2024-04-18
Cala sull’Europa la censura dei progressisti
Per i «liberal», le destre attentano ai diritti, ma sono proprio loro, invece, ad autorizzare scomuniche e sanzioni. Un giornalista è finito con la sua rivista in una lista nera redatta da una società finanziata da George Soros. Che può decidere chi è «buono» e chi no.Sembra che nel mondo intellettuale progressista vadano diffondendosi da qualche tempo profondi timori per le sorti della libertà individuale. Alcuni dei principali scrittori britannici e americani, tra cui l’ottimo Paul Lynch e A.M. Homes, hanno sfornato romanzi distopici che immaginano oscuri complotti reazionari o l’ascesa al potere di regimi nazionalisti e autoritari. Dalla narrativa al giornalismo il passo non è nemmeno troppo lungo. Non passa settimana senza che qualcuno, da sinistra, non gridi al ritorno del fascismo e non denunci tentativi destrorsi di imporre la mordacchia e di cancellare i diritti.Ieri, ad esempio, la scrittrice Viola Ardone denunciava sulla Stampa lo «stravolgimento» della legge 194 a opera dei reazionari di governo, i quali vorrebbero cancellare la dignità delle donne imponendo la presenza di associazioni pro vita nei consultori. Non conta che sia la stessa legge a consentirlo: l’importante è gridare alla persecuzione destrorsa, alla svolta medievale e via delirando. A ben vedere, nel caso specifico dell’aborto, chi intende limitare la libertà sta a sinistra: parliamo di coloro che si oppongono all’obiezione di coscienza e vorrebbero cacciare i pro life dalla faccia della terra. Abbiamo capito da tempo come funzioni il giochino: i liberal sono i primi a pretendere cancellazioni e oscuramenti, ma anche i primi a gridare alla discriminazione. Emblematico il caso dello stimato Luciano Canfora. Giorgia Meloni lo ha querelato perché non ha gradito che il professore l’abbia definita «neonazista» (cosa che, con tutta evidenza, ella non è). Certo, il presidente del Consiglio poteva anche evitare. Alla polemica, per quanto ruvida e smisurata, è sufficiente opporre il silenzio o, al massimo, una risposta adeguatamente affilata. In ogni caso, sempre di querela - discutibile ma legittima - si tratta, non di censura o peggio. Ebbene, ecco che in questa vicenda Canfora ottiene attestati di solidarietà da ogni dove e si guadagna le prime pagine dei giornali. I titoloni e le dimostrazioni di stima, tuttavia, furono decisamente meno quando Canfora fu accusato d’essere un putiniano e venne attaccato o, addirittura, deriso a mezzo stampa. Solito trucchetto: se c’è di mezzo la destra, infuria la lotta per la libertà; se sono i progressisti e i liberali a intimidire, va tutto bene dato che costoro sono per definizione della parte giusta della Storia.Per chi volesse fare esercizio di onestà intellettuale, non sarebbe troppo difficile riconoscere che praticamente tutti i tentativi di compressione dei diritti e della libertà di espressione e pensiero osservati negli ultimi anni provengono dal fronte liberal, cioè dall’universo culturale nato dalla fusione perversa tra progressismo e neoliberismo. Basterebbe citare quanto accaduto negli ultimi due giorni a Bruxelles: il sindaco della città belga ha potuto tenere in ostaggio per una giornata intera i partecipanti alla National conservatism conference. La sede dell’evento è stata cinturata dalle forze dell’ordine, a un certo punto nessuno poteva più entrare o uscire. Tutto questo nel cuore dell’Europa, nel luogo in cui ha sede il Parlamento europeo. È dovuto intervenire un tribunale e si sono dovuti muovere politici conservatori di varie nazioni, Italia compresa, perché la conferenza potesse riprendere e svolgersi regolarmente nella seconda giornata prevista. Eppure sui grandi giornali italiani la vicenda non è finita in prima pagina, non si sono letti editoriali indignati e commenti feroci.Se la censura viene portata da sinceri europeisti, tout est pardonné. Non per nulla l’Ue è sempre in prima fila quando c’è da sorvegliare e punire le opinioni difformi. E quando non sono gli euroburocrati a tappare la bocca ai dissenzienti, ecco che provvedono soggetti privati i quali dichiarano di agire in nome del Bene. Un Bene che, ovviamente, corrisponde a posizioni politiche molto precise. Vale la pena, a tale proposito, citare quel che ha raccontato Freddie Sayers, direttore della rivista britannica (di sinistra) Unherd. Sayers ha spiegato che il suo giornale è stato inserito «in una cosiddetta “lista di esclusione dinamica” di pubblicazioni che promuovono la “disinformazione” e che dovrebbero quindi essere boicottate da tutti gli inserzionisti».Ad aver inserito Unherd nella lista è stata una organizzazione chiamata Global disinformation index. Quando ha chiesto spiegazioni, Sayers ha ottenuto in risposta una lettera in cui gli si diceva che il suo giornale continuava ad «avere narrazioni anti-Lgbtq+» e che «gli autori del sito sono stati accusati di essere antitrans». Sayers racconta che i responsabili di Gdi «hanno fornito esempi di contenuti offensivi: Kathleen Stock, i cui editoriali sono in lizza per un National press award, Julie Bindel, una militante di lunga data contro la violenza contro le donne, e Debbie Hayton, che è transgender. Apparentemente», prosegue il giornalista britannico, «il Gdi equipara le convinzioni “critiche sul genere”, o l’idea che esistano le differenze sessuali biologiche alla disinformazione, nonostante il fatto che tali convinzioni siano specificatamente protette dalla legge britannica e sostenute dalla maggioranza della popolazione».Ma per quale motivo una organizzazione privata dovrebbe avere voce in capitolo sui contenuti di un giornale e dovrebbe inserirlo in una lista di proscrizione? Sayers lo chiarisce molto bene: «Il modo in cui funziona è relativamente semplice: nel caso di Unherd, stipuliamo un contratto con un’agenzia pubblicitaria, che si affida a una popolare piattaforma tecnologica chiamata Grapeshot, fondata nel Regno Unito e successivamente acquisita da Oracle di Larry Ellison, per selezionare automaticamente i siti Web appropriati per campagne particolari. Grapeshot, a sua volta, utilizza automaticamente il Global disinformation index per fornire un feed di dati sulla “sicurezza del marchio”. E se Gdi assegna a un sito web un punteggio scarso, verranno pubblicati pochissimi annunci. […] Nel caso di Unherd , il verdetto del Gdi significa che abbiamo ricevuto solo tra il 2% e il 6% delle entrate pubblicitarie normalmente previste per un pubblico delle nostre dimensioni».Insomma, le valutazioni di questa «agenzia di rating del giornalismo» incidono sugli introiti pubblicitari e possono anche determinare la chiusura di una testata. Ma chi gestisce e finanzia organizzazioni come Gdi? Sentite Sayers: «Il Global disinformation index è stato fondato nel Regno Unito nel 2018, con l’obiettivo dichiarato di sconvolgere il modello di business della disinformazione online privando di finanziamenti le pubblicazioni offensive. Oltre alla Open society foundation di George Soros, Gdi riceve denaro dal governo britannico, dall’Unione europea, dal ministero degli Esteri tedesco e da un organismo chiamato Disinfo cloud, creato e finanziato dal dipartimento di Stato americano. Forse non sorprende che i suoi due fondatori provenissero dalle alte sfere della società “rispettabile”. Innanzitutto, c’è Clare Melford, […] che ha “guidato il passaggio dell’European council on foreign relations dall’essere parte della Open society foundation di George Soros allo status di organizzazione indipendente».Melford ha fondato la Gdi con Daniel Rogers, che lavorava «nella comunità dell’intelligence statunitense», prima di fondare una società chiamata Terbium labs che utilizzava l’intelligenza artificiale e l’apprendimento automatico per setacciare Internet alla ricerca di usi illeciti di dati sensibili e poi li vendeva a caro prezzo a Deloitte».Sono tutti piccoli esempi, ma ne potremmo portare molti e molti altri. Tutti dimostrano la stessa verità: oggi in Europa la libertà di espressione è a rischio, ma non per via di presunti fascisti. La grande minaccia sono gli illuminati liberal, quelli che distruggono in nome del Bene.
Nel riquadro Roberto Catalucci. Sullo sfondo il Centro Federale Tennis Brallo
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