
- Un report dell’Iw di Colonia raccomanda prudenza nella reazione ai dazi: «L’accordo asimmetrico è meglio delle ritorsioni. Coi dazi al 15% 67 miliardi di costi, ma in caso di reazioni si sale a 210». Sconfessata la foga barricadera di Macron e del Pd.
- Svizzera a caccia dell’intesa: sul tavolo perfino la carta Infantino. Si cerca un approccio meno classico alla trattativa: il presidente Fifa è vicino a Trump.
Lo speciale contiene due articoli.
A dare retta a Emmanuel Macron e alla sua «emula» Elly Schlein ora sarebbero dazi amari. Lo spiega con l’autorevolezza tetragona degli economisti tedeschi l’Iw, think tank liberale che ha sede a Colonia, diretto da Michael Hüther, uno che di solito ci piglia e che non è solito fare sconti. La sentenza è inequivocabile: se l’Europa fa la voce grossa con Washington ci rimette le penne. Si può arrivare a un impatto negativo sull’economia dei 27 per oltre 210 miliardi di euro qualora Bruxelles decidesse ritorsioni sulle merci americane. Se stiamo buoni con un livello del 30% di tariffe il conto si ferma a 175 miliardi. Insomma uno schiaffo a Donald Trump, come quelli che la premier dame Brigitte rifila a Macron, ci costerebbe una quarantina di miliardi. Per ora siamo fermi alle tariffe al 15%. Lo ha ribadito il portavoce della Commissione europea Olof Gill: «Da quanto ci risulta, i dazi sono in vigore anche se secondo noi dovevano scattare da stamani alle 6 ora di Bruxelles. Gli Usa si sono impegnati con l’Ue affinché il tetto tariffario generale del 15% includa prodotti farmaceutici, automobili e semiconduttori». Se c’è questa incertezza ora figurarsi cosa succederebbe se l’Ue mostrasse i muscoli e desse luogo alla richiesta di Emmanuel Macron di ritorsioni verso gli Usa. Il presidente francese - in questo assistito in Italia dal Pd di Elly Schlein, da Giuseppe Conte e da Avs che rimproverano a Giorgia Meloni di essersi accodata a Trump - rischia di fare più danni della grandine. Lo certifica il capo di Iw.
È ascoltando lui e il suo nutritissimo gruppo di economisti che Friedrich Merz, il cancelliere tedesco, si è convinto di tre mosse ineludibili. Con Donald Trump fare la faccia feroce è dannoso; continuare col rigore di bilancio è folle; bisogna investire per far ripartire l’economia. L’Iw glielo ha detto chiaro: se va grassa quest’anno la Germania arretra dello 0,2% del Pil: malcontati sono una decina di miliardi. Se i dazi Usa s’impennano si può pagare una cifra assai elevata. Già con la tariffa al 15%, stimano gli economisti di Colonia, l’impatto per la Germania è almeno dello 0,4% del Pil; significa aggiungere al conto in negativo almeno altri 16 miliardi. Così Friedrich Merz per avere almeno uno sconto su dazi delle automobili - se tariffa passasse dal 27,5 al 15% e per Berlino sarebbe manna - è volato a Washington per parlare con Trump tenendo conto che la guerra all’Ue il presidente americano la muove proprio perché il surplus commerciale di Berlino è esagerato: solo nel primo trimestre di quest’anno è stato di 17,7 miliardi che portano il conto annuale a quasi 71 miliardi, un record.
L’azione di Merz svuota di significato il ruolo di Ursula von der Leyen, ma i conti dell’Iw sono implacabili. «Se il dazio medio salisse al 35%, come minacciato, i costi per la Germania crescerebbero di oltre 40 miliardi di euro e, con le relative ritorsioni, andrebbero oltre 50 miliardi di euro all’anno». Avvertono da Colonia: la guerra dei dazi è «una delle maggiori incertezze per lo sviluppo in Germania e nell’Ue». Perciò calma e gesso: «Anche se l’attuale è un accordo asimmetrico è meglio di nessun accordo. La nuova aliquota del 15% ha portato un certo sollievo all’industria dell’auto che aveva dovuto affrontare un dazio del 25%». I due maggiori punti interrogativi - sottolinea l’Iw - restano «l’irrealistica previsione di importare prodotti energetici dagli Usa per 750 miliardi dollari e l’impegno a investire 600 miliardi di dollari in America». Pertanto - osserva l’Iw - l’incertezza rimane elevata e i costi sono difficili da stimare in modo affidabile. A Colonia un po’ di conti li hanno però fatti e per l’Ue emerge che «al 15% i costi ammontano a circa 67 miliardi di euro all’anno. Se i dazi dovessero salire al 35%, si rischiano costi pari a 175 miliardi di euro all’anno; con le misure di ritorsione da parte dell’Ue i costi per l’economia europea potrebbero addirittura raggiungere i 210 miliardi di euro». Sarebbe la cronaca del disastro annunciato da Macron.
E allora prende valore la posizione del governo italiano e di Giorgia Meloni che ha sempre predicato moderazione. Anche nella sua intervista di mercoledì al Tg5 il premier ha ribadito: «La Ue sta trattando e noi stiamo a fianco delle imprese; sull’agroalimentare che fa prodotti unici abbiamo messo un miliardo».
La via della prudenza appare l’unica efficace visto che l’Iw evidenzia anche un altro rischio: l’effetto rimbalzo dei dazi praticati su altri Paesi come a esempio la Svizzera. Con un’accentuazione assai preoccupata sulla Cina. «L’Ue e la Germania non sono sottoposte solo a pressioni aggiuntive per la minaccia degli effetti collaterali sulle economie partner. C’è anche la minaccia di un boom delle importazioni, in particolare dalla Cina, se l’attuale conflitto tariffario con gli Stati Uniti non potrà essere risolto e le enormi aliquote tariffarie minacciate su Pechino rispettivamente del 145 e del 125% dovessero concretizzarsi».
Con buona pace dei professori, non ultima Elsa Fornero che ieri in un’articolessa su La Stampa sosteneva: «La imponderabile sconsideratezza che porta il nome di Donald Trump è l’elemento di destabilizzazione, i dazi sono solo un fattore di aggravamento della crisi. Un comportamento ossequioso significa non credere nei valori fondanti dell’Europa». Morale: l’Europa si ribelli al marasma dei dazi. E brava professoressa Fornero: lasci perdere i numeri e dica quel che vuole come ai tempi delle pensioni, tanto mica paga lei.
Tariffe, Svizzera a caccia dell’intesa: sul tavolo perfino la carta Infantino
Quando la diplomazia fallisce, serve un cartellino giallo. E se non basta, meglio mandare direttamente l’arbitro. È così che, tra dazi al 39%, orologi in lacrime e formaggio che rischiano di ammuffire alla dogana, la Svizzera si è convinta: il solo a poter scardinare la resistenza americana si chiama Gianni Infantino. Sì, proprio lui. Il presidente della Fifa, quello del calcio globale, degli stadi a forma di astronave e delle cerimonie dove Donald Trump non si sa mai se è ospite o protagonista.
A lanciare l’idea, figlia della disperazione, sono stati consiglieri federali, diplomatici e qualche parlamentare a cui dev’essere sfuggita di mano una raclette troppo calda: «Perché non chiediamo a Gianni di fare una telefonata a Donald?».
Sembra uno sketch, ma è tutto vero. Dopo l’ultima missione a Washington, con il presidente Karin Keller-Sutter e il ministro dell’Economia Guy Parmelin tornati a mani vuote, a Berna qualcuno, racconta il Financial Times, ha deciso di cambiare schema. E così, mentre gli Stati Uniti affondano il colpo con dazi punitivi, l’unica «azione coordinata» in campo pare quella per cercare il numero diretto del capo del calcio mondiale.
Del resto Infantino e Trump si piacciono. E parecchio. Il primo lo ha spostato gentilmente in seconda fila durante la premiazione del Chelsea, vincitore del primo Mondiale di calcio per club nel New Jersey, il secondo lo ha definito «un vincente» «un amico» e «un bravo ragazzo». Una cordialità a stelle e palloni, alimentata dai prossimi Mondiali di calcio che si terranno proprio negli Usa e su cui il tycoon pare puntare più che sulla Fed.
Infantino, nato a Briga - prima fermata del treno dall’Italia dopo il Sempione - è abituato a palleggiare tra autoritarismi e autografi. Dunque perché non sfruttare la sua capacità di «parlare Trumpese» per aiutare la Confederazione in un momento delicato?
I funzionari americani, infatti, hanno già archiviato i colloqui ufficiali con un cordiale ma freddo «grazie e arrivederci». Il segretario al Commercio, Marco Rubio (da non confondere con un centrocampista del Real Madrid), si è limitato a un «scambio di vedute» con Keller-Sutter. Nessuna stretta di mano con The Donald, nessuna promessa, nessun tweet di pace.
E mentre i settori industriali colpiti iniziano a sentire la pressione, il Consiglio federale ha deciso di giocare la carta della calma olimpica. Nessun controdazio. Niente guerra commerciale, perché - come recita il comunicato ufficiale - «non è nell’interesse della Svizzera». Insomma, Berna non vuole alzare la voce. Al massimo vuole alzare il telefono di Infantino.
E nonostante le pressioni interne, anche l’acquisto miliardario di F-35 e sistemi Patriot non verrà toccato. «Se non lo facessimo, non avremmo alcuna difesa aerea», ha detto con sobrietà svizzera il presidente Keller-Sutter. Tradotto: niente scherzi, i 7,3 miliardi in armamenti restano nel contratto. Perché va bene essere neutrali, ma senza difesa nemmeno Guglielmo Tell avrebbe avuto coraggio. Così, in attesa che Trump si lasci convincere tra un selfie con Infantino e un «deal» gridato a pieni polmoni, la Svizzera continua a puntare sulla diplomazia - quella creativa, di precisione, magari con una palla al centro. E mentre i dazi mordono e le contromisure restano in naftalina, Berna conferma: niente vendette, niente escalation. Fair play sportivo.






