2022-06-09
L’attacco agli operai di giovedì racconta la tensione della sigla per il crollo di rappresentanza nelle fabbriche. Dall’Ilva a Stellantis, da Iveco a Cnh fino alle roccaforti rosse nel Bolognese, il peso di Maurizio Landini sta precipitando.
Calci, pugni e sciopero ma non solo. La brutta storia che venerdì ha visto come epicentro Genova e i sindacati, con una ventina di persone riconducibili alla Fiom che hanno inseguito e picchiato 5 colleghi della Uilm colpevoli di non aver partecipato alla serrata per l’ex Ilva, racconta anche altro. Racconta di un Maurizio Landini che oltre a non condannare la violenza ha smarrito il controllo dei suoi in un’azienda e un territorio caldissimi. E dice di un segretario della Cgil che sta perdendo la fiducia dei lavoratori soprattutto lì dove le partite dell’occupazione sono complesse. Nelle fabbriche più ostiche, ma non solo.
A partire appunto dall’ex Ilva, dove negli scorsi anni è andato in scena un clamoroso sorpasso. Nel sito di Taranto, che per mille motivi (storia imprenditoriale, giudiziaria e politica) può essere considerato l’emblema delle difficoltà del lavoro soprattutto nel Mezzogiorno, la Uilm è il primo sindacato. E passi. Il problema è che la Fiom è scivolata via via nelle posizioni di retroguardia diventando nel 2023 (su una platea elettorale di 8.100 dipendenti ha votato circa il 70% della forza lavoro) la quarta forza di rappresentanza, dietro anche alla Fim (i metalmeccanici della Cisl) e all’Usb.
Storia nota che non ha insegnato molto alla leadership di Landini. Perché a furia di fare opposizione a prescindere al governo e di pensare a referendum, talk show e interviste sui giornali (con una smaccata preferenza per quelli del gruppo Gedi) si finisce per non avere più il polso di quanto succede sul territorio. Prendiamo Stellantis, Cnh, Iveco e Ferrari, dove la Fiom dal 2011 non firma il contratto (Ccsl) ad hoc dei vari gruppi e si è praticamente ritirata dalla competizione elettorale aziendale. Insomma, il primo sindacato italiano che rinuncia ai delegati in pezzi fondanti di un settore industriale, automotive e dintorni, che sta vivendo una delle peggiori crisi di sempre. Paradossale.
Oppure l’edilizia, dove nella conta degli iscritti certificati dal sistema delle casse edili la Filca Cisl da due anni ha superato la Fillea Cgil. Che è costantemente indietro anche per numero di rappresentanti nei cantieri delle grandi opere. Dai lavori per l’alta velocità Bari-Napoli (Webuild-Pizzarotti) per arrivare a quelli sulla A1 Barberino/Variante di Valico fino al Tunnel del Brennero (consorzio Dolomiti).
Sono solo esempi. Perché la diaspora di rappresentanti dal sindacato rosso riguarda a macchia di leopardo tutto il Paese. Ancora nel Mezzogiorno, dove la questione lavoro è più sentita, pochi mesi fa si sono svolte le elezioni per le Rsu (rappresentanze sindacali) delle Acciaierie di Sicilia. Secondo sito siderurgico del Sud. Qui è stato abbastanza clamoroso il successo dell’Ugl, con la Cgil finita solo terza, un unico delegato.
Anche nel bolognese, roccaforte rossa per eccellenza, le elezioni del 2025 per le Rsu hanno portato alla Cgil sorprese spiacevoli, con la Cisl che è diventata maggioranza in tre aziende. Alla Ghibson di Zola Predosa, storica fabbrica che produce da oltre quarant’anni valvole per uso industriali, acquisita nel 2022 dal Gruppo Bonomi, le urne hanno rovesciato completamente gli equilibri sindacali: la Fim che ha ottenuto tre delegati e la Fiom è rimasta a bocca asciutta. Alla Zarri di Castello d’Argile, attiva nel settore della produzione di componenti metallici e fissaggi, dove il confronto tra Cisl e Fiom si è chiuso 2 a 1, stesso risultato alla Corradi di Castelmaggiore, che produce pergolati in alluminio.
Anche in Friuli-Venezia Giulia, in provincia di Pordenone, il sindacato «rosso» perde terreno. Fino a poco tempo fa nello stabilimento della Bertoja, produttrice di semirimorchi per trasporti speciali, la Fiom poteva contare su tre rappresentanti. Quest’anno gli equilibri sono cambiati, e la Fim ha ottenuto due delegati, mentre la Fiom ne ha portato a casa solo uno. Alla Brovedani, dove prima gli uomini della Fiom erano la maggioranza, oggi ci sono tre Fim, 2 Fiom e uno Uilm. Alla Terex, produttrice di gru, la Fim si è confermata come prima forza, con due delegati contro uno della Fiom.
In Toscana il caso forse più eclatante è quello della Hitachi Rail di Pistoia, l’ex AnsaldoBreda (ceduta nel 2015 dall’allora Finmeccanica ai giapponesi), dove vengono prodotti una parte dei nuovi Frecciarossa 1000 utilizzati da Trenitalia. Dopo la privatizzazione all’interno dello stabilimento di Pistoia, per anni roccaforte della Fiom, gli equilibri sindacali sono progressivamente mutati. Da circa cinque anni la Fim fa incetta di delegati, seguita dalla Uilm.
Nel settore delle aziende elettriche ormai la Flaei Cisl è il principale sindacato, forte soprattutto di una rappresentanza in Enel arrivata al 48% e al 50% in A2A. «Dentro Enel abbiamo superato la Cgil già nel 2009», spiega alla Verità Amedeo Testa, segretario generale Flaei, che poi aggiunge: «Oggi nel comparto rappresentiamo sostanzialmente un lavoratore su due». Comparto che sta seguendo le orme tracciate da Poste Italiane, dove oggi il 54% dei rappresentanti è nelle mani della Cisl, che all’interno di Fondoposte, il fondo previdenziale dei dipendenti, arriva addirittura al 61%. Percentuali che, in linea puramente teorica, potrebbero consentire perfino di chiudere accordi senza gli altri sindacati.
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Elly Schlein (Ansa)
Dal primo giorno del governo Meloni, i progressisti lanciano allarmi su fantomatiche derive autoritarie. Eppure il 2025 regala una fotografia chiara: azioni brutali degli antagonisti, agenti feriti e pure la prepotenza culturale, con gli intellò che invocano bavagli.
Pagliuzze e lenti al contrario, è sempre una questione di prospettiva. Sembra di sentirla Elly Schlein mentre lancia «l’allarme democratico» su ogni emendamento bocciato dall’esecutivo; sembra di vederla la ditta Bonelli&Fratoianni mentre sfila sotto lo striscione «pacifismo e resistenza» anche al corteo contro i test di Medicina all’università. Dal primo giorno del governo di Giorgia Meloni, la sinistra (con tutte le sue sfumature di rosso) mette in guardia il popolo dalle derive autoritarie, dalle tentazioni squadriste, dagli eccessi della polizia col manganello, dalle «coazioni a ripetere» in camicia ovviamente nera. Poi, liberata la coscienza, scende in piazza e mena. Scende in piazza e brucia i libri. Scende in piazza e fa scoppiare bombe chiodate in mezzo ai poliziotti. Con la consueta giustificazione: c’è il compagno che bisbiglia e quello che sbaglia.
Non si tratta di una provocazione dadaista, è la fotografia di un 2025 cominciato con il proposito di Maurizio Landini: «È arrivato il momento di una vera rivolta sociale». E concluso (forse, magari, chissà) con l’inseguimento a Genova di alcuni energumeni Fiom ai delegati della Uilm, con corollario artistico di calci e pugni in testa. Perché? Andavano convinti a fare sciopero. Mentre osservano con la lente le pagliuzze negli occhi degli altri, i pacifisti per decreto non hanno paura di mostrare travi grandi come l’albero maestro dell’Amerigo Vespucci. Nessuno gliele fa notare, men che meno i media compiacenti. Ergo, non esistono. Quindi si può procedere a esibire la mercanzia in ogni settore merceologico dell’opposizione violenta.
Violenta nelle manifestazioni pubbliche dove lo scontro fisico è tornato ad essere - dopo anni di concertazione con i questori - un imperativo categorico. In nome della pace e della causa Pro Pal si sfasciano vetrine, si bruciano automobili, si devastano luoghi pubblici. Centri sociali e Collettivi studenteschi di estrema sinistra sono liberi di pascolare nelle città (Roma, Milano, Genova, Torino ma anche Pisa, Venezia, Bari) cercando lo scontro con le forze dell’ordine perché «la rivolta sociale» chiamata da Landini non è un pranzo di gala.
Nel 2024 sono finiti all’ospedale 273 agenti, +127% rispetto all’anno precedente, con tendenza al peggioramento significativo nell’anno che sta per concludersi; per ora i feriti in divisa sono 325 (+52%). I fascisti sono gli altri, nel frattempo i manovali della rivoluzione permanente menano che è un piacere. Occhio alle pagliuzze e occhi neri.
L’esempio più recente di doppia morale è stato l’assalto alla redazione de La Stampa di Torino da parte dei black block di Askatasuna. Stupefacente la leggiadra copertura politica da parte del sindaco del Pd Stefano Lo Russo, che mentre i leonka torinesi devastavano gli uffici portava avanti il progetto per trasformare il centro sociale in «bene comune». Con la collaborazione degli ultrà da cittadinanza onoraria come Francesca Albanese, che ha preso lo spunto per definire «un monito ai giornalisti» il raid dei teppisti comunisti.
Identico principio per la violenza antisemita, ricomparsa sotto le keffiah e condita con l’ipocrisia di chi oggi governa la piazza usandola come arma contundente per governare domani il Paese. Ebrei all’indice, genocidio palestinese, Israele paragonato alla Germania nazista, la sinagoga di Monteverde a Roma imbrattata: a messaggi brutali seguono azioni brutali. E l’album di famiglia è sempre lo stesso. La sinistra radicale di Schlein si chiama fuori ma mostra la corda sul disegno di legge di Graziano Delrio (contrasto all’antisemitismo) per non irritare i Pro Pal. «Era un’iniziativa personale, non del partito», ha preso le distanze il Correntone del Nazareno. Come se stesse difendendo gli estremisti che al grido di «fuori i sionisti dall’università» a Ca’ Foscari hanno impedito a Emanuele Fiano di parlare.
«Mi hanno fatto il gesto della P38, anche mio padre fu zittito durante il fascismo», ha detto quasi in lacrime l’ex deputato dem. Poi, per un curioso riflesso condizionato antifa, ha fatto anche lui il tifo per la cacciata dalla rassegna libraria «Più libri più liberi» della piccola casa editrice di destra Passaggio al bosco, immediatamente mascariata di «nazifascismo». Caro Fiano, questa è coerenza. Così, oltre alla violenza fisica e a quella ideologica, ecco che nelle pieghe del progressismo illuminato si annida la violenza culturale. Con gli intellettuali cosiddetti liberal a reggere la coda alla censura: Alessandro Barbero, Antonio Scurati, Corrado Augias, il triste fumettista Zerocalcare.
Ottanta campioni del pluralismo a senso unico schierati a zona integrale, con in mano il fiammifero per mandare al rogo titoli che non piacciono, junk ideology, impraticabile per gente che si pretende alla moda. La kultur che passa la frontiera senza il rischio del controllo è quella delle idee liofilizzate: marxismo elementare, resistenzialismo apologetico, terzomondismo da delegata Onu, anticapitalismo studiato sui bigini. Dove la Storia non è più una scienza ma un genere letterario. Il brodo di coltura del perfetto doganiere del pensiero, che grida alla dittatura degli altri prima di usare la clava in proprio.
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Elon Musk (Ansa)
Mr «X» dopo la maxi multa di Bruxelles: «Restituire sovranità agli Stati». L’ex ministro Tria e Prodi rilanciano l’intesa con Xi.
«L’Ue andrebbe abolita e la sovranità dovrebbe essere restituita ai singoli Paesi, così che i governi possano rappresentare meglio i loro popoli». All’indomani della sanzione da 120 milioni di euro, che la Commissione gli ha comminato per violazione del Digital services act, Elon Musk seppellisce l’Europa, scossa dalle 30 pagine della dottrina di Donald Trump, che ne profetizza la scomparsa entro un paio di decadi.
La controffensiva del magnate galvanizza X. Viktor Orbán scrive che «l’attacco della Commissione dice tutto. Quando i padroni di Bruxelles non riescono a spuntarla nel dibattito, arrivano alle multe. L’Europa ha bisogno della libertà d’espressione, non di burocrati non eletti che decidono cosa possiamo leggere o dire. Giù il cappello per Elon Mask perché ha tenuto il punto». Geert Wilders, leader sovranista olandese, se la prende con l’esecutivo di Ursula von der Leyen: «Nessuno vi ha eletto», twitta. «Non rappresentate nessuno. Siete un’istituzione totalitaria e non riuscite nemmeno a dividere in sillabe le parole “libertà d’espressione”. Non dovremmo accettare la multa a X, semmai abolire la Commissione Ue». Musk applaude: «Assolutamente! La Commissione Ue venera il dio della burocrazia, che soffoca il popolo d’Europa».
Oltreoceano, intanto, parte la rappresaglia. Reuters riferisce che il Dipartimento di Stato studia una stretta sui visti per chi si è reso «responsabile o complice della censura o del tentativo di censura di espressioni protette negli Stati Uniti». A cominciare dai fact checker dei social. Il vice di Marco Rubio, Christopher Landau, reduce dalle accuse di filocastrismo a Federica Mogherini, lancia poi una sorta di ultimatum: «O le grandi nazioni d’Europa sono nostri partner nella protezione della civiltà occidentale che abbiamo ereditato da loro, oppure non lo sono. Ma non possiamo fingere di essere partner mentre quelle nazioni permettono alla burocrazia non eletta, antidemocratica e non rappresentativa dell’Ue a Bruxelles di perseguire politiche di suicidio di civiltà». Il diplomatico lamenta: i medesimi Paesi, «quando indossano il cappello della Nato, insistono sulla cooperazione transatlantica come elemento centrale della sicurezza. Ma quando hanno il cappello dell’Ue portano avanti ogni sorta di agenda che spesso è totalmente contraria agli interessi e alla sicurezza degli Stati Uniti».
La lite scoppia, appunto, a 24 ore dalla pubblicazione del testo con cui la Casa Bianca ha ridefinito le proprie priorità. I media italiani lo hanno recepito con sgomento. Il Corriere, ieri, parlava di «attacco choc all’Europa». Secondo Repubblica, «Trump scarica l’Europa». La Stampa era listata a lutto: «Addio Europa, strappo americano». «Con la National security strategy di Trump l’America è ufficialmente un avversario», recitava l’editoriale di Giuliano Ferrara sul Foglio.
La Commissione Ue ha rivendicato la sua autonomia: decidiamo noi per noi, anche su libertà d’espressione e «ordine internazionale fondato sulle regole». Nel documento di Washington, ha ammesso Kaja Kallas, «ci sono molte critiche, ma credo che alcune siano anche vere. Se si guarda all’Europa, si nota che ha sottovalutato il proprio potere nei confronti della Russia. Dovremmo avere più fiducia in noi stessi. Gli Stati Uniti sono ancora il nostro più grande alleato». Piccato il premier polacco, Donald Tusk: l’Europa, ha spiegato agli «amici americani», è « il vostro più stretto alleato». E «abbiamo nemici comuni. A meno che non sia cambiato qualcosa». Lucida l’analisi di Guido Crosetto. Il ministro della Difesa ha sottolineato che lo spostamento del fulcro degli interessi strategici Usa, dal Vecchio continente all’Indo-Pacifico, era una «traiettoria evidente già prima dell’avvento di Trump, che ha soltanto accelerato un percorso irreversibile». Quando il processo è cominciato, non tutti erano attenti: nel 2000, George W. Bush fece rientrare diverse unità di stanza in Germania; Barack Obama richiamò un paio di brigate, per un totale di 8.000 soldati. E fu lui a stabilire che il futuro «perno» (pivot) della politica statunitense sarebbe stato l’Asia. The Donald, peraltro, ci ha tenuto a precisare che «l’Europa rimane strategicamente e culturalmente vitale per gli Stati Uniti». Crosetto ha insistito sulla necessità di mobilitare, insieme al resto dell’Unione, gli «investimenti pubblici e privati» necessari a «recuperare il tempo perso su tecnologie fondamentali» per diventare militarmente autosufficienti.
Ma se qualcuno ha invocato la collaborazione tra Stati membri per mettere in pratica un caposaldo del piano Trump (l’Europa deve imparare a «reggersi in piedi da sola», recita il manifesto), qualcun altro ha approfittato dello «choc» di cui sul Corsera per rilanciare il vecchio pallino: l’alleanza con Pechino. Da più Europa a più Cina è un attimo.
Ne ha discusso sul quotidiano di Torino, col pretesto di contestare il protezionismo del golden power, l’ex ministro dell’Economia, Giovanni Tria. Dimenticando che la penetrazione dei capitali del Dragone equivale a un commissariamento dei nostri asset.
L’intervento di Romano Prodi sul Messaggero, invece, più che malevolo è apparso surreale. In sintesi: siccome quel puzzone del tycoon si mette d’accordo con le autocrazie, noi dobbiamo... metterci d’accordo con un’autocrazia. «Finora», ha notato l’ex premier, «soltanto la Cina sta preparando una strategia alternativa, non solo usando le terre rare come arma di guerra ma, soprattutto, sostituendo il mercato americano con un’accresciuta presenza in tutto il resto del mondo». È in questo spazio che, a suo avviso, dovrebbero incunearsi gli europei. Per evitare «il collasso finale di quello che resta della globalizzazione», sostiene Prodi. In funzione di utili idioti, temiamo noi. Peccato che, ha sospirato il fondatore dell’Ulivo, né l’Ue né i dirigenti di Pechino sembrino «in grado di preparare la strada per arrivare al necessario compromesso». Alla faccia degli infausti vaticini di Trump: se è così, possiamo ancora salvarci.
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