelli, Bonafede, D’Incà e la Taverna. Così l’Elevato fa fuori anche il cerchio magico del leader. Per Giuseppi si annuncia un periodo da navigator per trovare impiego a precari di lusso
La regola del secondo mandato è blindata: Giuseppe Conte subisce il diktat di Beppe Grillo e conferma che alle prossime elezioni politiche del 25 settembre il M5s non ricandiderà chi ha due legislature alle spalle. L’Italia assiste sconcertata e preoccupata a questa strage di menti eccelse: resteranno fuori dal parlamento una cinquantina di uscenti, tra i quali esponenti politici dello spessore di Roberto Fico, Vito Crimi, Danilo Toninelli, Alfonso Bonafede, Federico D’Incà e Paola Taverna, che si prepara al passaggio dalla storia al mito (il mito della Taverna). Curiosamente, alla ufficializzazione della notizia, ieri, le Borse mondiali non sono crollate e lo spread è sceso: evidentemente il pianeta non ha ancora compreso le reali dimensioni della sciagura, o forse la prospettiva di vedere eletto in parlamento Rocco Casalino ha attenuato lo sconforto generale e aperto il cuore dei popoli a una nuova speranza.
Fatto sta che Giuseppi ha dovuto sottostare alla decisione di Grillo, che ripetutamente, nei giorni scorsi, ha mandato, è il caso di dirlo, a quel paese il leader pentastellato, incline a concedere delle deroghe ai sedicenti big del M5s. La decisione spalanca le porte del M5s al figliol prodigo (di insulti verso i suoi ex colleghi di partito) Alessandro Di Battista, che di mandato parlamentare ne ha svolto solo uno, rinunciando a ricandidarsi nel 2018, mentre circolano voci di una candidatura di Chiara Appendino.
Qualche maligno sostiene che in realtà Giuseppi si sia tolto un pensiero: ora avrà spazio nelle liste per i suoi fedelissimi che hanno una sola legislatura all’attivo, e potrà magari simulare di aver preso lui la decisione, cercando di dimostrare che il suo M5s non deraglia dai principi originari della creatura di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio. Trattasi di bufala, manco a dirlo, ma spendibile dal punto di vista propagandistico. Non a caso Conte affida a Facebook il suo maldestro tentativo di capovolgere la realtà, fingendo soddisfazione per quella che è a tutti gli effetti una sua ennesima sconfitta: «Alle prossime elezioni politiche», annuncia un preoccupato Conte, «non troverete, tra i candidati del M5s, chi ha già svolto due mandati. Non cambia, quindi, la regola che il Movimento si è imposto dalla prima ora come forma di garanzia affinché gli eletti possano dedicarsi al bene del Paese, senza lasciarsi distrarre dai propri destini personali. Il mio pensiero», aggiunge un commosso Giuseppi, «è oggi rivolto a tutti coloro che nel corso dei due mandati hanno lottato contro tutto e tutti per vincere le battaglie del M5s. Sono partiti dai banchetti nelle loro città per chiedere giustizia sociale, legalità, tutela ambientale».
Li rivedremo tra i banchetti delle loro città? Non si sa. Quello che si sa, è che Conte dovrà sistemarli da qualche parte, magari con un incarico nel partito, o in una partecipata, o in un cda: per Giuseppi si annuncia un periodo da navigator, il suo ufficio verrà trasformato in un centro per l’impiego per precari di lusso. Conte la butta sul poetico: «Lasciando il seggio», azzarda il leader grillino, «non potranno più fregiarsi del titolo formale di onorevoli. Ma per noi, per la parte sana del Paese, saranno più che onorevoli. Il patrimonio di competenze ed esperienze con loro maturate non andrà disperso. Continueranno a portare avanti, insieme a noi, le battaglie del Movimento. Abbiamo bisogno della loro esperienza, della loro competenza, della loro inguaribile passione. Ora avanti, tutti insieme: ci aspetta», avverte Conte, «una campagna elettorale molto dura».
Giuseppi contatta telefonicamente i futuri disoccupati, parla di una decisione imposta da Grillo, ma si tratta di pura demagogia: del resto, i sedicenti big del M5s destinati a tornare alle loro precedenti attività non sono dotati di voti personali, e non verrebbero eletti neanche in un’assemblea di condominio. La Taverna, su Facebook, simula nobile e austera indifferenza: «Ringrazio tutti voi», scrive la quasi ex senatrice, «per avermi dato la possibilità di essere parte di quella voce in questi 10 anni. Sorrido pensando che forse l’eco delle mie urla contro il sistema e le sue storture continuerà a sentirsi ancora per qualche tempo a Palazzo Madama! È il momento di guardare avanti e di farlo tutti insieme! Con l’entusiasmo delle origini e la voglia di cambiare», aggiunge la Taverna, «che ci ha consentito di vincere tante battaglie». Infine, la terribile minaccia: «Io c’ero, ci sono e ci sarò sempre!».
A quanto apprende La Verità da fonti estremamente attendibili, il telefonino di Luigi Di Maio ieri è stato letteralmente inondato da squilli e messaggini affettuosi di decine di vittime della tagliola del secondo mandato: «Luigi, ricordati degli amici!», il ritornello di chi non si rassegna a restarsene a casa e punta sul nuovo progetto politico del ministro degli Esteri e del sindaco di Milano Beppe Sala, che dovrebbe essere varato entro al prossima settimana e che si appoggerà a Centro democratico di Bruno Tabacci per non dover raccogliere le firme necessarie alla presentazione di nuove liste elettorali. In cerca di una ciambella di salvataggio da parte del Pd, invece, due pezzi da novanta, nel senso da novanta voti in totale: il ministro D’Incà e l’ex capogruppo alla Camera del M5s, Davide Crippa, che ha lasciato i pentastellati in dissenso con la mancata fiducia a Mario Draghi. Al suo posto, ieri, è stato eletto Francesco Silvestri, che guiderà il gruppo M5s a Montecitorio in questi ultimi due mesi di legislatura.
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Clemente Mastella (Getty Images)
Il sindaco di Benevento: «Così si rischia la fine della democrazia. All’estero un banchiere centrale non diventerebbe premier...»
«Hanno fatto il funerale al “campo largo”, e poi l’hanno gettato nell’inceneritore. Una cosa è certa: se Draghi se ne va, serve un patto con gli italiani. Basta tecnici a Palazzo Chigi». Clemente Mastella, segretario nazionale di «Noi di centro» e sindaco di Benevento, di crisi ne ha viste tante. «Ma come questa mai. Assistiamo a un tentativo disperato dei 5 stelle di recuperare consenso, dopo lo sfasciume che hanno realizzato. Vanno verso il disastro elettorale».
Si aspettava che il governo di unità nazionale esplodesse a metà luglio?
«Io avevo due zii: Diamante, la sorella di mio padre, e Giovannino. Lei era forte come una roccia, lui era pieno di problemi di salute. Però incredibilmente zia Diamante è morta quindici anni prima».
Che vuol dire?
«Che anche in politica l’apparenza inganna. Le maggioranze larghe muoiono prima, quelle fragili restano in piedi di più. Proprio come zio Giovannino».
Se questa larga maggioranza sta morendo, adesso che succederà?
«Dipende da Draghi. Con le sue ultime dichiarazioni si è messo in una condizione, diciamo così, un po’ respingente».
Il premier sembra irremovibile. Da dove arriva secondo lei questa durezza?
«Ha le sue buone ragioni e i grillini gli hanno fornito un alibi perfetto per andarsene. Ma fondamentalmente Draghi è ancora incazzato nero per la mancata elezione alla presidenza della Repubblica».
Addirittura?
«E forse anche gli attriti con Mattarella, di cui si vocifera in queste ore, potrebbero essere dovuti a questo risentimento personale, per la battaglia del Quirinale andata perduta».
Una delusione che non lo abbandona. E oggi?
«Legittimamente, Draghi tenta di conservare un suo standing, un suo aplomb. Non si fa scalfire. Ma dovrebbe capire che la politica è anche arte del compromesso».
Cioè?
«Il vizio di chi è estraneo alla politica è quello di ritenere che arrivare al compromesso comporterebbe l’accettazione di un ricatto. Non è così. Non sempre. Se ci sono esagerazioni è giusto respingerle, in altre circostanze invece, è bene mitigare le asprezze, addolcire gli angoli. Questa è la politica».
Ma gli ex banchieri non sono abili a maneggiare certi rituali…
«È vero che Draghi non ha l’esperienza del politico navigato, ma essendo in campo come presidente del Consiglio, diciamo che si piglia il virus».
Si piglia il virus?
«Comunque vada, stai nel Palazzo. Vivi a contatto con i partiti. Il virus politico te lo attaccano. E devi sapere gestire nel modo più giusto questo “contagio”».
Pare che, di fronte a Mattarella, Draghi abbia motivato la sua decisione anche con il desiderio di difendere la sua credibilità.
«Non so se è vero. Ma un politico che vuole entrare nella storia deve pensare alla credibilità del Paese prima che alla sua. Non è che possiamo mandare l’Italia a carte quarantotto per salvare il suo curriculum».
Il presidente Mattarella proverà in tutti i modi a farlo tornare sui suoi passi. Lei spera in un ripensamento?
«Conoscendo Mattarella, so che proverà in tutti a modi a ricucire la situazione. E gli verrà da sorridere vedendo il ministro Patuanelli che non vota la fiducia al governo ma resta comunque al suo posto al ministero. Una roba che neanche in Papuasia».
Difficile immaginare il capo dello Stato sorridente, in questi giorni…
«Magari Mattarella si ricorderà di quando, in disaccordo con la decisione di Andreotti di mettere la fiducia sulla legge Mammì, si dimise da ministro, insieme ad altri quattro esponenti della sinistra dc».
Un esempio di stile?
«Funziona così: se non condividi, ti dimetti. E lo dico io, che nella mia vita politica mi sono dimesso diverse volte, pagandone pure il prezzo».
E i 5 Stelle?
«Erano quelli del vaffa, e oggi camminano con la poltrona incollata. Affetti da poltronite acuta. Giuseppe Conte, poi, ha dimostrato grande incapacità politica. Ma anche qui, giriamo intorno allo stesso concetto».
Quale concetto?
«Io non vado a fare il docente universitario senza gli studi propedeutici. Conte invece, pur arrivando dalle professioni, si è convinto di essere diventato in un giorno un grande talento politico».
Invece?
«Invece, da questo punto di vista, anche la politica è una scienza esatta. Non ci si improvvisa. Per carità, magari puoi diventare un leader per caso, per una botta di fortuna. Ma prima o poi l’aureola scompare».
Forse qualcuno, a sinistra e al Quirinale, ha sopravvalutato i pentastellati nel superiore interesse di evitare a tutti i costi le elezioni?
«Forse i grillini hanno perso la testa anche dopo la scissione di Di Maio. Un incidente che ha accelerato la rovina».
Parliamo di percentuali. Qual è la probabilità di precipitare verso le elezioni?
«Vedo il voto intorno al 50%. Il boccino ce l’hanno in mano Berlusconi e Salvini. A Giorgia Meloni, determinatissima sulle elezioni, vorrei dire una cosa: attenzione, perché quegli italiani che si sono rotti le scatole e vogliono le urne, poi sono gli stessi che a votare non ci vanno».
E dunque?
«Se andremo al voto a settembre/ottobre, con l’inflazione a due cifre, con il gas a singhiozzo, con il Covid che restringe gli spazi di relazioni umane, qualche elettore potrebbe chiedersi: che facciamo? Ce ne strafottiamo di tutto, solo perché qualche politico vuole arrivare primo?».
Insomma, lei cosa si aspetta?
«Partiamo dal fatto che questa è una crisi scoppiata fuori dal parlamento: dentro le camere, Draghi, i numeri ce li ha».
Quindi?
«Bisogna anzitutto vedere se mercoledì Draghi fa una semplice relazione al Parlamento, oppure apre una discussione. In questo caso i 5 stelle potrebbero avere l’occasione per ridimensionare l’accaduto».
E a quel punto Draghi dovrebbe fare finta di niente?
«A quel punto un politico normale dovrebbe prendere atto della nuova situazione e rimettere in piedi il governo».
Ma a quali condizioni?
«Come quel fumetto sul Corriere dei Piccoli, Draghi direbbe a tutti: “La prossima che mi fai, io mi licenzio e tu te ne vai”. Al primo mal di pancia di M5s o Lega, lascio tutto».
Difficile pensare a uno scenario simile, in queste ore.
«Poi, detto questo, mi faccia pure sottolineare una cosa: ricordiamoci anche che Cincinnato, nei tempi antichi, durò solo sei mesi».
Sarebbe a dire?
«Il periodo di “dittatura”, tra virgolette, di governo emergenziale, non può nemmeno durare all’infinito. Sennò è la fine della democrazia. È vero che siamo in una fase particolare, però bisogna stare attenti».
Anche lei vede il rischio di emergenza permanente?
«Io dico che se Draghi se ne va davvero, ci vuole un patto con gli italiani: mai più un tecnico a Palazzo Chigi. Mai più».
Serve un politico, insomma?
«La gestione politica di un governo deve essere riservata alla politica. Ma secondo lei in Germania o in Francia avrebbero mai messo un banchiere centrale a fare il capo del governo?».
No?
«Con tutta la simpatia per Draghi: perché in Italia dobbiamo avere questa sorta di complesso di inferiorità della politica rispetto ai tecnici?».
Forse perché la classe politica si è incartata da anni?
«Per l’amor di Dio, in parte è vero anche questo. Ma non tutta la classe politica è da buttare via».
Torniamo all’oggi. Il più terrorizzato dal voto è Enrico Letta?
«Sì perché con l’uscita di scena, salvo soprese, dei cinque stelle, il Pd sul piano strategico si ritrova in un vicolo cieco».
Un vicolo? Ma non doveva essere un campo largo?
«No, diciamo che con questa crisi si celebra il funerale del campo largo. È finito nell’inceneritore. È diventato un campetto di periferia».
Un consiglio a Letta?
«Guardare all’esperienza di Puglia e Campania. Se il Pd vuole essere minimamente competitivo, deve essere una calamita per il centro. Sennò alle elezioni non ce la faranno mai».
E lei con chi si allea alle prossime elezioni? Cercherà collegi uninominali?
«Quasi quasi a Benevento corro da solo. Chissà. Nel ’94 lo feci e vinsi».
E a livello nazionale?
«Sogno la Margherità quattro-punto-zero. Con Renzi, con Toti, con Di Maio. Sono diverso da loro, ma ero diverso anche da Romano Prodi e Franco Marini. Il punto è che il centro esiste già, per il semplice motivo che gli altri hanno tutti fallito».
Tutti?
«Tutti, anche quelli del centrodestra, diviso tra filoamericani e filorussi. Potranno vincere sulla carta, ma faranno fatica a governare. Se poi pensiamo che al Senato, a naso, la maggioranza si giocherà sul filo di 3-4 senatori…».
Ma non c’è più tempo per allestire il cantiere del «grande centro». O no?
«Il centro c’è. Quanto sia grande, non lo sa nessuno».
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