Ospiti del talk condotto da Daniele Capezzone negli studi di Utopia, Luca Pastorino di Liberi e uguali e Antonio Martino di Forza Italia. Argomenti del giorno: il punto sulla riforma del catasto, la fine dell'emergenza sanitaria e la crisi in Ucraina.
Carlo Bonomi (Ansa)
Carlo Bonomi si iscrive al partito dell’imposizione fiscale: «Il sistema è vecchio, va rifatto».
«Nessuno pagherà più tasse». La sollecitudine con cui Mario Draghi tiene a rassicurare gli italiani, rispondendo ai cronisti che lo incalzano a Bruxelles sulla riforma del catasto, è sintomo di una certa preoccupazione. Il presidente del Consiglio sa bene che la questione è tutt'altro che archiviata dalla drammatica conta in commissione della settimana scorsa, che ha visto prevalere i fautori giallorossi della riforma per un solo voto e grazie alla giravolta del partito di Maurizio Lupi. Al contrario, da oggi il sentiero per l’approvazione dell’aggiornamento dei valori catastali degli immobili riparte con un percorso se possibile più accidentato, che contempla altre votazioni thriller in commissione, il passaggio in aula, l’incrocio con altri provvedimenti delicati su cui il centrodestra di governo è altrettanto scettico e, infine, l’epilogo al Senato, dove notoriamente il blocco giallorosso non può forzare, come ha insegnato l’affossamento del ddl Zan.
In tale contesto, dunque, la perentorietà con cui Draghi ha assicurato che la riforma del catasto non comporterà un aggravio delle tasse sulla casa risponde al tentativo di favorire quel compromesso all’interno della maggioranza che giovedì scorso non ha visto la luce, complice la linea di netta chiusura assunta dalla sinistra. Se si ripeterà il canovaccio del 3 marzo, oggi si dovrebbe assistere al secondo round, con Fratelli d’Italia che ha messo sul tavolo, in commissione Finanze della Camera, un emendamento che, qualora approvato, sopprimerebbe il comma 2 dell’articolo 6. La proposta del partito di Giorgia Meloni ricalca in sostanza quanto era stato suggerito da Lega e Fi nel corso della trattativa di giovedì pomeriggio, quando il capogruppo azzurro in commissione Antonio Martino aveva chiesto stralciare dalla delega fiscale la parte relativa all’aggiornamento degli estimi, puntando tutto sull’emersione degli immobili fantasma. Una soluzione, questa, che raccoglie il convinto sostegno di Confedilizia: il presidente Giorgio Spaziani Testa ha infatti affermato che si tratterebbe di una «via d’uscita equilibrata». Se anche questa volta Pd, M5s e Leu resteranno sulle proprie posizioni, si assisterà quindi a un nuovo voto dall’esito tutt'altro che scontato. Sotto osservazione, in questo caso, Fi, che potrebbe astenersi o non partecipare al voto sull’emendamento di Fdi, mentre ha già fatto sapere che non sosterrà l’emendamento totalmente soppressivo presentato da Alternativa.
A prescindere da ciò che accadrà oggi pomeriggio, il centrodestra unito potrebbe tornare all’attacco in aula a Montecitorio (fiducia permettendo), dove la delega è attesa a partire dal 28 del mese per poi, eventualmente, puntare tutto sulla seconda lettura in Senato, dove sia in commissione che in aula i numeri sono più benevoli. Senza dimenticare, inoltre, che proprio a Palazzo Madama è attualmente in ballo la delega sugli appalti (domani in aula) e tra una decina di giorni arriverà la legge sulla concorrenza. Ed è proprio a questi due provvedimenti che i piani alti del Carroccio hanno pensato quando, subito dopo il voto sul catasto, hanno minacciato le «mani libere» sul fisco.
A far compagnia a Draghi e alla sinistra, entrando in rotta di collisione col suo omologo di Confedilizia, è arrivato il numero uno di Confindustria, Carlo Bonomi, per il quale «il catasto non è congruo ed equo, è dell’Ottocento e va rifatto», mentre molte associazioni, come ad esempio l’Unione piccoli proprietari immobiliari, Federproprietà e Lettera 150 anche ieri hanno manifestato la propria contrarietà alle nuove norme.
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Antonio Martino (Ansa)
Muore a 79 anni Antonio Martino, l’economista che contribuì a scrivere il programma politico di Forza Italia. Curriculum tra Sicilia e Usa, cercava un’alternativa al fallimento dello statalismo. Fu ministro nei governi Berlusconi e colse in anticipo i tratti negativi di euro e Ue.
Ci sono quelli che si sforzano di essere dei signori e uomini che lo sono naturalmente. Ci sono quelli che per tutta la vita cambiano idea non per una evoluzione del loro pensiero e ci sono uomini che rimangono intelligentemente fedeli alle loro convinzioni scientifiche e politiche. Ci sono quelli che quelli si scagliano contro le persone che non la pensano come loro e ci sono uomini che combattono strenuamente per le loro idee ma rispettano le persone che non la pensano come loro. Ecco, Antonio Martino, il grande Antonio Martino apparteneva alla seconda categoria. Era un signore, era un uomo intellettualmente onesto e coerente, era un uomo tollerante. Insomma, un vero liberale d’animo, «Semplicemente liberale» come amava definirsi anche come nel suo libro che titolò così.
È morto ieri, all’età di 79 anni. Era nato a Messina il 22 dicembre 1942. Si era laureato in giurisprudenza nel 1964 all’Università di Messina ma poi aveva studiato a Chicago divenendo uno dei più importanti Chicago boys, allievo e poi amico per tutta la vita del fondatore del vero liberismo (non quello del Fondo monetario internazionale o della Banca mondiale o di qualche sedicente liberista nostrano): Milton Friedman.
Semplicemente liberale non era solo il titolo di un libro del mio carissimo amico e maestro Antonio Martino, era la sua fotografia. Era allergico e detestava i sofismi e i bizantinismi della - diciamo così - cultura italiana, anche in campo economico. Era ben consapevole della complessità della realtà economica perché la conosceva bene, ma era altrettanto convinto che, alla fine, le scelte di politica economica devono essere chiare, semplici, fattibili e comprensibili ai cittadini che spesso non hanno una specifica preparazione in quella materia, in Italia più che altrove.
Lo conobbi nel 1992, a Roma, perché con Fedele Confalonieri, già mio capo al tempo, avevamo pensato che fosse necessario radunare un gruppo di intellettuali liberali che dessero un contributo di idee sia all’azienda che a Silvio Berlusconi. Poi il tutto si trasferì in politica quando lo stesso Berlusconi decise di «scendere in campo». E fu proprio in quell’occasione che fui incaricato di scrivere il programma politico per Forza Italia da presentare agli elettori per le elezioni politiche del 1994. In questa occasione i rapporti con Antonio Martino si intensificarono fino, appunto, a diventare rapporti di vera e propria amicizia. D’altronde trovare dei liberali nel 1993 che fossero disposti a dichiararsi tali e a collaborare con Berlusconi per un programma politico era più difficile che trovare un ago nel pagliaio. Raccontava divertito di un episodio accaduto all’aeroporto di Roma dove si trovò, per caso, a imbarcarsi sullo stesso aereo con Sergio Ricossa, purtroppo scomparso anche lui, altro liberista autentico, e si rivolse a lui dicendogli: «Caro Sergio, se cade questo aereo scompaiono i liberisti italiani». Per fortuna l’aereo non cadde, ma quello che aveva detto era vero.
Martino aderì immediatamente e con un entusiasmo che senza offesa definirei «adolescenziale». Colui che era stato presidente della Mont Pelerin society, fondata da Friederich von Hayek, e che raccoglieva il meglio del liberismo mondiale, con massima umiltà si mise al lavoro per mettere a disposizione la sua preparazione economica al servizio del progetto politico di Forza Italia della quale fu tra i fondatori.
Ed infatti fu un programma «semplicemente liberale». Cercava una strada alternativa al fallimento delle politiche stataliste non solo per motivi economici ma anche per ragioni etico-politiche che poi si sintetizzavano in una parola: libertà. Anzitutto maggiore libertà di famiglie ed imprese dal gioco fiscale e da quello burocratico e di un welfare che era stato costruito più per ragioni politiche di raccolta del consenso che per autentiche ragioni di solidarietà.
È stato parlamentare, rispettato da tutti - quando interveniva in aula scendeva un silenzio rispettoso tributato nei suoi confronti da parte di tutte le parti politiche -, dal 1994 al 2018 ricoprendo le cariche di ministro degli Affari esteri nel governo Berlusconi I e ministro della Difesa nei governi Berlusconi II e Berlusconi III, sempre assistito dal suo fedelissimo e bravo assistente Giuseppe Moles, oggi senatore e sottosegretario alla presidenza del Consiglio.
Antonio Martino talvolta non ha condiviso le scelte, soprattutto di politica economica, dei vari governi Berlusconi quando reputava che si discostassero dall’impianto ideale attraverso il quale aveva ottenuto larghi consensi del Paese, ma non ha mai fatto giochetti o sotterfugi. Non ne aveva bisogno. È stato sempre franco con Silvio Berlusconi anche quando non ne condivideva alcune scelte (proprio sulla Verità attaccò frontalmente l’Ue e l’euro, definito «prigione senza chiavi») perché era un uomo per il quale la fedeltà e l’onore - inteso nel senso più alto del termine - erano dei valori fuori discussione.
Mancheranno le idee di Antonio Martino così come mancano quando se ne va una voce, come la sua, chiara, sincera, preparata, cristallina, coerente e signorile. Addio Antonio, carissimo amico. Farò tesoro dei tuoi insegnamenti.
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Antonio Martino (Ansa)
L'ex ministro: «La storia insegna che i diritti si smarriscono poco alla volta. C'è l'idea che la salute non sia di nostra proprietà, ma dello Stato, che nella sua grandissima generosità si occupa di noi. Ma sono cretinate».
«Mi chiami alle 19.30, sarò come ogni sera sulla poltrona che fu di mio padre, e che ho promesso a mia nipote un giorno». Antonio Martino, pur da seduto - «quando sono qui mi sento 45 anni, appena mi alzo sembrano 90» - assicura che non smetterà di combattere. «Perché io, nella piantagione, non ci voglio finire». Cosa sia la «piantagione» lo spiegherà con un aneddoto dei suoi. Humour lucido e cortesia irresistibile, ex ministro degli Esteri e della Difesa nei governi Berlusconi, oggi Martino è presidente onorario dell'Istituto Milton Friedman.
Tra un mese esatto saranno 79 anni, la domanda è d'obbligo: è vaccinato?
«Sì, e mi vaccinerò ancora se servirà, non perché creda che i vaccini siano la soluzione, quanto perché credo nei vaccini: le case farmaceutiche sono in concorrenza, motivate a essere efficienti per evitare danni derivanti da eventuali casi problematici. Questo non significa che ritenga sensata un'obbligatorietà del vaccino. Perché oggi è stata trovata la giustificazione per introdursi con il potere nelle nostre vite».
Cosa ne pensa della direttiva sulle manifestazioni?
«Chi pretende di governarci anche se non lo abbiamo scelto ha liquidato il dissenso in modo semplicistico: squadrismo fascista. Hanno ripetuto questa squallida panzana ad nauseam».
L'onda nera si è infiltrata tra i no vax, scrivono.
«Due dozzine di patetici nostalgici possono forse mobilitare migliaia di persone? I nostri sedicenti governanti dovrebbero forse ricordare che non fu il cattivissimo Pinochet a far crollare Allende, ma i camionisti cileni che si ribellarono. Così, il capo dei portuali di Trieste ha detto chiaro che per loro quel che conta è la libertà di scelta».
È una questione di libertà anche per lei?
«L'obbligatorietà del pass crea solo problemi a chi è costretto a ricordarsi di portarselo appresso. Una marchiatura a fuoco sulla fronte sarebbe stata più comoda, e vista da tutti. Sì, io sono contrario a qualsiasi ingiustificata restrizione delle nostre libertà, piccole o grandi. Perché le libertà che si perdono raramente si riescono a recuperare. E la storia insegna che si smarriscono sempre poco per volta».
Una giustificazione però è stata data.
«Obbligare le persone a fare ciò che è nel loro interesse è stupido e controproducente, checché ne dica il ministro “Fin che c'è vita" (Speranza, ndr). C'è l'idea che la salute non sia di nostra proprietà, ma dello Stato, che nella sua grandissima generosità si occupa di noi. Cretinate. Se io volessi vivere una vita spericolata, è un mio diritto. Se voglio essere il più malato del cimitero lo decido io».
Si discute di restrizioni per chi non si vaccina.
«Lo Stato calpesta i principi fondamentali del diritto. La mia laurea in giurisprudenza risale a 57 anni fa, ma mi pare di ricordare che l'uguaglianza sia uno di questi. È inaccettabile imporre obblighi a qualcuno, e diritti a qualcun altro».
I bollettini dei contagi sono tornati quotidiani, li legge?
«Nel 1918 gli abitanti del pianeta erano 3 miliardi, la spagnola causò 50 milioni di morti. Oggi siamo 9 miliardi e il Covid ha fatto 4 milioni di morti. Sarà pur vero che i farmaci sono migliorati, ma altresì le dimensioni dicono di un problema quasi insignificante, soprattutto da quando abbiamo scoperto che se uno muore “per coronavirus" non è sempre a causa del virus: il nesso causale “post hoc, ergo propter hoc" è un errore logico ripetuto da cialtroni».
I decreti li ha votati il Parlamento, dove lei ha trascorso molti anni.
«I decreti hanno la fiducia del Parlamento, sissignora, ma con una maggioranza talmente eterogenea da far sembrare monocolore Arlecchino. E io Mario Draghi non l'ho mai votato, non me ne è stata data occasione».
Citava prima il potere. Ritiene ci sia un obiettivo?
«Una delle letture più importanti della mia vita è stata grazie alla neve. Detesto la neve: è fredda e sporca, sono nato più vicino a Tunisi che a Roma, per me Caserta è l'estremo Nord. Quando le nostre due figlie decisero di voler andare in montagna, mia moglie mi portò appresso, e io me ne restai in albergo a leggere un testo - Lo Stato - scritto dal più grande filosofo politico del secolo scorso: Anthony de Jasay (ce ne riassume la vita con passione, ndr)».
Cosa aveva di speciale quel libro, tra le centinaia che avrà letto da professore?
«Comincia con il chiedersi cosa faresti tu se fossi lo Stato, e passo dopo passo, con una logica agghiacciante per il suo rigore, nell'ultimo capitolo descrive la piantagione dove finiremo tutti di proprietà dello Stato, e senza diritti, perché non c'è nessun diritto».
E lì lei non ci vuole andare. Neppure, da economista, in nome di una ripresa economica?
«Questa storia della ripresa economica è quasi una barzelletta, tirata fuori sempre dai governanti che questa volta definirò ameni, perché fanno morire di risate quando parlano seriamente. Che caspita di ripresa potremo avere, con tutte le restrizioni imposte alle attività economiche?».
Anche Silvio Berlusconi è liberale. Eppure sul green pass non andate d'accordo.
«Fui la tessera numero 2 di Forza Italia del 1994, quando venne fondata».
La conserva ancora?
«Ma non sono più iscritto, perché nel 2018 ho chiamato Silvio Berlusconi e gli ho detto: “Silvio, mi dispiace ma non mi candido più perché quando vado alla Camera torno a casa malato, non voglio farmi uccidere da questi mascalzoni. Sappi comunque che sono a disposizione"».
Il Cavaliere come reagì?
«Ne fu impressionato, lo raccontò a una riunione dei parlamentari, mi definì onesto, confermando che malgrado le differenze siamo ancora amici. Sul pass non ho avuto modo di parlare con lui. Credo che accetti l'obbligatorietà perché ha deciso di sostenere il governo Draghi. Cosa che per altro non mi è mai sembrata sensata».
È possibile che Berlusconi salga al Colle?
«Possibile sì, ma non so perché. Le belle case non gli mancano, ne ha più di quante ne possa abitare. Quindi il Quirinale non credo possa essere per lui un incentivo».
Al di là della battuta?
«Non mi sembra che tagliare nastri e accarezzare la testa ai bambini sia un lavoro attraente. Forse per una persona che non ha altro a cui pensare, o soddisfazioni ancora da ottenere».
Nel 2015 fu anche lei nel toto-Quirinale.
«Una proposta sciocca dal punto di vista della strategia politica. Dissi in tv che mi sarei dimesso».
Ci sono veri liberali nel centrodestra?
«In Italia ne esistono più oggi di quando c'era il Partito liberale, ma non si occupano di politica. È un fiorire di iniziative, non conosciute dalla massa. Avrebbero bisogno di un altro Berlusconi, ora che lui si avvia al Colle».
Per fare la rivoluzione che prometteste?
«L'affluenza alle urne è crollata in modo verticale perché moltissimi elettori del centrodestra, delusi dal fatto che non potevamo mantenere la promessa, hanno smesso di votare. Sono la maggioranza degli astenuti».
Come si riconquistano?
«Il problema nasce dal fatto che Berlusconi non ha creato un erede credibile, non c'è un leader che lo possa sostituire».
Salvini e Meloni?
«Né l'uno né l'altra. Giorgia Meloni è maturata moltissimo, ma non si è ancora fatta completamente le ossa. E Matteo Salvini anche quando dice cose sensate - e accade, spesso - non ha il carisma per fare il premier».
In Forza Italia?
«L'errore è stato nominare come vice Antonio Tajani. Un'ottima persona, gli sono amico, ma agli occhi dell'opinione pubblica è quello che la gente detesta con tutta l'anima: la Ue, la Merkel».
Astenuti euroscettici?
«L'Europa scredita i nobili ideali che ne sono stati a fondamento. Non potendo puntare all'unità, a Bruxelles si sono dati all'uniformazione delle targhe automobilistiche. Negli Usa ogni Stato decide liberamente la propria politica di bilancio e tributaria. E se la California fallisce, nessuno può obbligare il Texas a comprarne i titoli di Stato, né la Fed interviene».
Lo spread fece cadere il vostro governo.
«Una parola inglese che nei Paesi anglosassoni non ho mai sentito utilizzare, una cosa che solo quei barbari dei tedeschi potevano pensare. Si preoccupano che l'Italia possa onorare i debiti, ma immagini quanto varrebbe l'ingresso a pagamento a Venezia, o a Firenze, e quanto vale la ricchezza privata. Siamo noi i ricchi, gli altri sono più stupidi».
Liberalismo, quindi?
«Sono liberale e pure conservatore, perché voglio che si proteggano le libertà esistenti. E sono anche rivoluzionario, se è l'unico modo di sbarazzarsi del tiranno. Sono un riformista, perché sono disposto ad accettare cambiamenti profondi nella società se servono per dare spazi di libertà individuale. Un reazionario, perché voglio recuperare libertà smarrite».
Manca forse solo progressista.
«Lo sono da sempre, perché senza libertà non c'è progresso. La rivoluzione liberale è oggi più che mai necessaria perché abbiamo imboccato il sentiero della schiavitù».
Anche prima della pandemia?
«Ora siamo anestetizzati dagli slogan, che cercano di evitarci il trauma della perdita di libertà considerate fino a pochi anni fa intoccabili. Prima? Le farò un esempio, ma ne avrei a decine: l'obbligo del casco».
Per la moto?
«Proprio quello. Ricordo una lettera di un lettore sul Giornale di Montanelli, che scriveva dall'ospedale con gamba e braccia rotte perché caduto dalla motocicletta. Riconosceva che il casco gli aveva salvato la vita, ma si chiedeva se senza avrebbe potuto sentire l'ambulanza in arrivo ed evitare l'auto che lo aveva travolto».
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Antonio Martino (Ansa)
L'ex ministro Antonio Martino: «La guerra al contante è il preludio al prelievo forzoso come di Amato. Niente patrimoniale? Non mi fido. Questo governo è il peggiore dai tempi di Nerone. Non saprebbero fare nemmeno i netturbini».
«Non ho mai visto una classe politica così mediocre. E non sono sicuro che andremo migliorando. L'unica certezza è che ogni legislatura è peggiore della precedente, e migliore della successiva». Mentre il governo celebra il suo festival degli Stati generali, il professor Antonio Martino, ex ministro degli Esteri e della Difesa, pur rassegnato non rinuncia al suo proverbiale humor.
Non è stato invitato a Villa Pamphili? È presente persino la troika.
«Non sono stato invitato, e non me ne dolgo. E francamente non ho neanche capito bene di che cosa si tratta. Sono felicemente in pensione, e sto cercando di imparare a non fare niente. È un'arte che richiede studi scientifici approfonditi, lo sa?».
Questa kermesse economica è soltanto una passerella mediatica?
«Ho smesso di farmi domande su questo governo indecente. Ho stima solo per il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini: gli altri non sono qualificati neanche per fare i netturbini».
La tocca piano anche stavolta.
«Non riesco ancora a credere che Luigi Di Maio sieda alla stessa scrivania di Carlo Sforza e di mio padre. Erano persone che avevano qualcosa da dire: lui non dice nulla, non conoscendo l'italiano. È il governo peggiore dai tempi di Nerone: con la differenza che Nerone almeno varò un rinnovamento urbanistico, sebbene un po' drastico».
Si moltiplicano i «piani di rinascita». Lei come spenderebbe i 170 miliardi del Recovery Fund?
«Prima facciamoci una domanda: questi soldi ci sono davvero? Io non li vedo. Sento parlare di fantasmagoriche masse di denaro che il governo distribuisce a tutti, anche a quelli che non ne vogliono. Ma qualcuno ha ricevuto una lira? Sono quacquaraquate».
Ma i bonus per la famiglia, per le partite Iva, gli aiuti per le imprese?
«Ma per piacere. Diamo quattro soldi a pioggia che costano miliardi allo Stato e non risolvono nulla. È una politica demenziale. Un furto ai danni dei privati che con le tasse finanzieranno questa elargizione».
Che fine farà il carteggio vergato dalla task force di Vittorio Colao?
«Chi comanda si inventa una selva di comitati, una pletora di inutili agenzie statali con l'unico scopo di nascondere la triste verità: non sanno governare».
In realtà tra le proposte c'è quella di tassare il contante al bancomat, una sorta di anticipo fiscale per favorire i pagamenti elettronici. Che ne pensa?
«Un'iniziativa che avrà una sola conseguenza: scatenare il terrore tra i correntisti. Un' idea che mi ricorda il prelievo forzoso dai conti correnti, effettuato in illo tempore da Giuliano Amato: un altro che non capisce un tubo di economia».
Il ministro Gualtieri si è affrettato a escludere una patrimoniale. Si fida?
«Quando una persona di cui non mi fido dice una cosa giusta, sono portato a dubitare della sua sincerità».
Dunque lei che cosa proporrebbe per rianimare la macchina economica?
«L'unica cosa da fare subito è liberalizzare le restrizioni all'attività produttiva: sia quelle introdotte sull'onda della paura del virus, sia quelle precedenti. Insomma, fare ripartire gli imprenditori. Accettiamo le lezioni del passato».
Cioè?
«Dopo la guerra, il Veneto era molto più povero della Sicilia. Oggi, il Veneto abbandonato a sé stesso è diventato un modello europeo. Invece la Sicilia, affidata alle amorevoli cure della Cassa per il Mezzogiorno e della Regione a statuto speciale, è senza speranza».
Insomma, teme anche lei il ritorno dello statalismo galoppante? Romano Prodi auspica che lo Stato diventi azionista per difendere le imprese, e oggi chiede decisioni immediate.
«Mi faccia la cortesia di non citarmelo, altrimenti mi viene l'iperacidità. È stato nominato professore ordinario di economia politica per aver scritto un saggio sul mercato delle piastrelle di Sassuolo. L'uomo che combinò questa nefandezza, Beniamino Andreatta, vergognandosene, non consentì mai a Prodi di dargli del tu. Il resto è storia: lui stesso ammise che l'Iri fu il suo Vietnam».
Ma intanto sull'Ilva il ministro Patuanelli non esclude la nazionalizzazione. E questo dopo che abbiamo salvato Alitalia a suon di miliardi.
«Più che nazionalizzata, Alitalia andrebbe bombardata: se l'aeronautica militare facesse decollare dei C-130 e facesse fuori tutta la flotta, farebbe un regalo alla patria. Alitalia è sempre stata in perdita e lo sarà sempre, e vuole i nostri soldi per tirare a campare. La verità è che, non potendo più praticare tariffe da usura, non ha più ragione di esistere».
L'Europa litiga su come uscire dall'emergenza. I «Paesi frugali» vogliono ritoccare al ribasso il piano di aiuti. Si aspettava più solidarietà?
«Sono profondamente europeista. L'Europa unita all'inizio parlava italiano: nel '55 la conferenza di Messina, poi i trattati di Roma. Nel sogno dei fondatori, tra cui mio padre Gaetano, l'integrazione economica doveva essere il viatico dell'unità politica. Oggi quello spirito è stato tradito. Perché il fiscal compact? Perché l'intrusione dell'Unione nelle politiche di bilancio degli Stati?».
Siamo alle prese con una crisi di leadership?
«Quando si celebrò l'anniversario dello sbarco in Normandia, vedevo i leader attuali e rimpiangevo Adenauer, De Gaulle ed Einsenhower. I leader non nascono tali, ma lo diventano anche grazie alle circostanze. Senza Hitler, Winston Churchill sarebbe stato un discreto storico e un mediocre pittore».
Questa crisi sanitaria non è forse come una guerra mondiale?
«Questo virus è statisticamente insignificante. Saranno morte poche centinaia di migliaia di persone su 6 miliardi di abitanti del pianeta».
Osa sostenere che senza lockdown avremmo avuto meno vittime?
«No, ma le vittime sarebbero state comunque molto meno di quelle che muoiono quotidianamente attraversando la strada. Che facciamo, vietiamo il traffico automobilistico? A far danni non è stato il virus, ma la paura del virus».
Pensa davvero sia stato un abbaglio collettivo?
«Questi imbecilli, per paura di un virus innocuo, hanno bloccato l'economia del mondo. Risultato? Andiamo verso una recessione che colpirà i redditi di miliardi di persone. Prepariamoci ad affrontare una fiammata di iperinflazione in Europa, perché questi signori continuano a pompare denaro in un'economia decadente. Sì, il rimedio è peggiore del male».
Dunque, un eccessivo allarmismo?
«Ancor peggio della paura è stato l'ottuso conformismo dei media. Nemmeno il Wall Street Journal, che in genere dice la verità, ha voluto contestare le versioni ufficiali. Il povero professor Giulio Tarro, messinese, professore emerito di virologia a Napoli, ha provato a dire la verità: lo hanno massacrato».
Onorevole, le daranno del negazionista…
«Quello che dice la gente a me non importa. Per sapere se una proposizione è vera o falsa non conta il numero di persone che ci crede. La democrazia non è prova di verità: cristo fu condannato da un voto democratico».
Ma avevamo le terapie intensive che esplodevano…
«Degli ospedali pieni ne ho le scatole piene. La spagnola fece 50 milioni di morti, ma essendo in guerra non se ne parlò. Se fosse esploso il panico, i morti si sarebbero moltiplicati».
Si sta schierando contro la quasi totalità della comunità scientifica.
«Io odio la comunità scientifica. Tutti i cosiddetti saggi prima di Galileo pensavano che la terra fosse al centro dell'universo. La scienza di oggi sarà l'eresia domani: il progresso delle idee fa sì che quelli che oggi chiamiamo scienziati, domani verranno considerati zappatori falliti».
Alle ultime elezioni per la presidenza della Repubblica, per qualche ora venne dato come papabile. Sarebbe stato spassoso vederla al Quirinale.
«Mi sarei divertito molto. Ma quando mi chiesero quale sarebbe stato il primo atto da presidente, io risposi come un citrullo: le dimissioni». (Risata)
Perché nel 1994 non accettò la poltrona di ministro delle Finanze?
«Chiesi consiglio al mio maestro Milton Friedman: mi disse di accettare compromessi sui dettagli ma non sui principi. Mi dimenticai di chiedergli la differenza tra gli uni e gli altri. Ma sapevo che con un ministero economico avrei distrutto la mia credibilità. Quindi andai da Berlusconi e chiesi gli Esteri. Lui mi domando il perché, e io risposi: perché il ministero è vicino a casa mia, e ha un bel posteggio».
Tornerà nell'arena politica?
«Figuriamoci. Ho 78 anni e sono diventato quasi sordo. Credo sia una reazione di legittima difesa dopo 25 anni in Parlamento. Non li sopporto più».
Lei è un profondo conoscitore della cultura americana: che effetto le fa vedere decapitate le statue di Cristoforo Colombo, associate al passato coloniale e razzista dei Paesi occidentali?
«Questo movimento altro non è che una manifestazione di pazzia generalizzata. Come diceva il mio professore al liceo, l'umanità si avvia lentamente ma inesorabilmente verso la follia».
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