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2019-04-26
Su Siri Lega e M5s si menano ancora. E dai grillini colpo basso sulla mafia
Ansa
Nessuna voglia di festeggiare, ieri, al Corriere della Sera. Lo scoop del nostro Giacomo Amadori ha svelato che l'intercettazione con tanto di virgolettato, pubblicata in prima pagina venerdì scorso dal Corriere, «Ci è costato 30.000 euro», riferita a Siri, per i pm non esiste. Identico discorso per il contenuto dell'articolo, firmato da Fiorenza Sarzanini: «“Questa operazione ci è costata 30.000 euro" dice l'imprenditore Paolo Arata al figlio Francesco, riferendosi ai compensi destinati ad Armando Siri per modificare i provvedimenti legislativi. Una cimice della Dia (Direzione investigativa antimafia, ndr)», scriveva il Corriere venerdì scorso, «registra la conversazione». Bene (anzi, male): quella conversazione, quel virgolettato, agli atti, non c'è, come hanno confermato alla Verità gli stessi inquirenti: «Le intercettazioni sui giornali? Sono false. Quelle frasi non ci sono nel fascicolo». Non potendo far finta di nulla, ma evidentemente in imbarazzo per la fake news propinata ai suoi lettori, ieri il Corriere ha pubblicato sul suo sito internet un articolo firmato dalla stessa Sarzanini che, invece di smontarlo, conferma al 100% lo scoop della Verità e rappresenta una piena anche se involontaria confessione da parte del quotidiano.
La Sarzanini non fa alcun riferimento a quanto rivelato dalla Verità, ma pubblica il decreto di perquisizione eseguito nei confronti dell'imprenditore Paolo Franco Arata. Il pm Mario Palazzi scrive: «Siri Armando, senatore della Repubblica e sottosegretario di Stato, in tale duplice qualità di pubblico ufficiale, per l'esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, asservendoli a interessi privati (…) riceveva indebitamente la promessa e/o la dazione di 30.000 euro da parte di Paolo Franco Arata».
Carta canta: nel documento pubblicato ieri dal Corriere non c'è traccia di quel virgolettato così pulp, «Ci è costato 30.000 euro», che il quotidiano sparò in prima pagina una settimana fa. Molto pulp, ma pure molto fiction: quel virgolettato, come ammette la stesso Corriere pubblicando le carte di indagine, è comparso dal nulla. Non solo: la Sarzanini rivela anche, pubblicando il documento, che nemmeno l'accusa afferma con certezza che Siri abbia ricevuto quei denari. «Riceveva indebitamente la promessa e/o la dazione di 30.000 euro da parte di Paolo Franco Arata», c'è scritto nel documento, pubblicato dal Corriere con tanto di evidenziatore fosforescente e lente di ingrandimento.
A proposito di fosforo, al Corriere evidentemente sono convinti che i loro lettori ne siano scarsamente dotati: prima pubblicano una bufala grande quanto il Colosseo, e poi, dopo che LaVerità ha smascherato la fake news, imbastiscono una difesa senza ammettere esplicitamente l'errore, nel tentativo maldestro di confondere le acque e salvare la faccia.
Diversa la strategia di Repubblica, giornale che pure sparò l'intercettazione tarocca in prima pagina, ma che ieri, sull'edizione Web, non faceva alcun cenno alla bufala, confidando probabilmente nella scarsa memoria dei suoi lettori (anche questi, evidentemente, carenti di fosforo secondo i responsabili del quotidiano).
Lo scoop della Verità ha avuto inevitabili ripercussioni sul piano politico. «Stamattina», ha detto ieri Matteo Salvini, «ho letto che le intercettazioni non esisterebbero. Se così fosse sono sicuro che giudici, magistrati e avvocati faranno bene e in fretta il proprio lavoro. Ho parlato con Siri: gli ho chiesto sei tranquillo? Mi ha risposto di sì, e allora sono tranquillo pure io. In un Paese civile se si indaga qualcuno bisogna ascoltarlo un'ora dopo, non settimane dopo. Siri resta dov'è? Ci mancherebbe. Il presidente del Consiglio ha il diritto di incontrare chi vuole», ha aggiunto il ministro dell'Interno, «le polemiche sono lontane». Il riferimento di Salvini è all'incontro in programma lunedì prossimo tra Armando Siri e il premier Giuseppe Conte.
Chi invece attacca ancora ad alzo zero la Lega è Luigi Di Maio: «Siri», ha detto ieri il leader del M5s, «si deve dimettere da sottosegretario, e lo dico a tutti, anche al presidente del Consiglio, perché noi in qualche modo lo abbiamo disinnescato e neutralizzato togliendogli le deleghe, ma quella è una indagine di corruzione che riguarda anche fatti di mafia. Puoi anche andare a Corleone a dire che vuoi liberare il Paese dalla mafia», ha aggiunto Di Maio, riferendosi a Salvini, che ieri era appunto a Corleone, «ma per farlo devi soprattutto evitare che la politica abbia anche solo un'ombra legata a inchieste su corruzione e mafia. La mafia la elimini se prima di tutto dai l'esempio. Quell'inchiesta che mi auguro veda prosciolto il sottosegretario Siri è un'inchiesta che non può assolutamente contemplare il concetto di garantismo». «Mi sono impegnato», ha commentato serafico Salvini, «a non rispondere sulle polemiche, sono in modalità zen».
Ma il finto audio preoccupa i 5 stelle
Lo scoop di ieri del nostro Giacomo Amadori ha avuto sul partito guidato da Luigi Di Maio un effetto diverso rispetto a quello che ci si poteva aspettare. Invece di gioire perché quella intercettazione così cruda, «Ci è costato 30.000 euro», relativa all'inchiesta sul sottosegretario leghista Armando Siri, non esiste, il Movimento pentastellato sembra aver accolto la notizia con un pizzico di fastidio. Invece di sentirsi sollevati, gli alleati di governo della Lega avrebbero pensato soprattutto al fatto che la rivelazione della Verità, alleggerendo almeno sul piano mediatico la posizione di Siri, e finisce con il rendere più difficoltosa la battaglia senza esclusione di colpi che il M5s sta portando avanti contro l'alleato di governo.
Per parare il colpo, ieri il M5s ha continuato a sparare a zero contro Siri con dichiarazioni di fuoco da parte dei big. «Il governo deve andare avanti», ha detto il capo politico, Luigi Di Maio, «ma noi diciamo che il sottosegretario Siri deve andare a casa. Tutti possiamo sbagliare, ma la differenza sta nella reazione della politica. Cortesemente facessero il loro dovere morale e rimuovessero Siri».
«I magistrati devono avere i loro tempi», ha sottolineato il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, «ma la politica deve avere altri tempi, la sua risposta non può essere: aspettiamo i tempi della giustizia. Borsellino diceva che un politico non deve essere solo onesto ma deve apparire onesto». «Augurando a Siri di essere assolutamente estraneo a tutto», ha attaccato il sottosegretario Stefano Buffagni, «io credo che quando un membro del governo viene coinvolto in un caso così grave in cui addirittura è coinvolta la mafia, il governo del cambiamento debba assolutamente dare dei segnali di taglio netto con quei mondi. E spero che, visto che Salvini è andato a Corleone, oggi abbia capito quanto è importante che questo governo dia un taglio secco con la mafia». «C'è l'innocenza fino a prova contraria», ha esternato il presidente della Camera, anima dell'ala più oltranzista grillina, Roberto Fico, «ma quando ci sono situazioni particolarmente gravi i partiti devono senza dubbio dare una risposta forte».
La tolda di comando della comunicazione pentastellata, che pare aver accolto lo scoop della Verità con una certa delusione, ha evidentemente sguinzagliato i «pezzi grossi» del M5s, dando ordine di attaccare la Lega tirando in ballo la mafia, visto che sui 30.000 euro non si può più azzannare apertamente l'alleato. Considerato che l'accostamento tra Siri e la mafia esiste solo nei comunicati stampa e nelle dichiarazioni degli esponenti del M5s, appare evidente che i grillini, più che ragionare sui provvedimenti di cui ha bisogno l'Italia, si stanno dedicando 24 ore su 24 alla delegittimazione della Lega, sperando di arginare l'emorragia di consensi registrata in tutte le ultime tornate elettorali e segnalata dai sondaggi.
Il giustizialismo, però, è un'arma a doppio taglio: i leghisti preferiscono non alimentare polemiche, ma qualcuno dovrebbe spiegare perché casi come, ad esempio, quello della capolista alle Europee del M5s, nel collegio Nord ovest, Maria Angela Danzì, indagata dalla Procura di Brindisi per «invasione di terreni pubblici», non meritano lo stesso trattamento da parte dei vari Di Maio, Fico, Bonafede, Buffagni e compagnia dichiarante. Per non parlare di Marcello De Vito, presidente M5s del Consiglio comunale di Roma, arrestato lo scorso 20 marzo per corruzione, che da regina Coeli ha scritto una lettera al sindaco Virginia Raggi con la quale ha comunicato di non volersi dimettere. Mors tua vita mea, sembra ormai la parola d'ordine dei vertici del M5s, ai quali - almeno a giudicare dalle dichiarazioni - sta più a cuore indebolire l'alleato che salvaguardare la stabilità del governo.
Procedura Ue, Savona e troll russi. Quante fake news da Via Solferino
Sbagliare è umano, perseverare è… Corriere. Ormai da molti mesi, con la - diciamo - «sfortunata» direzione di Luciano Fontana, a Via Solferino si susseguono casi, uno più grave dell'altro, di svarioni e incidenti, non di rado oggetto di furiose polemiche interne, malamente sedate. Infatti, oltre allo svarione sull'intercettazione inesistente contro Armando Siri, solo per limitarci all'ultimo anno, ce ne sono almeno altri quattro.
Il primo è forse il più clamoroso, perché a svelarlo è stato il corrispondente da Bruxelles del Corriere, Ivo Caizzi, in una lettera al Comitato di redazione (poi integralmente pubblicata dalla Verità l'8 gennaio). Oggetto del contendere un retroscena «sparato» in prima pagina dal Corriere il 1° novembre scorso, a firma del vicedirettore Federico Fubini, su una procedura di infrazione Ue contro l'Italia. Piccolo dettaglio: nessuna procedura di infrazione era stata o sarebbe stata decisa. La denuncia-ricostruzione di Caizzi è feroce quanto lucida: chiede di «verificare e valutare il comportamento del direttore Luciano Fontana», parla di una procedura Ue «inesistente», e aggiunge di «non ricordare in 30 anni un'altra “notizia che non c'è" simile in quella collocazione sul Corriere». La requisitoria di Caizzi è spietata: chiede tra l'altro «se il direttore ritenga che le “notizie" con annuncio della procedura e smentita della trattativa Ue-Italia possano aver influito - magari anche marginalmente e inconsapevolmente - sui mercati finanziari: favorendo di fatto mega speculatori, che in quei giorni scommettevano capitali ingenti sulla destabilizzazione dell'Italia (e sui conseguenti crolli in Borsa e aumenti degli spread sui titoli di Stato italiani)».
E il direttore Fontana? Si limita a una replica piuttosto balbettante: «È davvero inverosimile che si giudichi il risultato finale (l'accordo tra Italia e Ue) per dire che i passi iniziali verso la procedura d'infrazione non fossero veri». E ancora: «La manovra italiana presentata con un deficit al 2,4% è stata respinta categoricamente e in tutte le sedi è stata giudicata passibile di procedura d'infrazione. Il Corriere ha raccontato con rispetto dei fatti sia le minacce di procedura che la trattativa...». Appunto, e qui sta l'evidentissima debolezza della risposta di Fontana: «passibile» e «minacce», il che è molto diverso dal dare al lettore la sensazione di una decisione quasi certa o pressoché acquisita, come obietta Caizzi.
Il secondo episodio (ancora a firma dell'infaticabile Fubini) è l'indimenticabile campagna del Corriere contro i presunti «troll russi» che avrebbero partecipato a un attacco online contro il Quirinale. Titolo-choc del 2 agosto: «Le manovre dei russi sul Web e l'attacco coordinato a Mattarella». Salvo leggere a metà dello stesso articolo la retromarcia: «È impossibile sapere se i troll russi abbiano avuto un ruolo anche nell'alimentare l'ultima campagna contro il capo dello Stato». Insomma, bombe a mano nel titolo, e mani avanti nel corpo dell'articolo.
Il terzo - più che un episodio - è una sequenza di retroscena e annunci di dimissioni imminenti del ministro Giovanni Tria, che infatti, molti mesi dopo, siede ancora sulla sua poltrona al Mef.
Il quarto è (di nuovo Fubini all'attacco) il presunto «giallo» sul ruolo dell'ex ministro Paolo Savona nel fondo Euklid. Il 13 ottobre Fubini spara a palle incatenate, ma Savona lo gela («il suo è il nulla mascherato da un falso», scrive perfidamente l'ex ministro ora alla guida della Consob) facendo sapere di essersi dimesso da quell'incarico già il 20 maggio 2018.
Come si vede, nonostante anni di campagne contro le presunte fake news altrui, nonostante editoriali dai toni sprezzanti e sussiegosi, Via Solferino sembra avere un serio problema con il rischio-bufala. Peraltro - coincidenza? - sempre contro il governo, sempre con l'effetto oggettivo di danneggiare questo esecutivo. Mai - guarda caso - un errore con un'eventuale ricaduta positiva per i gialloblù. Torna alla mente la memorabile battuta di Donald Trump all'inviato della Cnn: «You are fake-news».
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Dopo la nostra rivelazione sulla registrazione fasulla, Matteo Salvini è convinto che «i magistrati faranno in fretta». Luigi Di Maio richiede le dimissioni e attacca il leghista: «Se dici di combattere le cosche non puoi avere ombre». Ma il finto audio preoccupa i 5 stelle. Lo stato maggiore pentastellato faceva conto sull'intercettazione per la campagna delle europee. Senza «pistola fumante» la rincorsa al Carroccio diventa più accidentata. Procedura Ue, Paolo Savona e troll russi. Quante fake news da Via Solferino. Tra le notizie farlocche spicca la stangata mai arrivata da Bruxelles (con annesso litigio tra inviato e vicedirettore) e l'orda di «agenti» che avrebbero attaccato il Colle via Web. Lo speciale contiene tre articoli. Nessuna voglia di festeggiare, ieri, al Corriere della Sera. Lo scoop del nostro Giacomo Amadori ha svelato che l'intercettazione con tanto di virgolettato, pubblicata in prima pagina venerdì scorso dal Corriere, «Ci è costato 30.000 euro», riferita a Siri, per i pm non esiste. Identico discorso per il contenuto dell'articolo, firmato da Fiorenza Sarzanini: «“Questa operazione ci è costata 30.000 euro" dice l'imprenditore Paolo Arata al figlio Francesco, riferendosi ai compensi destinati ad Armando Siri per modificare i provvedimenti legislativi. Una cimice della Dia (Direzione investigativa antimafia, ndr)», scriveva il Corriere venerdì scorso, «registra la conversazione». Bene (anzi, male): quella conversazione, quel virgolettato, agli atti, non c'è, come hanno confermato alla Verità gli stessi inquirenti: «Le intercettazioni sui giornali? Sono false. Quelle frasi non ci sono nel fascicolo». Non potendo far finta di nulla, ma evidentemente in imbarazzo per la fake news propinata ai suoi lettori, ieri il Corriere ha pubblicato sul suo sito internet un articolo firmato dalla stessa Sarzanini che, invece di smontarlo, conferma al 100% lo scoop della Verità e rappresenta una piena anche se involontaria confessione da parte del quotidiano. La Sarzanini non fa alcun riferimento a quanto rivelato dalla Verità, ma pubblica il decreto di perquisizione eseguito nei confronti dell'imprenditore Paolo Franco Arata. Il pm Mario Palazzi scrive: «Siri Armando, senatore della Repubblica e sottosegretario di Stato, in tale duplice qualità di pubblico ufficiale, per l'esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, asservendoli a interessi privati (…) riceveva indebitamente la promessa e/o la dazione di 30.000 euro da parte di Paolo Franco Arata». Carta canta: nel documento pubblicato ieri dal Corriere non c'è traccia di quel virgolettato così pulp, «Ci è costato 30.000 euro», che il quotidiano sparò in prima pagina una settimana fa. Molto pulp, ma pure molto fiction: quel virgolettato, come ammette la stesso Corriere pubblicando le carte di indagine, è comparso dal nulla. Non solo: la Sarzanini rivela anche, pubblicando il documento, che nemmeno l'accusa afferma con certezza che Siri abbia ricevuto quei denari. «Riceveva indebitamente la promessa e/o la dazione di 30.000 euro da parte di Paolo Franco Arata», c'è scritto nel documento, pubblicato dal Corriere con tanto di evidenziatore fosforescente e lente di ingrandimento. A proposito di fosforo, al Corriere evidentemente sono convinti che i loro lettori ne siano scarsamente dotati: prima pubblicano una bufala grande quanto il Colosseo, e poi, dopo che LaVerità ha smascherato la fake news, imbastiscono una difesa senza ammettere esplicitamente l'errore, nel tentativo maldestro di confondere le acque e salvare la faccia. Diversa la strategia di Repubblica, giornale che pure sparò l'intercettazione tarocca in prima pagina, ma che ieri, sull'edizione Web, non faceva alcun cenno alla bufala, confidando probabilmente nella scarsa memoria dei suoi lettori (anche questi, evidentemente, carenti di fosforo secondo i responsabili del quotidiano). Lo scoop della Verità ha avuto inevitabili ripercussioni sul piano politico. «Stamattina», ha detto ieri Matteo Salvini, «ho letto che le intercettazioni non esisterebbero. Se così fosse sono sicuro che giudici, magistrati e avvocati faranno bene e in fretta il proprio lavoro. Ho parlato con Siri: gli ho chiesto sei tranquillo? Mi ha risposto di sì, e allora sono tranquillo pure io. In un Paese civile se si indaga qualcuno bisogna ascoltarlo un'ora dopo, non settimane dopo. Siri resta dov'è? Ci mancherebbe. Il presidente del Consiglio ha il diritto di incontrare chi vuole», ha aggiunto il ministro dell'Interno, «le polemiche sono lontane». Il riferimento di Salvini è all'incontro in programma lunedì prossimo tra Armando Siri e il premier Giuseppe Conte. Chi invece attacca ancora ad alzo zero la Lega è Luigi Di Maio: «Siri», ha detto ieri il leader del M5s, «si deve dimettere da sottosegretario, e lo dico a tutti, anche al presidente del Consiglio, perché noi in qualche modo lo abbiamo disinnescato e neutralizzato togliendogli le deleghe, ma quella è una indagine di corruzione che riguarda anche fatti di mafia. Puoi anche andare a Corleone a dire che vuoi liberare il Paese dalla mafia», ha aggiunto Di Maio, riferendosi a Salvini, che ieri era appunto a Corleone, «ma per farlo devi soprattutto evitare che la politica abbia anche solo un'ombra legata a inchieste su corruzione e mafia. La mafia la elimini se prima di tutto dai l'esempio. Quell'inchiesta che mi auguro veda prosciolto il sottosegretario Siri è un'inchiesta che non può assolutamente contemplare il concetto di garantismo». «Mi sono impegnato», ha commentato serafico Salvini, «a non rispondere sulle polemiche, sono in modalità zen». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/su-siri-lega-e-m5s-si-menano-ancora-e-dai-grillini-colpo-basso-sulla-mafia-2635559448.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="ma-il-finto-audio-preoccupa-i-5-stelle" data-post-id="2635559448" data-published-at="1766022961" data-use-pagination="False"> Ma il finto audio preoccupa i 5 stelle Lo scoop di ieri del nostro Giacomo Amadori ha avuto sul partito guidato da Luigi Di Maio un effetto diverso rispetto a quello che ci si poteva aspettare. Invece di gioire perché quella intercettazione così cruda, «Ci è costato 30.000 euro», relativa all'inchiesta sul sottosegretario leghista Armando Siri, non esiste, il Movimento pentastellato sembra aver accolto la notizia con un pizzico di fastidio. Invece di sentirsi sollevati, gli alleati di governo della Lega avrebbero pensato soprattutto al fatto che la rivelazione della Verità, alleggerendo almeno sul piano mediatico la posizione di Siri, e finisce con il rendere più difficoltosa la battaglia senza esclusione di colpi che il M5s sta portando avanti contro l'alleato di governo. Per parare il colpo, ieri il M5s ha continuato a sparare a zero contro Siri con dichiarazioni di fuoco da parte dei big. «Il governo deve andare avanti», ha detto il capo politico, Luigi Di Maio, «ma noi diciamo che il sottosegretario Siri deve andare a casa. Tutti possiamo sbagliare, ma la differenza sta nella reazione della politica. Cortesemente facessero il loro dovere morale e rimuovessero Siri». «I magistrati devono avere i loro tempi», ha sottolineato il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, «ma la politica deve avere altri tempi, la sua risposta non può essere: aspettiamo i tempi della giustizia. Borsellino diceva che un politico non deve essere solo onesto ma deve apparire onesto». «Augurando a Siri di essere assolutamente estraneo a tutto», ha attaccato il sottosegretario Stefano Buffagni, «io credo che quando un membro del governo viene coinvolto in un caso così grave in cui addirittura è coinvolta la mafia, il governo del cambiamento debba assolutamente dare dei segnali di taglio netto con quei mondi. E spero che, visto che Salvini è andato a Corleone, oggi abbia capito quanto è importante che questo governo dia un taglio secco con la mafia». «C'è l'innocenza fino a prova contraria», ha esternato il presidente della Camera, anima dell'ala più oltranzista grillina, Roberto Fico, «ma quando ci sono situazioni particolarmente gravi i partiti devono senza dubbio dare una risposta forte». La tolda di comando della comunicazione pentastellata, che pare aver accolto lo scoop della Verità con una certa delusione, ha evidentemente sguinzagliato i «pezzi grossi» del M5s, dando ordine di attaccare la Lega tirando in ballo la mafia, visto che sui 30.000 euro non si può più azzannare apertamente l'alleato. Considerato che l'accostamento tra Siri e la mafia esiste solo nei comunicati stampa e nelle dichiarazioni degli esponenti del M5s, appare evidente che i grillini, più che ragionare sui provvedimenti di cui ha bisogno l'Italia, si stanno dedicando 24 ore su 24 alla delegittimazione della Lega, sperando di arginare l'emorragia di consensi registrata in tutte le ultime tornate elettorali e segnalata dai sondaggi. Il giustizialismo, però, è un'arma a doppio taglio: i leghisti preferiscono non alimentare polemiche, ma qualcuno dovrebbe spiegare perché casi come, ad esempio, quello della capolista alle Europee del M5s, nel collegio Nord ovest, Maria Angela Danzì, indagata dalla Procura di Brindisi per «invasione di terreni pubblici», non meritano lo stesso trattamento da parte dei vari Di Maio, Fico, Bonafede, Buffagni e compagnia dichiarante. Per non parlare di Marcello De Vito, presidente M5s del Consiglio comunale di Roma, arrestato lo scorso 20 marzo per corruzione, che da regina Coeli ha scritto una lettera al sindaco Virginia Raggi con la quale ha comunicato di non volersi dimettere. Mors tua vita mea, sembra ormai la parola d'ordine dei vertici del M5s, ai quali - almeno a giudicare dalle dichiarazioni - sta più a cuore indebolire l'alleato che salvaguardare la stabilità del governo. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/su-siri-lega-e-m5s-si-menano-ancora-e-dai-grillini-colpo-basso-sulla-mafia-2635559448.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="procedura-ue-savona-e-troll-russi-quante-fake-news-da-via-solferino" data-post-id="2635559448" data-published-at="1766022961" data-use-pagination="False"> Procedura Ue, Savona e troll russi. Quante fake news da Via Solferino Sbagliare è umano, perseverare è… Corriere. Ormai da molti mesi, con la - diciamo - «sfortunata» direzione di Luciano Fontana, a Via Solferino si susseguono casi, uno più grave dell'altro, di svarioni e incidenti, non di rado oggetto di furiose polemiche interne, malamente sedate. Infatti, oltre allo svarione sull'intercettazione inesistente contro Armando Siri, solo per limitarci all'ultimo anno, ce ne sono almeno altri quattro. Il primo è forse il più clamoroso, perché a svelarlo è stato il corrispondente da Bruxelles del Corriere, Ivo Caizzi, in una lettera al Comitato di redazione (poi integralmente pubblicata dalla Verità l'8 gennaio). Oggetto del contendere un retroscena «sparato» in prima pagina dal Corriere il 1° novembre scorso, a firma del vicedirettore Federico Fubini, su una procedura di infrazione Ue contro l'Italia. Piccolo dettaglio: nessuna procedura di infrazione era stata o sarebbe stata decisa. La denuncia-ricostruzione di Caizzi è feroce quanto lucida: chiede di «verificare e valutare il comportamento del direttore Luciano Fontana», parla di una procedura Ue «inesistente», e aggiunge di «non ricordare in 30 anni un'altra “notizia che non c'è" simile in quella collocazione sul Corriere». La requisitoria di Caizzi è spietata: chiede tra l'altro «se il direttore ritenga che le “notizie" con annuncio della procedura e smentita della trattativa Ue-Italia possano aver influito - magari anche marginalmente e inconsapevolmente - sui mercati finanziari: favorendo di fatto mega speculatori, che in quei giorni scommettevano capitali ingenti sulla destabilizzazione dell'Italia (e sui conseguenti crolli in Borsa e aumenti degli spread sui titoli di Stato italiani)». E il direttore Fontana? Si limita a una replica piuttosto balbettante: «È davvero inverosimile che si giudichi il risultato finale (l'accordo tra Italia e Ue) per dire che i passi iniziali verso la procedura d'infrazione non fossero veri». E ancora: «La manovra italiana presentata con un deficit al 2,4% è stata respinta categoricamente e in tutte le sedi è stata giudicata passibile di procedura d'infrazione. Il Corriere ha raccontato con rispetto dei fatti sia le minacce di procedura che la trattativa...». Appunto, e qui sta l'evidentissima debolezza della risposta di Fontana: «passibile» e «minacce», il che è molto diverso dal dare al lettore la sensazione di una decisione quasi certa o pressoché acquisita, come obietta Caizzi. Il secondo episodio (ancora a firma dell'infaticabile Fubini) è l'indimenticabile campagna del Corriere contro i presunti «troll russi» che avrebbero partecipato a un attacco online contro il Quirinale. Titolo-choc del 2 agosto: «Le manovre dei russi sul Web e l'attacco coordinato a Mattarella». Salvo leggere a metà dello stesso articolo la retromarcia: «È impossibile sapere se i troll russi abbiano avuto un ruolo anche nell'alimentare l'ultima campagna contro il capo dello Stato». Insomma, bombe a mano nel titolo, e mani avanti nel corpo dell'articolo. Il terzo - più che un episodio - è una sequenza di retroscena e annunci di dimissioni imminenti del ministro Giovanni Tria, che infatti, molti mesi dopo, siede ancora sulla sua poltrona al Mef. Il quarto è (di nuovo Fubini all'attacco) il presunto «giallo» sul ruolo dell'ex ministro Paolo Savona nel fondo Euklid. Il 13 ottobre Fubini spara a palle incatenate, ma Savona lo gela («il suo è il nulla mascherato da un falso», scrive perfidamente l'ex ministro ora alla guida della Consob) facendo sapere di essersi dimesso da quell'incarico già il 20 maggio 2018. Come si vede, nonostante anni di campagne contro le presunte fake news altrui, nonostante editoriali dai toni sprezzanti e sussiegosi, Via Solferino sembra avere un serio problema con il rischio-bufala. Peraltro - coincidenza? - sempre contro il governo, sempre con l'effetto oggettivo di danneggiare questo esecutivo. Mai - guarda caso - un errore con un'eventuale ricaduta positiva per i gialloblù. Torna alla mente la memorabile battuta di Donald Trump all'inviato della Cnn: «You are fake-news».
(Apple Tv)
Non è affatto detto che sia così perché, dietro l’obiettivo di rovesciare le formule della fantascienza, si nasconde l’ambizione di una riflessione sul rapporto tra benessere collettivo e libertà individuale, tra felicità globale e identità personale. Il tutto proposto con grande cura formale, ottime musiche e qualche lungaggine autoriale. Possibili, lontani, riferimenti: Lost, per i prologhi spiazzanti e i flashback, Truman Show, per la solitudine e l’apparenza stranianti, Black Mirror, per la cornice distopica. Ma la mano dell’ideatore è inconfondibile.
Ci troviamo ad Albuquerque, la città del New Mexico già teatro dei precedenti plot di Gilligan, ma stavolta la vicenda è tutt’altra. Siamo in un futuro progredito e un certo rigore si è già radicato nella quotidianità. Per esempio, l’avviamento delle auto di ultima generazione è collegato alla prova di sobrietà del palloncino: se si è stati al pub, l’auto non parte. Individuato da un gruppo di astronomi, un virus Rna proveniente dallo spazio, trasmesso in laboratorio da un topo e contagiato tramite baci e alimenti, rende gli esseri umani felici, gentili e samaritani con il prossimo. Le persone agiscono come un’unica mente collettiva, ma non a causa di un’invasione aliena, tipo L’invasione degli ultracorpi, bensì per il fatto che «noi siamo noi», garantisce un politico che parla dalla Casa Bianca, anche se non è il presidente. «Gli scienziati hanno creato in laboratorio una specie di virus, più precisamente una colla mentale capace di tenerci legati tutti insieme». In questo mondo, non esiste il dolore, non si registrano reati, le prigioni sono vuote, le strade non sono mai congestionate, regna la pace. Tutto è perfetto e patinato, perché la contraddizione non esiste. Debellata, dietro una maschera suadente. La colla mentale dispone alla benevolenza e alla correttezza le persone. Che però non possono scegliere, ma agire solo in base a un «imperativo genetico». Soltanto 12 persone in tutto il Pianeta sono immuni al contagio. Ma mentre undici sembrano disposte a recepirlo, l’unica che si ribella è Carol Sturka (Reha Seehorn), una scrittrice di romanzi per casalinghe sentimentali. Cinica, diffidente, omosex e discretamente testarda, malgrado vicini, conoscenti e certi soccorritori ribadiscano le loro buone intenzioni - «vogliamo solo renderti felice» - lei non vuole assimilarsi ed essere rieducata dal virus dei buoni. I quali, ogni volta che lei respinge bruscamente le loro attenzioni, restano paralizzati in strane convulsioni, alimentando i suoi sensi di colpa. Il prezzo della libertà è una solitudine sterminata, addolcita dal fatto che, componendo un numero di telefono, può vedere esaudito ogni desiderio: cibi speciali, cene su terrazze panoramiche, giornate alle terme, Rolls Royce fiammanti. Quando si imbatte in qualche complicazione è immediatamente soccorsa da Zosia (Karolina Wydra), volto seducente della mente collettiva, o da un drone, tempestivo nel recapitarle a domicilio la più bizzarra delle richieste. A Carol è anche consentito di interagire con gli altri umani esenti dal contagio. Che però non condividono il suo progetto di ribellione alla felicità coatta: tocca a noi riparare il mondo. «Perché? La situazione sembra ideale, non ci sono guerre, viviamo tranquilli», ribatte un viveur che sfrutta ogni lusso e privilegio concesso dalla mente collettiva.
L’idea di questa serie risale a circa otto o nove anni fa, ha raccontato Gilligan in un’intervista. «In quel periodo io e Peter Gould (il suo principale collaboratore, ndr.) avevamo iniziato a lavorare a Better Call Saul e ci divertivamo parecchio. Durante le pause pranzo avevo l’abitudine di vagare nei dintorni dell’ufficio immaginando un personaggio maschile con cui tutti erano gentili. Tutti lo amavano e non importa quanto lui potesse essere scortese, tutti continuavano a trattarlo bene». Poi, nella ricerca del perché di questa inspiegabile gentilezza, la storia si è arricchita e al posto di un protagonista maschile si è imposta la figura della scrittrice interpretata da Reha Seehorn, già nel cast di Better Call Saul. Su di lei, a lungo sola in scena, si regge lo sviluppo del racconto. A un certo punto, provata dalla solitudine, ma senza voler smettere d’indagare anche perché incoraggiata dalle prime inquietanti scoperte, Carol cambia strategia, smorzando la sua ostilità…
Il titolo della serie deriva da «E pluribus unum», cioè «da molti, uno», antico motto degli Stati Uniti, proposto il 4 luglio 1776 per simboleggiare l’unione delle prime 13 colonie in una sola nazione. Gilligan ha trasferito la suggestione di quel motto a una dimensione esistenziale e filosofica, inscenando una sorta di apocalisse dolce per riflettere sulla problematica convivenza tra singolo e collettività. Per questo, in origine, Plur1bus era scritto con l’1 al posto della «i».
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Emmanuel Macron (Ansa)
La sola istanza che ha una parvenza di rappresentanza è il Palamento europeo. Così il Mercosur, il mega accordo commerciale con Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay, più annessi, che deve creare un’area di libero scambio da 700 milioni di persone che Ursula von der Leyen vuole a ogni costo per evitare che Javier Milei faccia totalmente rotta su Donald Trump, che il Brasile si leghi con la Cina e che l’Europa dimostri la sua totale ininfluenza, rischia di crollare e di portarsi dietro, novello Sansone, i filistei dell’eurocrazia.
Il Mercosur ieri ha fatto due passi indietro. Il Parlamento europeo con ampia maggioranza (431 voti a favore Pd in prima fila, 161 contrari e 70 astensioni, Ecr-Fratelli d’Italia fra questi, i lepenisti e la Lega hanno votato contro) ha messo la Commissione con le spalle al muro. Il Mercosur è accettabile solo se ci sono controlli stringenti sui requisiti ambientali, di benessere animale, di salubrità, di rispetto etico e di sicurezza alimentare dei prodotti importati (è la clausola di reciprocità), se c’è una clausola di salvaguardia sulle importazioni di prodotti sensibili tra cui pollame o carne bovina. Se l’import aumenta del 5% su una media triennale si torna ai dazi. Le indagini devono essere fatte al massimo in tre mesi e la sospensione delle agevolazioni deve essere immediata. Tutti argomenti che la Von der Leyen mai ha inserito nell’accordo. Ma sono comunque sotto il minimo sindacale richiesto da Polonia, Ungheria e Romania che sono contrarie da sempre e richiesto ora dalla Francia che ha detto: «Così com’è l’accordo non è accattabile».
Sono le stesse perplessità dell’Italia. Oggi la Commissione dovrebbe incontrare il Consiglio europeo per avviare la trattativa e andare, come vuole Von der Leyen, alla firma definitiva prima della fine dell’anno. La baronessa aveva già prenotato il volo per Rio per domani, ma l’hanno bloccata all’imbarco! Perché Parigi chiede la sospensione della trattativa. La ragione è che gli agricoltori francesi stanno bloccando il Paese: ieri le quattro principali autostrade sono state tenute in ostaggio da trattori che sono tornati a scaricare il letame sulle prefetture. Il primo ministro Sébastien Lecornu ha tenuto un vertice sul Mercosur incassando un no deciso da Jean-Luc Mélenchon, da Marine Le Pen ma anche dai repubblicani di Bruno Retailleau che è anche ministro dell’interno.
Domani, peraltro, a Bruxelles sono attesi almeno diecimila agricoltori- la Coldiretti è la prima a sostenere questa manifestazione - che con un migliaio di trattori assedieranno Bruxelles. L’Italia riflette, ma è invitata a fare minoranza di blocco dalla Polonia; la Francia vuole una mano per il rinvio. Certo che il Mercosur divide: la Coldiretti ha rimproverato il presidente di Federalimentare Paolo Mascarino che invece vuole l’accordo (anche l’Unione italiana vini spinge) di tradire la causa italiana. Chi invece vuole il Mercosur a ogni costo sono la Germania che deve vendere le auto che non smercia più (grazie al Green deal), la Danimarca che ha la presidenza di turno e vuole lucrare sull’import, l’Olanda che difende i suoi interessi commerciali e finanziari.
C’è un’evidente frattura tra l’Europa che fa agricoltura e quella che vuole usare l’agricoltura come merce di scambio. Le prossime ore potrebbero essere decisive non solo per l’accordo - comunque deve passare per la ratifica finale dall’Eurocamera - ma per i destini dell’Ue.
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Ursula von der Leyen (Ansa)
Questo allentamento delle norme consente che nuove auto con motore a combustione interna possano ancora essere immatricolate nell’Ue anche dopo il 2035. Non sono previste date successive in cui si arrivi al 100% di riduzione delle emissioni. Il presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha naturalmente magnificato il ripensamento della Commissione, affermando che «mentre la tecnologia trasforma rapidamente la mobilità e la geopolitica rimodella la competizione globale, l’Europa rimane in prima linea nella transizione globale verso un’economia pulita». Ursula 2025 sconfessa Ursula 2022, ma sono dettagli. A questo si aggiunge la dichiarazione del vicepresidente esecutivo Stéphane Séjourné, che ha definito il pacchetto «un’ancora di salvezza per l’industria automobilistica europea». Peccato che, in conferenza stampa, a nessuno sia venuto in mente di chiedere a Séjourné perché si sia arrivati alla necessità di un’ancora di salvezza per l’industria automobilistica europea. Ma sono altri dettagli.
L’autorizzazione a proseguire con i motori a combustione (inclusi ibridi plug-in, mild hybrid e veicoli con autonomia estesa) è subordinata a condizioni stringenti, perché le emissioni di CO2 residue, quel 10%, dovranno essere compensate. I meccanismi di compensazione sono due: 1) utilizzo di e-fuel e biocarburanti fino a un massimo del 3%; 2) acciaio verde fino al 7% delle emissioni. Il commissario Wopke Hoekstra ha spiegato infatti che la flessibilità è concessa a patto che sia «compensata con acciaio a basse emissioni di carbonio e l’uso di combustibili sostenibili per abbattere le emissioni».
Mentre Bruxelles celebra questa minima flessibilità come una vittoria per l’industria, il mondo reale offre un quadro ben più drammatico. Ieri Volkswagen ha ufficialmente chiuso la sua prima fabbrica tedesca, la Gläserne Manufaktur di Dresda, che produceva esclusivamente veicoli elettrici (prima la e-Golf e poi la ID.3). Le ragioni? Il rallentamento delle vendite di auto elettriche. La fabbrica sarà riconvertita in un centro di innovazione, lasciando 230 dipendenti in attesa di ricollocamento. Dall’altra parte dell’Atlantico, la Ford Motor Co. ha annunciato che registrerà una svalutazione di 19,5 miliardi di dollari legata al suo business dei veicoli elettrici. L’azienda ha perso 13 miliardi nel suo settore Ev dal 2023, perdendo circa 50.000 dollari per ogni veicolo elettrico venduto l’anno scorso. Ford sta ora virando verso ibridi e veicoli a benzina, eliminando il pick-up elettrico F-150 Lightning.
La crisi dell’auto europea non si risolve certo con questa trovata dell’ultima ora. Nonostante gli sforzi e i supercrediti di CO2 per le piccole auto elettriche made in Eu, la domanda di veicoli elettrici è debole. Questa nuova apertura, ottenuta a fatica, non sarà sufficiente a salvare il settore automobilistico europeo di fronte alla concorrenza cinese e al disinteresse dei consumatori. Sarebbe stata più opportuna un’eliminazione radicale e definitiva dell’obbligo di zero emissioni per il 2035, abbracciando una vera neutralità tecnologica (che includa ad esempio i motori a combustione ad alta efficienza di cui parlava anche il cancelliere tedesco Friedrich Merz). «La Commissione oggi fa un passo avanti verso la razionalità, verso il mercato, verso i consumatori ma servirà tanto altro per salvare il settore. Soprattutto servirà una Commissione che non chiuda gli occhi davanti all’evidenza», ha affermato l’assessore allo Sviluppo economico di Regione Lombardia Guido Guidesi, anche presidente dell’Automotive Regions Alliance. La principale federazione automobilistica tedesca, la Vda, ha detto invece che la nuova linea di Bruxelles ha il merito di riconoscere «l’apertura tecnologica», ma è «piena di così tanti ostacoli che rischia di essere inefficace nella pratica». Resta il problema della leggerezza con cui a Bruxelles si passa dalla definizione di regole assurde e impraticabili al loro annacquamento, dopo che danni enormi sono stati fatti all’industria e all’economia. Peraltro, la correzione di rotta non è affatto un liberi tutti. La riduzione del 100% delle emissioni andrà comunque perseguita al 90% con le auto elettriche. «Abbiamo valutato che questa riduzione del 10% degli obiettivi di CO2, dal 100% al 90%, consentirà flessibilità al mercato e che circa il 30-35% delle auto al 2035 saranno non elettriche, ma con tecnologie diverse, come motori a combustione interna, ibridi plug-in o con range extender» ha detto il commissario europeo ai Trasporti Apostolos Tzizikostas in conferenza stampa. Può darsi che sarà così, ma il commissario greco si è dimenticato di dire che quasi certamente si tratterà di auto cinesi.
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(Totaleu)
Lo ha dichiarato l'europarlamentare di Fratelli d'Italia durante un'intervista a margine dell’evento «Con coraggio e libertà», dedicato alla figura del giornalista e reporter di guerra Almerigo Grilz.