Una ricerca demolisce la politica delle restrizioni: le scelte dei governi hanno causato 14-18 milioni di decessi, 6.000 miliardi di dollari di mancato reddito per i lavoratori di tutto il mondo, nuovi disturbi mentali fra i giovani.
Una ricerca demolisce la politica delle restrizioni: le scelte dei governi hanno causato 14-18 milioni di decessi, 6.000 miliardi di dollari di mancato reddito per i lavoratori di tutto il mondo, nuovi disturbi mentali fra i giovani.Un disastro epocale, da tutti i punti di vista: così la risposta dei governi mondiali al Covid è stata definita in un paper, che aveva come obiettivo la valutazione dello stato globale delle conoscenze sull’impatto delle misure adottate nel mondo in risposta alla pandemia. In che modo le politiche antipandemiche hanno danneggiato la società? L’analisi - che è stata elaborata da Kevin Bardosh, docente di scienze sociali e di salute pubblica globale all’Università di Washington e in quella di Edimburgo - include più di 600 pubblicazioni. Il testo, appena uscito in preprint su Social Science Research Network, analizza un quadro dei danni, subiti dalla popolazione, che abbraccia 10 categorie: salute, economia, reddito, sicurezza alimentare, istruzione, stile di vita, relazioni intime, comunità, ambiente e governance. I risultati sono sconvolgenti, se si considera che sono stati direttamente o indirettamente causati non dal virus ma dalle decisioni adottate dai governi per contrastarlo: 14-18 milioni di decessi in eccesso, di cui 5-6 milioni registrati come decessi Covid; impennata del debito pubblico e privato; 6.000 miliardi di dollari di mancato reddito per i lavoratori di tutto il mondo; 200-400 milioni di persone in più spinti verso la povertà nel 2022 rispetto al 2019; 350 milioni di persone in più senza sicurezza alimentare dal 2019 al 2021; aumento del 13% del tasso di povertà dell’apprendimento globale tra il 2019 e il 2022, che ha cancellato tutti i progressi realizzati nel settore dell’istruzione dal 2000, con grandi tassi di abbandono scolastico; 21.000 miliardi di dollari in guadagni futuri a rischio, per l’attuale generazione di studenti; nuovi disturbi mentali, soprattutto tra i giovani; aumento dei comportamenti negativi legati allo stile di vita come obesità, uso del computer, insonnia, menomazioni sociali nei bambini, accresciuta fragilità tra gli anziani, dipendenza e cattiva alimentazione; aumento degli abusi sui minori, della violenza domestica, della criminalità e della disuguaglianza di genere e, ultima ma non meno importante, la diminuzione della fiducia, della coesione sociale, della libertà di stampa, del rispetto dei diritti umani fondamentali e del sostegno agli atteggiamenti democratici. Si poteva fare meglio? Non c’è dubbio, ma è ormai chiaro che in Italia le resistenze a un serio «debriefing» (cioè l’ultima fase di un processo lavorativo che permette di verificare il lavoro fatto e, se serve, migliorarlo) sono altissime, come dimostra l’ostruzionismo dei partiti che hanno governato la pandemia (Pd e 5 stelle) all’istituzione della commissione Covid. E non è un caso che proprio ieri un’indagine condotta da The European House-Ambrosetti e il Ceis dell’università Tor Vergata abbia certificato che la percentuale di cittadini che ritiene i vaccini uno strumento sanitario sicuro ed efficace per contrastare le malattie infettive sia scesa dal 92% al 76%.Non è «andato tutto bene», dunque, ma sicuramente è andata come avevamo previsto: le misure adottate dai governi nazionali, specialmente in Italia, sono state inappropriate, la comunicazione letteralmente terrificante e la popolazione ne ha preso atto. C’è ancora chi - come l’infettivologo Matteo Bassetti - attribuisce queste conseguenze alla diffusione di informazioni oscurate per tre anni da istituzioni e virostar, ma le evidenze parlano chiaro, con buona pace degli scienziati da salotto che non riescono ad ammettere neanche una delle mille responsabilità. Il paper di Bardosh, che è stato sostenuto dall’ente britannico di beneficenza Collateral Global, è dunque oltremodo encomiabile.«All’inizio della pandemia», si legge nell’analisi di Bardash, «sono state sollevate preoccupazioni sul fatto che il lockdown e le altre misure avrebbero causato un danno significativo alla società. Questa ricerca mostra che il danno collaterale della risposta alla pandemia è stato sostanziale, di ampio respiro e lascerà dietro a sé un’eredità di danni per centinaia di milioni di persone negli anni a venire». Bardosh evidenzia quattro snodi fondamentali. In primo luogo la tendenza generale, da parte di chi si occupa di salute pubblica, ad essere eccessivamente ottimista sui benefici degli interventi pubblici, sottovalutando o addirittura ignorando i danni. In secondo luogo, il documento cerca di valutare i danni sulla base del principio che la «salute» è un concetto che va al di là del «controllo delle malattie», come da definizione dell’Oms. «Ciò significa», scrive Bardosh, «che qualsiasi valutazione significativa della risposta alla pandemia avrebbe dovuto utilizzare un quadro concettuale più ampio per valutare l’impatto delle misure restrittive, che andasse oltre le patologie cliniche». Il famoso bilanciamento tra salute e libertà, insomma. In terzo luogo, sottolinea l’autore, le tanto sbandierate «evidenze scientifiche» alla base di molti interventi adottati per contrastare il Covid non erano tali e sono sono tuttora oggetto di dibattito nella comunità scientifica. «Prima della pandemia, molti scienziati sostenevano un cauto scetticismo sui tipi di restrizioni e obblighi che poi, però, sono stati ampiamente utilizzati tra il 2020 e il 2021». Un esempio calzante è quello delle mascherine: ricordiamo il surreale caso Italia, unica nazione europea a mantenerle nelle scuole fino a giugno 2022 e, ancora adesso, nelle Rsa e al pronto soccorso. «Tutti i messaggi basati su paura, regole punitive e lunghe restrizioni alla normale interazione umana», scrive Bardosh, «prima erano visti come controproducenti, privi di evidenze e, in molti casi, non etici o incostituzionali. Ora che la fase acuta è passata, le valutazioni scientifiche stanno rivisitando le teorie sugli interventi non farmacologici che erano stati presentati ai cittadini come evidenze scientifiche nel 2020-21». Meglio tardi che mai. Infine, osserva l’autore, «nella nostra attuale società “basata sui dati”, ciò che non viene misurato può essere più facilmente ignorato. Le statistiche Covid sono molto più semplici da comprendere e comunicare al pubblico». Insomma, per i nostri governanti val sempre bene il detto «occhio non vede, cuore non duole».
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
Continua a leggereRiduci
Fabio Giulianelli (Getty Images)
L’ad del gruppo Lube Fabio Giulianelli: «Se si riaprisse il mercato russo saremmo felici. Abbiamo puntato sulla pallavolo 35 anni fa: nonostante i successi della Nazionale, nel Paese mancano gli impianti. Eppure il pubblico c’è».
2025-10-13
Dimmi La Verità | gen. Giuseppe Santomartino: «La pace di Gaza è ancora piena di incognite»
Ecco #DimmiLaVerità del 13 ottobre 2025. Ospite il generale Santomartino. L'argomento del giorno è: "La pace di Gaza e le sue innumerevoli incognite".
A Dimmi La Verità il generale Giuseppe Santomartino commenta la pace di Gaza e tutte le incognite che ancora nessuno ha sciolto.