content.jwplatform.com
content.jwplatform.com
Ansa
Solo da noi la Festa della Liberazione e quella del Lavoro sono la sagra della recriminazione della sinistra. Ogni volta che il centrodestra vince la lagna ricomincia, tra presunti censurati e il fantasma di Mussolini.
Non so voi, ma io non ne posso più di discutere del caso Scurati. E soprattutto non so se riuscirò a sopportare un’altra settimana a parlare di fascismo e antifascismo. Perché è certo che dopo averci stordito con la storia del regime che avanza, l’arrivo del Primo maggio ci stordirà con altri inviti alla Resistenza. L’evento sindacal-canoro che la Rai ogni anno manda in onda per non parlare di lavoro, sarà l’occasione per replicare, rileggendoci per l’ennesima volta l’appello partigiano dell’autore di M.
Sì, non ne posso più di sentire i soliti allarmi, le banali argomentazioni sulla presunta censura e sulla mancata abiura del fascismo da parte di chi sta al governo. Ogni anno, quando vince il centrodestra, è la stessa lagna. E ogni volta, quella che si chiama Festa della Liberazione diventa il festival della recriminazione. Per gli esponenti della sinistra è un modo di dimostrare che sono vivi e lottano contro di noi, cioè contro coloro che hanno democraticamente deciso di votare per altri e non per loro. Il 25 aprile, come il primo maggio, è un rito pagano, che ormai non ha nulla a che fare con la sconfitta del nazifascismo, ma è profondamente collegato alla sconfitta dei compagni. Non di 80 anni fa, ma due anni fa. Si va in piazza per dimostrare di essere ancora vivi e per ribadire di essere dalla parte giusta. Si sfila in corteo anche se ormai la maggioranza degli italiani si defila dalla ricorrenza, scegliendo di andare al mare e ai monti, tempo permettendo, invece che in piazza ad ascoltare i discorsi di Beppe Sala ed Elly Schlein.
Ribadisco: li capisco, perché pur essendo abituato alle lamentazioni dei compagni, pure io arrivato a un certo punto non ne posso più. Il fascismo è morto e sepolto da quasi 80 anni e dal giorno che prese il potere ne sono trascorsi più di 100, numero che mi sembra sufficiente per archiviare la questione e lasciarla agli storici. Invece no, da noi ogni anno si ricomincia, soprattutto se ci sono le elezioni e all’ultimo giro la sinistra ha preso solo bastonate. Non dai fascisti, ma dagli italiani, i quali hanno legittimamente scelto di non farsi governare dai nostalgici del comunismo. Ha fatto bene Giorgia Meloni a ricordare che da noi esiste ancora un partito che si richiama a Marx e compagni: praticamente un unicum. Sì, è vero che anche nel resto d’Europa ogni tanto c’è qualcuno che sventola qualche bandiera rossa, ma mai come da noi.
Del resto, noi siamo unici in tutto, anche per l’abitudine a rivolgere lo sguardo al passato, pretendendo di discutere del Ventennio e di ciò che è accaduto un secolo fa come se fosse ieri. E come se Giorgia Meloni fosse la reincarnazione in gonnella di Mussolini. Tanto per capire l’anomalia italiana, basti dire che in Germania nemmeno festeggiano la Liberazione. L’8 maggio del 1945 i tedeschi furono liberati da Adolf Hitler e dai suoi gerarchi e soprattutto dalla guerra. Ma la data non è neppure considerata una festività nazionale, prova ne sia che la prossima settimana a Berlino tutto procederà come in qualsiasi altro giorno, senza chiusura di scuole e fabbriche, senza discussioni e soprattutto senza recriminazioni nei confronti di questo e di quel partito politico. Sebbene abbiano avuto il nazismo, le deportazioni, lo sterminio degli ebrei e la guerra, i tedeschi, essendo infinitamente più pratici di noi, guardano al futuro, non al passato. E dunque semmai discutono di salari, di immigrazione, di sicurezza, di bollette del gas e della luce e magari pure se infrastrutture e sanità siano adeguate ai bisogni dei cittadini.
La Germania tuttavia, non è un’eccezione: l’eccezione siamo noi. Infatti, in Spagna, che pure ha avuto il franchismo fino a metà degli anni Settanta, nessuno si sogna di fare tutto un can can come da noi. Il 6 dicembre, festa della Costituzione, la gente se ne va a spasso e l’unico richiamo alla politica è l’apertura del Parlamento e la lettura della carta dei diritti e dei doveri. Tutto qui. Altro che sfilate, comizi, Scurati e il Cantagiro della sinistra. Altrove tutto fila liscio come l’olio, da noi invece siamo sempre a discutere dell’olio di ricino. E dopo un po’, come è facile capire, agli italiani viene voglia di cambiare canale. Cioè di censurare davvero i presunti censurati.
From Your Site Articles
Continua a leggereRiduci
Maurizio Landini (Ansa)
Il capo della Cgil contesta la convocazione dei sindacati a Palazzo Chigi il giorno della Festa del lavoro, boccia una misura di alleggerimento fiscale per i redditi medi e bassi e s’indigna per la scontata riforma del sussidio.
Non si fa in tempo a uscire dal tunnel del 25 aprile che già - sempre più claustrofobicamente - ci si ritrova imprigionati nel tunnel successivo, quello del Primo maggio. E, secondo la più classica delle coazioni a ripetere, l’opposizione urla. Urla a prescindere. Anzi, peggio: per la seconda in quaranta giorni, sono i partiti della sinistra - più che mai smarriti e senza progetto - a consegnarsi alla leadership di Maurizio Landini e di un sindacato a sua volta in drammatica crisi di ruolo e di rappresentanza.
Eppure, proprio com’era successo al congresso della Cgil, quando Elly Schlein, Giuseppe Conte, Nicola Fratoianni e Carlo Calenda accorsero alla corte di Landini (e di Lucia Annunziata che dirigeva le operazioni), esattamente allo stesso modo anche stavolta è il segretario della Cgil a dettare la linea.
Una linea tre volte sconclusionata, però. In primo luogo, è surreale la contestazione della convocazione in sé e per sé di un Consiglio dei ministri il giorno della Festa dei lavoratori. In tutta franchezza, c’è quasi da sorridere del carattere puerile dell’obiezione del sindacato: quale sarebbe il problema, forse la «lesa festività»? Landini è stato piuttosto liquidatorio anche rispetto all’invito rivolto dal governo ai sindacati per un incontro domenica sera, alla vigilia del Cdm: «Noi agli incontri ci andiamo. È chiaro che essere convocati la domenica sera per un provvedimento che hanno già deciso e che faranno il lunedì mattina non è quello che noi abbiamo chiesto da tempo, dopodiché valuteremo quello che concretamente verrà realizzato». Anche qui la pretesa è un po’ curiosa: cosa si aspettava Landini, che la Meloni trasformasse in un decreto la piattaforma della Cgil?
Anche perché Landini - per l’ennesima volta - ha pensato bene di insultare i lavoratori autonomi e le imprese, trattando gli uni e le altre come evasori: «È il momento di andare a prendere i soldi dove sono, dove sono stati fatti i profitti, dove c’è l’evasione fiscale e non continuare a pensare che i lavoratori dipendenti e i pensionati sono i bancomat e pagano anche per quelli che evadono le tasse e che non pagano».
La seconda ragione che rende pressoché irricevibili le proteste politiche e sindacali è il fatto che esse siano indirizzate contro un provvedimento (quello che la Meloni varerà lunedì) che avrà al centro un altro taglio del cuneo fiscale a favore dei lavoratori a reddito medio e basso. Un’opposizione composta da persone politicamente normali avrebbe magari chiesto ancora di più, avrebbe cercato di rilanciare: ma scagliarsi contro un alleggerimento fiscale a favore dei lavoratori dotati degli stipendi meno ricchi appare veramente incomprensibile. In questo senso, lo stesso voto parlamentare contrario di gran parte dell’opposizione rispetto a uno scostamento di bilancio concepito proprio per rendere possibile quel taglio del cuneo appare come un altro atto politico senza senso.
La terza chiassata di Landini è in fondo la più prevedibile, e riguarda la sostituzione del reddito di cittadinanza che sarà formalizzata dal governo: «Se le notizie saranno confermate, l’idea che in un momento in cui aumentano le povertà si tagli il reddito di cittadinanza a noi sembra una follia», ha detto il leader della Cgil. Ma a parte il fatto che l’intervento che il governo ha in animo appare animato da una buona dose di prudenza e cautela, era comunque scontato che una riforma sarebbe arrivata: anzi, si trattava di un preciso impegno dell’esecutivo. E semmai erano state proprio le opposizioni, visti gli annunci della Meloni, a reclamare che le carte venissero messe sul tavolo. Peraltro, non bisogna mai dimenticare che all’epoca il Pd votò contro l’istituzione del primo sussidio grillino: e quindi le urla di oggi hanno un puro valore strumentale.
Morale. Prepariamoci alla solita cacofonia di un Primo Maggio di urla e improperi. Comizi nella prima parte della giornata, e - a seguire - il rito stanco del Concertone, con gli immancabili fervorini (o peggio) che, come ogni anno, giungeranno da «artisti» in cerca di titolo e di polemica. Non a caso, ha già messo le mani avanti il (traballante) direttore del Prime time Rai Stefano Coletta: «Il tema è scelto dai tre sindacati», ha detto un paio di giorni fa, riportato dalla Stampa di Torino, «ed è importante che sia così: non c’è alcuna volontà di politicizzazione». Ah no? «Detto questo», ecco il seguito, «altro discorso sono gli imprevisti: essendo una diretta, li può gestire solo una persona ossia il conduttore» (che per la cronaca sarà Ambra Angiolini affiancata da Fabrizio Biggio). E quindi noi dovremmo essere così ingenui da credere che, se l’uno o l’altro «artista» si abbandonerà a parole fuori luogo, si tratterà solo di un «imprevisto»? Non scherziamo: non serve un genio né un indovino per comprendere che quella piazza e quel palco rappresenteranno un’occasione troppo ghiotta - per i cantanti e non solo per loro - per fare da contraltare alla riunione del Consiglio dei ministri.
Continua a leggereRiduci







