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2021-12-10
Gli stessi contagi di un anno fa. Ma ora non c’è emergenza
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Numeri, numeri, numeri: se la matematica non è un’opinione, applicarla al Covid e alla gestione della pandemia in Italia è probabilmente l’unico modo per analizzare la situazione con obiettività, lasciando da parte le convinzioni che ciascuno di noi ha in merito alla questione. Il bollettino di ieri, diffuso come di consueto dal ministero della Salute, riporta 12.527 nuovi casi di Covid nelle 24 ore precedenti in Italia, contro i 17.959 dell’altro ieri, ma con molti meno tamponi effettuati a causa della festività dell’Immacolata (312.828, cioè 251.879 in meno dell’8 dicembre, quando erano stati 564.698). Infatti, il tasso di positività sale al 4% rispetto al 3,2% dell’altro ieri. I decessi sono stati 79, le terapie intensive sono salite di 20 raggiungendo quota 811, mentre i ricoveri ordinari sono cresciuti di 234 unità, per un totale di 6.333.
Ora facciamo un salto indietro esattamente di un anno, e vediamo quali erano i dati del Covid il 9 dicembre 2020. Quel giorno i nuovi casi furono 12.756, esattamente gli stessi di ieri, ma con soli 118.475 tamponi esaminati, infatti il tasso di positività fu del 10,8%. La crescita esponenziale di tamponi rispetto all’anno scorso, ricordiamolo, è dovuta soprattutto all’effetto del green pass. Andiamo avanti: i decessi, l’anno scorso, furono 499 (per la prima volta nel mese di dicembre 2020 scesero sotto quota 500). I ricoverati toccarono quota 29.653, i pazienti in terapia intensiva raggiunsero la cifra totale di 3.320.
Sovrapporre le due curve, quelle del 2020 e del 2021, in relazione allo stesso periodo, è illuminante: pensate che il 17 novembre 2020 i nuovi contagiati giornalieri toccarono la vetta di 35.075, mentre il 17 novembre 2021 erano solo 7.704; il 3 dicembre 2020 ci furono in Italia 741 morti per Covid, contro i 77 del 4 dicembre scorso. La curva del contagio, in questi giorni dello scorso anno, iniziava a scendere, oggi è in lieve ascesa. Cosa ci fa capire questa semplice comparazione tra i dati di oggi e quelli di un anno fa? Molto semplice: il numero dei decessi, quello delle terapie intensive e quello delle ospedalizzazioni negli ultimi 12 mesi è crollato in maniera vertiginosa: il 9 dicembre 2020 furono rispettivamente 499, 3.320 e 29.563, ieri sono stati 79, 811 e 6.333. Quello dei contagi giornalieri è praticamente lo stesso, seppure con molti più tamponi ora rispetto al 2020, e con il trend in crescita, al contrario di quanto accadeva 12 mesi fa. Ciò vuol dire che il virus circola tra di noi esattamente come l’anno scorso, anche se fa incommensurabilmente meno danni. Ovviamente, il merito di tutto questo, della riduzione di morti, terapie intensive e ricoveri, è dei vaccini. I vaccini salvano la vita, evitano di finire in un letto di ospedale, o addirittura intubati. Ma non frenano il contagio: lo dicono i numeri, che (almeno loro) non mentono mai.
Del resto, se c’è una cosa sulla quale nessuno ha dubbi, è che il vaccino non impedisce di contagiarsi e contagiare. Riduce le conseguenze, e di molto, ma non la trasmissione del virus. Il che ci fa capire quanto sia inutile, nella strategia di contenimento del contagio, il green pass, soprattutto quello rafforzato che, è bene ricordarlo, non si ottiene con il tampone negativo ma solo con la vaccinazione o il certificato di guarigione. In Italia, alle 10 di ieri mattina, c’erano 45.835.370 persone vaccinate con due dosi, il 77,35% della popolazione, e 9.871.725 con la terza dose già fatta, il 16,66% della popolazione. In attesa della seconda dose sono 1.666.336 italiani, il 2,81% della popolazione. L’anno scorso, è bene ricordarlo, i vaccini di questi tempi non erano ancora arrivati: il Vaccine Day, in tutta Europa, che diede simbolicamente il via alla campagna di vaccinazione, fu il 27 dicembre.
Numeri, non opinioni. Numeri che dimostrano una verità incontrovertibile, inoppugnabile, incontestabile, insindacabile: il super green pass non ferma il contagio, così come non lo fermano i vaccini. Allora viene da chiedersi che senso abbia, questo benedetto certificato verde, se non quello di rappresentare solo e soltanto una leva per convincere / costringere le persone a vaccinarsi. C’è di più, c’è un dato che i pasdaran del super green pass fingono di ignorare, ma che invece chiunque può verificare di persona, parlando con amici, parenti, conoscenti, colleghi. Chi ha in tasca (o sullo smartphone) quel benedetto certificato, si sente invulnerabile. Assistiamo infatti, ogni giorno, intorno a noi, a un rilassamento rispetto alle misure di prevenzione più semplici e più efficaci: indossare la mascherina, evitare gli assembramenti, lavarsi spesso e a fondo le mani. Un rilassamento dovuto al fatto che chi ha il super green pass, in sostanza chi si è vaccinato, ha la impressione (sbagliata) di non potersi contagiare e di non poter trasmettere il virus. La conseguenza è che le persone che hanno gli anticorpi ancora belli reattivi, perché si sono vaccinate da pochi mesi, possono infettarsi e contagiare chi incontrano, anche se non rischiano di finire in ospedale; quegli italiani, invece, che si sono vaccinati da cinque mesi e più, e che quindi hanno un bel certificato valido (il green pass dura 9 mesi) vivono come se il Covid non esistesse e rischiano anche di finire in terapia intensiva. Tutto sbagliato, tutto capovolto, ma questa è l’Italia che si avvia a festeggiare il Natale 2021: una nazione ostaggio di informazioni confuse e provvedimenti caotici, inutili, controproducenti.
Il certificato verde vale ovunque eccetto che nei palazzi dell’Ue
«È ora che l’Ue inizi a discutere dell’opportunità di introdurre il vaccino obbligatorio contro il Covid-19 anche perché la vaccinazione è il modo migliore per superare la pandemia. Inoltre serve adattare il green pass europeo ai richiami. Serve comunque un approccio comune». Così parlò una decina di giorni fa la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, presentando la nuova strategia dell’Ue contro la variante Omicron, «emergenza» che sarà discussa il 16 dicembre dai 27 Stati membri a Bruxelles. Vaccinazione per tutti sponsorizzata Ue, quindi. Tranne che nei palazzi della Ue. Infatti basta vedere cosa succede proprio a Bruxelles dove si riunisce il Consiglio europeo per i vari «vertici» che si svolgono nel Palazzo Europa. La prossima settimana, il 15 e 16 dicembre ci saranno i vertici sul partenariato orientale e dei leader proprio su Omicron e sono state rese note le modalità di accreditamento per i giornalisti. Nessun green pass europeo viene richiesto né tanto meno la vaccinazione ma, messo nero su bianco in una lettera, serve un tampone molecolare negativo da effettuare non più di 48 ore prima del 15 dicembre o, in alternativa, un certificato medico che attesti la guarigione negli ultimi sei mesi. Che significa questa disposizione, forse che l’Europa non crede nei vaccini tanto osannati? Oppure Charles Michel, il presidente del consiglio europeo, non condivide quel coordinamento continentale, per niente facile, per assicurare libera circolazione e vaccinazioni? Di certo ci sono due pesi e due misure. Nel nostro Paese, tutti i comuni mortali devono avere il green pass, se non addirittura il super green pass, altrimenti sono esclusi dalla vita sociale tanto che qualche «talebano» invoca l’obbligo vaccinale perché il tampone è una prassi quasi disdicevole o addirittura una scorciatoia da furbastri mal tollerata, mentre a Bruxelles è l’esatto contrario. Non serve alcuna vaccinazione, doppia o tripla con il richiamo, basta un tampone o un certificato medico di guarigione da Covid. Possibile che le norme per l’accreditamento dei giornalisti per l’accesso al Palazzo, siano un errore del presidente? Cosa non da escludere considerato che Charles Michel non è esente da gaffe essendo anche stato il protagonista del «Sofagate» dopo l’affronto di Erdogan a Ursula von der Leyen lasciata senza sedia d’onore a differenza degli altri due interlocutori (il presidente turco e quello Ue), e si dovette accomodare sul divano, durante una visita ufficiale ad Ankara. In quel caso imbarazzante si giustificò dicendo: «Pur percependo il carattere deplorevole della situazione, abbiamo scelto di non peggiorarla con un incidente pubblico». Un incidente diplomatico schivato ma che si ripresenta oggi nei confronti di tanti cittadini che si sono vaccinati o stanno in fila facendo la terza dose perché hanno sentito, fino allo sfinimento, che il vaccino è «l’unica arma contro il Covid». Michel forse non si fida e allora preferisce che chi entra a Palazzo Europa abbia avuto il Covid e sia guarito oppure che abbia appena fatto un tampone. Nel frattempo dalle nostre parti, dove sono state inoculate 100 milioni di dosi, non soltanto sta per partire la vaccinazione per i bambini dai 5 agli 11 anni, ma già si pensa a quella da 0 a 5 anni da far decollare a gennaio per arrivare a quella famosa immunità di gregge che tutti sanno essere impossibile da raggiungere.
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Il 9 dicembre 2020 identici i nuovi infetti. Ma con 499 morti e 3.320 intensive contro 79 e 811 di ieri, grazie ai vaccini. L’ansia è inutile.Per accedere al Consiglio europeo serve test o certificato di guarigione, ma niente pass.Lo speciale contiene due articoli. Numeri, numeri, numeri: se la matematica non è un’opinione, applicarla al Covid e alla gestione della pandemia in Italia è probabilmente l’unico modo per analizzare la situazione con obiettività, lasciando da parte le convinzioni che ciascuno di noi ha in merito alla questione. Il bollettino di ieri, diffuso come di consueto dal ministero della Salute, riporta 12.527 nuovi casi di Covid nelle 24 ore precedenti in Italia, contro i 17.959 dell’altro ieri, ma con molti meno tamponi effettuati a causa della festività dell’Immacolata (312.828, cioè 251.879 in meno dell’8 dicembre, quando erano stati 564.698). Infatti, il tasso di positività sale al 4% rispetto al 3,2% dell’altro ieri. I decessi sono stati 79, le terapie intensive sono salite di 20 raggiungendo quota 811, mentre i ricoveri ordinari sono cresciuti di 234 unità, per un totale di 6.333. Ora facciamo un salto indietro esattamente di un anno, e vediamo quali erano i dati del Covid il 9 dicembre 2020. Quel giorno i nuovi casi furono 12.756, esattamente gli stessi di ieri, ma con soli 118.475 tamponi esaminati, infatti il tasso di positività fu del 10,8%. La crescita esponenziale di tamponi rispetto all’anno scorso, ricordiamolo, è dovuta soprattutto all’effetto del green pass. Andiamo avanti: i decessi, l’anno scorso, furono 499 (per la prima volta nel mese di dicembre 2020 scesero sotto quota 500). I ricoverati toccarono quota 29.653, i pazienti in terapia intensiva raggiunsero la cifra totale di 3.320. Sovrapporre le due curve, quelle del 2020 e del 2021, in relazione allo stesso periodo, è illuminante: pensate che il 17 novembre 2020 i nuovi contagiati giornalieri toccarono la vetta di 35.075, mentre il 17 novembre 2021 erano solo 7.704; il 3 dicembre 2020 ci furono in Italia 741 morti per Covid, contro i 77 del 4 dicembre scorso. La curva del contagio, in questi giorni dello scorso anno, iniziava a scendere, oggi è in lieve ascesa. Cosa ci fa capire questa semplice comparazione tra i dati di oggi e quelli di un anno fa? Molto semplice: il numero dei decessi, quello delle terapie intensive e quello delle ospedalizzazioni negli ultimi 12 mesi è crollato in maniera vertiginosa: il 9 dicembre 2020 furono rispettivamente 499, 3.320 e 29.563, ieri sono stati 79, 811 e 6.333. Quello dei contagi giornalieri è praticamente lo stesso, seppure con molti più tamponi ora rispetto al 2020, e con il trend in crescita, al contrario di quanto accadeva 12 mesi fa. Ciò vuol dire che il virus circola tra di noi esattamente come l’anno scorso, anche se fa incommensurabilmente meno danni. Ovviamente, il merito di tutto questo, della riduzione di morti, terapie intensive e ricoveri, è dei vaccini. I vaccini salvano la vita, evitano di finire in un letto di ospedale, o addirittura intubati. Ma non frenano il contagio: lo dicono i numeri, che (almeno loro) non mentono mai. Del resto, se c’è una cosa sulla quale nessuno ha dubbi, è che il vaccino non impedisce di contagiarsi e contagiare. Riduce le conseguenze, e di molto, ma non la trasmissione del virus. Il che ci fa capire quanto sia inutile, nella strategia di contenimento del contagio, il green pass, soprattutto quello rafforzato che, è bene ricordarlo, non si ottiene con il tampone negativo ma solo con la vaccinazione o il certificato di guarigione. In Italia, alle 10 di ieri mattina, c’erano 45.835.370 persone vaccinate con due dosi, il 77,35% della popolazione, e 9.871.725 con la terza dose già fatta, il 16,66% della popolazione. In attesa della seconda dose sono 1.666.336 italiani, il 2,81% della popolazione. L’anno scorso, è bene ricordarlo, i vaccini di questi tempi non erano ancora arrivati: il Vaccine Day, in tutta Europa, che diede simbolicamente il via alla campagna di vaccinazione, fu il 27 dicembre. Numeri, non opinioni. Numeri che dimostrano una verità incontrovertibile, inoppugnabile, incontestabile, insindacabile: il super green pass non ferma il contagio, così come non lo fermano i vaccini. Allora viene da chiedersi che senso abbia, questo benedetto certificato verde, se non quello di rappresentare solo e soltanto una leva per convincere / costringere le persone a vaccinarsi. C’è di più, c’è un dato che i pasdaran del super green pass fingono di ignorare, ma che invece chiunque può verificare di persona, parlando con amici, parenti, conoscenti, colleghi. Chi ha in tasca (o sullo smartphone) quel benedetto certificato, si sente invulnerabile. Assistiamo infatti, ogni giorno, intorno a noi, a un rilassamento rispetto alle misure di prevenzione più semplici e più efficaci: indossare la mascherina, evitare gli assembramenti, lavarsi spesso e a fondo le mani. Un rilassamento dovuto al fatto che chi ha il super green pass, in sostanza chi si è vaccinato, ha la impressione (sbagliata) di non potersi contagiare e di non poter trasmettere il virus. La conseguenza è che le persone che hanno gli anticorpi ancora belli reattivi, perché si sono vaccinate da pochi mesi, possono infettarsi e contagiare chi incontrano, anche se non rischiano di finire in ospedale; quegli italiani, invece, che si sono vaccinati da cinque mesi e più, e che quindi hanno un bel certificato valido (il green pass dura 9 mesi) vivono come se il Covid non esistesse e rischiano anche di finire in terapia intensiva. Tutto sbagliato, tutto capovolto, ma questa è l’Italia che si avvia a festeggiare il Natale 2021: una nazione ostaggio di informazioni confuse e provvedimenti caotici, inutili, controproducenti. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/stessi-contagi-anno-fa-emergenza-2655969248.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-certificato-verde-vale-ovunque-eccetto-che-nei-palazzi-dellue" data-post-id="2655969248" data-published-at="1639103769" data-use-pagination="False"> Il certificato verde vale ovunque eccetto che nei palazzi dell’Ue «È ora che l’Ue inizi a discutere dell’opportunità di introdurre il vaccino obbligatorio contro il Covid-19 anche perché la vaccinazione è il modo migliore per superare la pandemia. Inoltre serve adattare il green pass europeo ai richiami. Serve comunque un approccio comune». Così parlò una decina di giorni fa la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, presentando la nuova strategia dell’Ue contro la variante Omicron, «emergenza» che sarà discussa il 16 dicembre dai 27 Stati membri a Bruxelles. Vaccinazione per tutti sponsorizzata Ue, quindi. Tranne che nei palazzi della Ue. Infatti basta vedere cosa succede proprio a Bruxelles dove si riunisce il Consiglio europeo per i vari «vertici» che si svolgono nel Palazzo Europa. La prossima settimana, il 15 e 16 dicembre ci saranno i vertici sul partenariato orientale e dei leader proprio su Omicron e sono state rese note le modalità di accreditamento per i giornalisti. Nessun green pass europeo viene richiesto né tanto meno la vaccinazione ma, messo nero su bianco in una lettera, serve un tampone molecolare negativo da effettuare non più di 48 ore prima del 15 dicembre o, in alternativa, un certificato medico che attesti la guarigione negli ultimi sei mesi. Che significa questa disposizione, forse che l’Europa non crede nei vaccini tanto osannati? Oppure Charles Michel, il presidente del consiglio europeo, non condivide quel coordinamento continentale, per niente facile, per assicurare libera circolazione e vaccinazioni? Di certo ci sono due pesi e due misure. Nel nostro Paese, tutti i comuni mortali devono avere il green pass, se non addirittura il super green pass, altrimenti sono esclusi dalla vita sociale tanto che qualche «talebano» invoca l’obbligo vaccinale perché il tampone è una prassi quasi disdicevole o addirittura una scorciatoia da furbastri mal tollerata, mentre a Bruxelles è l’esatto contrario. Non serve alcuna vaccinazione, doppia o tripla con il richiamo, basta un tampone o un certificato medico di guarigione da Covid. Possibile che le norme per l’accreditamento dei giornalisti per l’accesso al Palazzo, siano un errore del presidente? Cosa non da escludere considerato che Charles Michel non è esente da gaffe essendo anche stato il protagonista del «Sofagate» dopo l’affronto di Erdogan a Ursula von der Leyen lasciata senza sedia d’onore a differenza degli altri due interlocutori (il presidente turco e quello Ue), e si dovette accomodare sul divano, durante una visita ufficiale ad Ankara. In quel caso imbarazzante si giustificò dicendo: «Pur percependo il carattere deplorevole della situazione, abbiamo scelto di non peggiorarla con un incidente pubblico». Un incidente diplomatico schivato ma che si ripresenta oggi nei confronti di tanti cittadini che si sono vaccinati o stanno in fila facendo la terza dose perché hanno sentito, fino allo sfinimento, che il vaccino è «l’unica arma contro il Covid». Michel forse non si fida e allora preferisce che chi entra a Palazzo Europa abbia avuto il Covid e sia guarito oppure che abbia appena fatto un tampone. Nel frattempo dalle nostre parti, dove sono state inoculate 100 milioni di dosi, non soltanto sta per partire la vaccinazione per i bambini dai 5 agli 11 anni, ma già si pensa a quella da 0 a 5 anni da far decollare a gennaio per arrivare a quella famosa immunità di gregge che tutti sanno essere impossibile da raggiungere.
Gianluigi Cimmino (Imagoeconomica)
Yamamay ha sempre scelto testimonial molto riconoscibili. Oggi il volto del brand è Rose Villain. Perché questa scelta?
«Negli ultimi tre anni ci siamo avvicinati a due canali di comunicazione molto forti e credibili per i giovani: la musica e lo sport. Oggi, dopo il crollo del mondo degli influencer tradizionali, è fondamentale scegliere un volto autentico, coerente e riconoscibile. Gran parte dei nostri investimenti recenti è andata proprio in questa direzione. Rose Villain rappresenta la musica, ma anche una bellezza femminile non scontata: ha un sorriso meraviglioso, un fisico prorompente che rispecchia le nostre consumatrici, donne che si riconoscono nel brand anche per la vestibilità, che riteniamo tra le migliori sul mercato. È una voce importante, un personaggio completo. Inoltre, il mondo musicale oggi vive molto di collaborazioni: lo stesso concetto che abbiamo voluto trasmettere nella campagna, usando il termine «featuring», tipico delle collaborazioni tra artisti. Non a caso, Rose Villain aveva già collaborato con artisti come Geolier, che è stato nostro testimonial l’anno scorso».
I volti famosi fanno vendere di più o il loro valore è soprattutto simbolico e di posizionamento del brand?
«Oggi direi soprattutto posizionamento e coerenza del messaggio. La vendita non dipende più solo dalla pubblicità: per vendere bisogna essere impeccabili sul prodotto, sul prezzo, sull’assortimento. Viviamo un momento di consumi non esaltanti, quindi è necessario lavorare su tutte le leve. Non è che una persona vede lo spot e corre subito in negozio. È un periodo “da elmetto” per il settore retail».
È una situazione comune a molti brand, in questo momento.
«Assolutamente sì. Noi non possiamo lamentarci: anche questo Natale è stato positivo. Però per portare le persone in negozio bisogna investire sempre di più. Il traffico non è più una costante: meno persone nei centri commerciali, meno in strada, meno negli outlet. Per intercettare quel traffico serve investire in offerte, comunicazione, social, utilizzando tutti gli strumenti che permettono soprattutto ai giovani di arrivare in negozio, magari grazie a una promozione mirata».
Guardando al passato, c’è stato un testimonial che ha segnato una svolta per Yamamay?
«Sicuramente Jennifer Lopez: è stato uno dei primi casi in cui una celebrità ha firmato una capsule collection. All’epoca era qualcosa di totalmente nuovo e ci ha dato una visibilità internazionale enorme. Per il mondo maschile, Cristiano Ronaldo ha rappresentato un altro grande salto di qualità. Detto questo, Yamamay è nata fin dall’inizio con una visione molto chiara».
Come è iniziata questa avventura imprenditoriale?
«Con l’incoscienza di un ragazzo di 28 anni che rescinde un importante contratto da manager perché vuole fare l’imprenditore. Ho coinvolto tutta la famiglia in questo sogno: creare un’azienda di intimo, un settore che ho sempre amato. Dico spesso che ero già un grande consumatore, soprattutto perché l’intimo è uno dei regali più fatti. Oggi posso dire di aver realizzato un sogno».
Oggi Yamamay è un marchio internazionale. Quanti negozi avete nel mondo?
«Circa 600 negozi in totale. Di questi, 430 sono in Italia e circa 170 all’estero».
Il vostro è un settore molto competitivo. Qual è oggi il vostro principale elemento di differenziazione?
«Il rapporto qualità-prezzo. Abbiamo scelto di non seguire la strada degli aumenti facili nel post Covid, quando il mercato lo permetteva. Abbiamo continuato invece a investire su prodotto, innovazione, collaborazioni e sostenibilità. Posso dire con orgoglio che Yamamay è uno dei marchi di intimo più sostenibili sul mercato. La sostenibilità per noi non è una moda né uno strumento di marketing: è un valore intrinseco. Anche perché abbiamo in casa una delle massime esperte del settore, mia sorella Barbara, e siamo molto attenti a non fare greenwashing».
Quali sono le direttrici di crescita future?
«Sicuramente l’internazionale, più come presenza reale che come notorietà, e il digitale: l’e-commerce è un canale dove possiamo crescere ancora molto. Inoltre stiamo investendo tantissimo nel menswear. È un mercato in forte evoluzione: l’uomo oggi compra da solo, non delega più alla compagna o alla mamma. È un cambiamento culturale profondo e la crescita sarà a doppia cifra nei prossimi anni. La società è cambiata, è più eterogenea, e noi dobbiamo seguirne le evoluzioni. Penso anche al mondo Lgbtq+, che è storicamente un grande consumatore di intimo e a cui guardiamo con grande attenzione».
Capodanno è un momento simbolico anche per l’intimo. Che consiglio d’acquisto dai ai vostri clienti per iniziare bene l’anno?
«Un consiglio semplicissimo: indossate intimo rosso a Capodanno. Mutande, boxer, slip… non importa. È una tradizione che non va persa, anzi va rafforzata. Il rosso porta amore, ricchezza e salute. E le tradizioni belle vanno rispettate».
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Thierry Breton (Ansa)
«Condanniamo fermamente la decisione degli Stati Uniti di imporre restrizioni di viaggio a cinque individui europei, tra cui l’ex commissario Thierry Breton. Reagiremo», è stato il commento postato sull’account X della Commissione, «la libertà di parola è il fondamento della nostra forte e vivace democrazia europea. Ne siamo orgogliosi. La proteggeremo. Perché la Commissione europea è la custode dei nostri valori», ha cinguettato con piglio autoreferenziale Ursula von der Leyen, cui ha fatto eco la sua vice Kaja Kallas: «La decisione degli Stati Uniti è un tentativo di sfidare la nostra sovranità. L’Europa continuerà a difendere i suoi valori: libertà di espressione, regole digitali eque e il diritto di regolamentare il nostro spazio». Sembrerebbero parole giuste e coraggiose, se non fosse che il bersaglio della decisione di Rubio è la stessa persona che della libertà di espressione ha fatto strame, ideando la famigerata legge del Dsa (Digital services act), che impone alle grandi piattaforme misure di moderazione arbitrarie che di fatto limitano il free speech.
È Breton che il 12 agosto 2024 ha vergato di suo pugno, su carta intestata dell’esecutivo Ue, una lettera senza precedenti in cui, alla vigilia di un’intervista di Elon Musk a Donald Trump su X, ha minacciato Musk di «censura preventiva». Una pesante interferenza nella campagna elettorale Usa due mesi prima delle presidenziali, coronata dalla gravosa multa di 120 milioni di euro comminata dall’Ue a Musk tre settimane fa per violazioni di obblighi di trasparenza previsti dal Dsa, indicando tra i «problemi rilevati» perfino il design della «spunta blu». E non è tutto: a gennaio scorso, Breton non si è fatto problemi nel dichiarare che l’Unione «ha gli strumenti per bloccare qualsiasi ingerenza straniera, come ha fatto in Romania (dove le elezioni sono state invalidate su pressione europea, ndr) e come dovrà fare, se necessario, anche in Germania».
Che il Dsa uccida non soltanto il Primo emendamento ma anche le aziende americane è un altro dato di fatto: l’Unione europea incassa più dalle multe (a Meta, Google, Apple e X) che dalle tasse pagate dalle aziende tecnologiche europee. Per l’amministrazione Trump, però, la questione è soprattutto di principio: «Per troppo tempo, gli ideologi in Europa hanno guidato iniziative organizzate per costringere le piattaforme Usa a punire i punti di vista americani a cui si oppongono.
L’amministrazione Trump non tollererà più questi vergognosi atti di censura extraterritoriale», ha scritto senza mezzi termini Rubio. Christopher Landau, vice segretario di Stato, ha ricordato la missiva di Breton come «una delle lettere più agghiaccianti che abbia mai letto», mentre l’ambasciatore americano presso l’Ue, Andrew Puzder, ha ricordato che «ironia della sorte, le aziende statunitensi che stanno soffrendo delle politiche oppressive di Bruxelles, delle multe e dell’eccedenza normativa sono proprio le aziende che possono portare l’Ue nell’economia dell’Ia (…) investendo e creando posti di lavoro, ma non a rischio di multe paralizzanti (…) che censurano la libertà di parola e ostacolano la crescita economica».
La revoca del visto impedirà a Breton di partecipare agli eventi pianificati negli Stati Uniti, comprese le conferenze tecnologiche. Chi di censura ferisce, di censura perisce.
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A far risuonare le sirene d’allarme in Italia un po’ tutti i settori produttivi, che disegnando scenari apocalittici sono corsi a chiedere aiuti pubblici. Niente di nuovo sotto il sole, verrebbe da dire, senonché questa narrazione è stata smentita dai fatti, passati in sordina.
A fare un bilancio degli effetti dei dazi americani sul tessuto produttivo è uno studio della Banca d’Italia: «Gli effetti dei dazi statunitensi sulle imprese italiane: una valutazione ex ante a livello micro» (Questioni di Economia e Finanza n. 994, dicembre 2025). Un punto innovativo del report riguarda il rischio che i prodotti cinesi, esclusi dal mercato statunitense dai dazi, vengano «dirottati» verso altri mercati internazionali (inclusa l’Europa), aumentando la concorrenza per le imprese italiane in quei territori.
Dall’analisi di Bankitalia emerge che, contrariamente a scenari catastrofici, l’impatto medio è, per ora, contenuto ma eterogeneo. Prima dello choc, gli esportatori verso gli Usa avevano un margine medio di profitto del 10,1%. Si stima che i dazi portino a una riduzione dei margini di circa 0,3 punti percentuali per la maggior parte delle imprese (circa il 75%). Questa fluttuazione è considerata gestibile, poiché rientra nelle normali variazioni cicliche del decennio scorso. Vale in linea generale ma si evidenzia anche che una serie di imprese (circa il 6,4% in più rispetto al normale) potrebbe subire perdite severe, nel caso di dazi più alti o con durata maggiore. Si tratta di aziende che vivono in una situazione particolare, ovvero i cui ricavi dipendono in modo massiccio dal mercato americano (il 6-7% che vive di solo export Usa, con margini ridotti) e che operano in settori con bassa elasticità di sostituzione o dove non è possibile trasferire l’aumento dei costi sui prezzi finali.
I tecnici di Bankitalia mettono in evidenza un altro aspetto del sistema di imprese italiane: oltre la metà dell’esposizione italiana agli Usa è di tipo indiretto. Molte Pmi (piccole e medie imprese) che non compaiono nelle statistiche dell’export sono in realtà vulnerabili perché producono componenti per i grandi gruppi esportatori. L’analisi mostra che i legami di «primo livello» (fornitore diretto dell’esportatore) sono i più colpiti, mentre l’effetto si diluisce risalendo ulteriormente la catena di produzione.
Si stanno verificando due comportamenti delle imprese a cominciare dal «pricing to market». Ovvero tante aziende scelgono di non aumentare i prezzi di vendita negli Stati Uniti per non perdere quote di mercato e preferiscono assorbire il costo del dazio riducendo i propri guadagni. Poi, per i prodotti di alta qualità, il made in Italy d’eccellenza, i consumatori americani sono disposti a pagare un prezzo più alto, permettendo all’impresa di trasferire parte del dazio sul prezzo finale senza crolli nelle vendite.
Lo studio offre una prospettiva interessante sulla distribuzione geografica e settoriale dell’effetto dei dazi. Anche se l’impatto è definito «marginale» in termini di punti percentuali sui profitti, il Nord Italia è l’area più esposta. Nell’asse Lombardia-Emilia-Romagna si concentra la maggior parte degli esportatori di macchinari e componentistica, e siccome le filiere sono molto lunghe, un calo della domanda negli Usa rimbalza sui subfornitori locali. Il settore automotive, dovendo competere con i produttori americani che non pagano i dazi, è quello che soffre di più dell’erosione dei margini. Nel Sud l’esposizione è minore in termini di volumi totali.
Un elemento di preoccupazione non trascurabile è la pressione competitiva asiatica. Gli Usa, chiudendo le porte alla Cina, inducono Pechino a spostare la sua offerta verso i mercati terzi. Lo studio avverte che i settori italiani che non esportano negli Usa potrebbero comunque soffrire a causa di un’ondata di prodotti cinesi a basso costo nei mercati europei o emergenti, erodendo le quote di mercato italiane.
Bankitalia sottolinea, nel report, che il sistema produttivo italiano possiede una discreta resilienza complessiva. Le principali indicazioni per il futuro includono la necessità di diversificare i mercati di sbocco e l’attenzione alle dinamiche di dumping o eccesso di offerta derivanti dalla diversione dei flussi commerciali globali.
Questo studio si affianca al precedente rapporto che integra queste analisi con dati derivanti da sondaggi diretti presso le imprese, confermando che circa il 20% delle aziende italiane ha già percepito un impatto negativo, seppur moderato, nella prima parte dell’anno.
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