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2021-12-10
Gli stessi contagi di un anno fa. Ma ora non c’è emergenza
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Numeri, numeri, numeri: se la matematica non è un’opinione, applicarla al Covid e alla gestione della pandemia in Italia è probabilmente l’unico modo per analizzare la situazione con obiettività, lasciando da parte le convinzioni che ciascuno di noi ha in merito alla questione. Il bollettino di ieri, diffuso come di consueto dal ministero della Salute, riporta 12.527 nuovi casi di Covid nelle 24 ore precedenti in Italia, contro i 17.959 dell’altro ieri, ma con molti meno tamponi effettuati a causa della festività dell’Immacolata (312.828, cioè 251.879 in meno dell’8 dicembre, quando erano stati 564.698). Infatti, il tasso di positività sale al 4% rispetto al 3,2% dell’altro ieri. I decessi sono stati 79, le terapie intensive sono salite di 20 raggiungendo quota 811, mentre i ricoveri ordinari sono cresciuti di 234 unità, per un totale di 6.333.
Ora facciamo un salto indietro esattamente di un anno, e vediamo quali erano i dati del Covid il 9 dicembre 2020. Quel giorno i nuovi casi furono 12.756, esattamente gli stessi di ieri, ma con soli 118.475 tamponi esaminati, infatti il tasso di positività fu del 10,8%. La crescita esponenziale di tamponi rispetto all’anno scorso, ricordiamolo, è dovuta soprattutto all’effetto del green pass. Andiamo avanti: i decessi, l’anno scorso, furono 499 (per la prima volta nel mese di dicembre 2020 scesero sotto quota 500). I ricoverati toccarono quota 29.653, i pazienti in terapia intensiva raggiunsero la cifra totale di 3.320.
Sovrapporre le due curve, quelle del 2020 e del 2021, in relazione allo stesso periodo, è illuminante: pensate che il 17 novembre 2020 i nuovi contagiati giornalieri toccarono la vetta di 35.075, mentre il 17 novembre 2021 erano solo 7.704; il 3 dicembre 2020 ci furono in Italia 741 morti per Covid, contro i 77 del 4 dicembre scorso. La curva del contagio, in questi giorni dello scorso anno, iniziava a scendere, oggi è in lieve ascesa. Cosa ci fa capire questa semplice comparazione tra i dati di oggi e quelli di un anno fa? Molto semplice: il numero dei decessi, quello delle terapie intensive e quello delle ospedalizzazioni negli ultimi 12 mesi è crollato in maniera vertiginosa: il 9 dicembre 2020 furono rispettivamente 499, 3.320 e 29.563, ieri sono stati 79, 811 e 6.333. Quello dei contagi giornalieri è praticamente lo stesso, seppure con molti più tamponi ora rispetto al 2020, e con il trend in crescita, al contrario di quanto accadeva 12 mesi fa. Ciò vuol dire che il virus circola tra di noi esattamente come l’anno scorso, anche se fa incommensurabilmente meno danni. Ovviamente, il merito di tutto questo, della riduzione di morti, terapie intensive e ricoveri, è dei vaccini. I vaccini salvano la vita, evitano di finire in un letto di ospedale, o addirittura intubati. Ma non frenano il contagio: lo dicono i numeri, che (almeno loro) non mentono mai.
Del resto, se c’è una cosa sulla quale nessuno ha dubbi, è che il vaccino non impedisce di contagiarsi e contagiare. Riduce le conseguenze, e di molto, ma non la trasmissione del virus. Il che ci fa capire quanto sia inutile, nella strategia di contenimento del contagio, il green pass, soprattutto quello rafforzato che, è bene ricordarlo, non si ottiene con il tampone negativo ma solo con la vaccinazione o il certificato di guarigione. In Italia, alle 10 di ieri mattina, c’erano 45.835.370 persone vaccinate con due dosi, il 77,35% della popolazione, e 9.871.725 con la terza dose già fatta, il 16,66% della popolazione. In attesa della seconda dose sono 1.666.336 italiani, il 2,81% della popolazione. L’anno scorso, è bene ricordarlo, i vaccini di questi tempi non erano ancora arrivati: il Vaccine Day, in tutta Europa, che diede simbolicamente il via alla campagna di vaccinazione, fu il 27 dicembre.
Numeri, non opinioni. Numeri che dimostrano una verità incontrovertibile, inoppugnabile, incontestabile, insindacabile: il super green pass non ferma il contagio, così come non lo fermano i vaccini. Allora viene da chiedersi che senso abbia, questo benedetto certificato verde, se non quello di rappresentare solo e soltanto una leva per convincere / costringere le persone a vaccinarsi. C’è di più, c’è un dato che i pasdaran del super green pass fingono di ignorare, ma che invece chiunque può verificare di persona, parlando con amici, parenti, conoscenti, colleghi. Chi ha in tasca (o sullo smartphone) quel benedetto certificato, si sente invulnerabile. Assistiamo infatti, ogni giorno, intorno a noi, a un rilassamento rispetto alle misure di prevenzione più semplici e più efficaci: indossare la mascherina, evitare gli assembramenti, lavarsi spesso e a fondo le mani. Un rilassamento dovuto al fatto che chi ha il super green pass, in sostanza chi si è vaccinato, ha la impressione (sbagliata) di non potersi contagiare e di non poter trasmettere il virus. La conseguenza è che le persone che hanno gli anticorpi ancora belli reattivi, perché si sono vaccinate da pochi mesi, possono infettarsi e contagiare chi incontrano, anche se non rischiano di finire in ospedale; quegli italiani, invece, che si sono vaccinati da cinque mesi e più, e che quindi hanno un bel certificato valido (il green pass dura 9 mesi) vivono come se il Covid non esistesse e rischiano anche di finire in terapia intensiva. Tutto sbagliato, tutto capovolto, ma questa è l’Italia che si avvia a festeggiare il Natale 2021: una nazione ostaggio di informazioni confuse e provvedimenti caotici, inutili, controproducenti.
Il certificato verde vale ovunque eccetto che nei palazzi dell’Ue
«È ora che l’Ue inizi a discutere dell’opportunità di introdurre il vaccino obbligatorio contro il Covid-19 anche perché la vaccinazione è il modo migliore per superare la pandemia. Inoltre serve adattare il green pass europeo ai richiami. Serve comunque un approccio comune». Così parlò una decina di giorni fa la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, presentando la nuova strategia dell’Ue contro la variante Omicron, «emergenza» che sarà discussa il 16 dicembre dai 27 Stati membri a Bruxelles. Vaccinazione per tutti sponsorizzata Ue, quindi. Tranne che nei palazzi della Ue. Infatti basta vedere cosa succede proprio a Bruxelles dove si riunisce il Consiglio europeo per i vari «vertici» che si svolgono nel Palazzo Europa. La prossima settimana, il 15 e 16 dicembre ci saranno i vertici sul partenariato orientale e dei leader proprio su Omicron e sono state rese note le modalità di accreditamento per i giornalisti. Nessun green pass europeo viene richiesto né tanto meno la vaccinazione ma, messo nero su bianco in una lettera, serve un tampone molecolare negativo da effettuare non più di 48 ore prima del 15 dicembre o, in alternativa, un certificato medico che attesti la guarigione negli ultimi sei mesi. Che significa questa disposizione, forse che l’Europa non crede nei vaccini tanto osannati? Oppure Charles Michel, il presidente del consiglio europeo, non condivide quel coordinamento continentale, per niente facile, per assicurare libera circolazione e vaccinazioni? Di certo ci sono due pesi e due misure. Nel nostro Paese, tutti i comuni mortali devono avere il green pass, se non addirittura il super green pass, altrimenti sono esclusi dalla vita sociale tanto che qualche «talebano» invoca l’obbligo vaccinale perché il tampone è una prassi quasi disdicevole o addirittura una scorciatoia da furbastri mal tollerata, mentre a Bruxelles è l’esatto contrario. Non serve alcuna vaccinazione, doppia o tripla con il richiamo, basta un tampone o un certificato medico di guarigione da Covid. Possibile che le norme per l’accreditamento dei giornalisti per l’accesso al Palazzo, siano un errore del presidente? Cosa non da escludere considerato che Charles Michel non è esente da gaffe essendo anche stato il protagonista del «Sofagate» dopo l’affronto di Erdogan a Ursula von der Leyen lasciata senza sedia d’onore a differenza degli altri due interlocutori (il presidente turco e quello Ue), e si dovette accomodare sul divano, durante una visita ufficiale ad Ankara. In quel caso imbarazzante si giustificò dicendo: «Pur percependo il carattere deplorevole della situazione, abbiamo scelto di non peggiorarla con un incidente pubblico». Un incidente diplomatico schivato ma che si ripresenta oggi nei confronti di tanti cittadini che si sono vaccinati o stanno in fila facendo la terza dose perché hanno sentito, fino allo sfinimento, che il vaccino è «l’unica arma contro il Covid». Michel forse non si fida e allora preferisce che chi entra a Palazzo Europa abbia avuto il Covid e sia guarito oppure che abbia appena fatto un tampone. Nel frattempo dalle nostre parti, dove sono state inoculate 100 milioni di dosi, non soltanto sta per partire la vaccinazione per i bambini dai 5 agli 11 anni, ma già si pensa a quella da 0 a 5 anni da far decollare a gennaio per arrivare a quella famosa immunità di gregge che tutti sanno essere impossibile da raggiungere.
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Il 9 dicembre 2020 identici i nuovi infetti. Ma con 499 morti e 3.320 intensive contro 79 e 811 di ieri, grazie ai vaccini. L’ansia è inutile.Per accedere al Consiglio europeo serve test o certificato di guarigione, ma niente pass.Lo speciale contiene due articoli. Numeri, numeri, numeri: se la matematica non è un’opinione, applicarla al Covid e alla gestione della pandemia in Italia è probabilmente l’unico modo per analizzare la situazione con obiettività, lasciando da parte le convinzioni che ciascuno di noi ha in merito alla questione. Il bollettino di ieri, diffuso come di consueto dal ministero della Salute, riporta 12.527 nuovi casi di Covid nelle 24 ore precedenti in Italia, contro i 17.959 dell’altro ieri, ma con molti meno tamponi effettuati a causa della festività dell’Immacolata (312.828, cioè 251.879 in meno dell’8 dicembre, quando erano stati 564.698). Infatti, il tasso di positività sale al 4% rispetto al 3,2% dell’altro ieri. I decessi sono stati 79, le terapie intensive sono salite di 20 raggiungendo quota 811, mentre i ricoveri ordinari sono cresciuti di 234 unità, per un totale di 6.333. Ora facciamo un salto indietro esattamente di un anno, e vediamo quali erano i dati del Covid il 9 dicembre 2020. Quel giorno i nuovi casi furono 12.756, esattamente gli stessi di ieri, ma con soli 118.475 tamponi esaminati, infatti il tasso di positività fu del 10,8%. La crescita esponenziale di tamponi rispetto all’anno scorso, ricordiamolo, è dovuta soprattutto all’effetto del green pass. Andiamo avanti: i decessi, l’anno scorso, furono 499 (per la prima volta nel mese di dicembre 2020 scesero sotto quota 500). I ricoverati toccarono quota 29.653, i pazienti in terapia intensiva raggiunsero la cifra totale di 3.320. Sovrapporre le due curve, quelle del 2020 e del 2021, in relazione allo stesso periodo, è illuminante: pensate che il 17 novembre 2020 i nuovi contagiati giornalieri toccarono la vetta di 35.075, mentre il 17 novembre 2021 erano solo 7.704; il 3 dicembre 2020 ci furono in Italia 741 morti per Covid, contro i 77 del 4 dicembre scorso. La curva del contagio, in questi giorni dello scorso anno, iniziava a scendere, oggi è in lieve ascesa. Cosa ci fa capire questa semplice comparazione tra i dati di oggi e quelli di un anno fa? Molto semplice: il numero dei decessi, quello delle terapie intensive e quello delle ospedalizzazioni negli ultimi 12 mesi è crollato in maniera vertiginosa: il 9 dicembre 2020 furono rispettivamente 499, 3.320 e 29.563, ieri sono stati 79, 811 e 6.333. Quello dei contagi giornalieri è praticamente lo stesso, seppure con molti più tamponi ora rispetto al 2020, e con il trend in crescita, al contrario di quanto accadeva 12 mesi fa. Ciò vuol dire che il virus circola tra di noi esattamente come l’anno scorso, anche se fa incommensurabilmente meno danni. Ovviamente, il merito di tutto questo, della riduzione di morti, terapie intensive e ricoveri, è dei vaccini. I vaccini salvano la vita, evitano di finire in un letto di ospedale, o addirittura intubati. Ma non frenano il contagio: lo dicono i numeri, che (almeno loro) non mentono mai. Del resto, se c’è una cosa sulla quale nessuno ha dubbi, è che il vaccino non impedisce di contagiarsi e contagiare. Riduce le conseguenze, e di molto, ma non la trasmissione del virus. Il che ci fa capire quanto sia inutile, nella strategia di contenimento del contagio, il green pass, soprattutto quello rafforzato che, è bene ricordarlo, non si ottiene con il tampone negativo ma solo con la vaccinazione o il certificato di guarigione. In Italia, alle 10 di ieri mattina, c’erano 45.835.370 persone vaccinate con due dosi, il 77,35% della popolazione, e 9.871.725 con la terza dose già fatta, il 16,66% della popolazione. In attesa della seconda dose sono 1.666.336 italiani, il 2,81% della popolazione. L’anno scorso, è bene ricordarlo, i vaccini di questi tempi non erano ancora arrivati: il Vaccine Day, in tutta Europa, che diede simbolicamente il via alla campagna di vaccinazione, fu il 27 dicembre. Numeri, non opinioni. Numeri che dimostrano una verità incontrovertibile, inoppugnabile, incontestabile, insindacabile: il super green pass non ferma il contagio, così come non lo fermano i vaccini. Allora viene da chiedersi che senso abbia, questo benedetto certificato verde, se non quello di rappresentare solo e soltanto una leva per convincere / costringere le persone a vaccinarsi. C’è di più, c’è un dato che i pasdaran del super green pass fingono di ignorare, ma che invece chiunque può verificare di persona, parlando con amici, parenti, conoscenti, colleghi. Chi ha in tasca (o sullo smartphone) quel benedetto certificato, si sente invulnerabile. Assistiamo infatti, ogni giorno, intorno a noi, a un rilassamento rispetto alle misure di prevenzione più semplici e più efficaci: indossare la mascherina, evitare gli assembramenti, lavarsi spesso e a fondo le mani. Un rilassamento dovuto al fatto che chi ha il super green pass, in sostanza chi si è vaccinato, ha la impressione (sbagliata) di non potersi contagiare e di non poter trasmettere il virus. La conseguenza è che le persone che hanno gli anticorpi ancora belli reattivi, perché si sono vaccinate da pochi mesi, possono infettarsi e contagiare chi incontrano, anche se non rischiano di finire in ospedale; quegli italiani, invece, che si sono vaccinati da cinque mesi e più, e che quindi hanno un bel certificato valido (il green pass dura 9 mesi) vivono come se il Covid non esistesse e rischiano anche di finire in terapia intensiva. Tutto sbagliato, tutto capovolto, ma questa è l’Italia che si avvia a festeggiare il Natale 2021: una nazione ostaggio di informazioni confuse e provvedimenti caotici, inutili, controproducenti. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/stessi-contagi-anno-fa-emergenza-2655969248.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-certificato-verde-vale-ovunque-eccetto-che-nei-palazzi-dellue" data-post-id="2655969248" data-published-at="1639103769" data-use-pagination="False"> Il certificato verde vale ovunque eccetto che nei palazzi dell’Ue «È ora che l’Ue inizi a discutere dell’opportunità di introdurre il vaccino obbligatorio contro il Covid-19 anche perché la vaccinazione è il modo migliore per superare la pandemia. Inoltre serve adattare il green pass europeo ai richiami. Serve comunque un approccio comune». Così parlò una decina di giorni fa la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, presentando la nuova strategia dell’Ue contro la variante Omicron, «emergenza» che sarà discussa il 16 dicembre dai 27 Stati membri a Bruxelles. Vaccinazione per tutti sponsorizzata Ue, quindi. Tranne che nei palazzi della Ue. Infatti basta vedere cosa succede proprio a Bruxelles dove si riunisce il Consiglio europeo per i vari «vertici» che si svolgono nel Palazzo Europa. La prossima settimana, il 15 e 16 dicembre ci saranno i vertici sul partenariato orientale e dei leader proprio su Omicron e sono state rese note le modalità di accreditamento per i giornalisti. Nessun green pass europeo viene richiesto né tanto meno la vaccinazione ma, messo nero su bianco in una lettera, serve un tampone molecolare negativo da effettuare non più di 48 ore prima del 15 dicembre o, in alternativa, un certificato medico che attesti la guarigione negli ultimi sei mesi. Che significa questa disposizione, forse che l’Europa non crede nei vaccini tanto osannati? Oppure Charles Michel, il presidente del consiglio europeo, non condivide quel coordinamento continentale, per niente facile, per assicurare libera circolazione e vaccinazioni? Di certo ci sono due pesi e due misure. Nel nostro Paese, tutti i comuni mortali devono avere il green pass, se non addirittura il super green pass, altrimenti sono esclusi dalla vita sociale tanto che qualche «talebano» invoca l’obbligo vaccinale perché il tampone è una prassi quasi disdicevole o addirittura una scorciatoia da furbastri mal tollerata, mentre a Bruxelles è l’esatto contrario. Non serve alcuna vaccinazione, doppia o tripla con il richiamo, basta un tampone o un certificato medico di guarigione da Covid. Possibile che le norme per l’accreditamento dei giornalisti per l’accesso al Palazzo, siano un errore del presidente? Cosa non da escludere considerato che Charles Michel non è esente da gaffe essendo anche stato il protagonista del «Sofagate» dopo l’affronto di Erdogan a Ursula von der Leyen lasciata senza sedia d’onore a differenza degli altri due interlocutori (il presidente turco e quello Ue), e si dovette accomodare sul divano, durante una visita ufficiale ad Ankara. In quel caso imbarazzante si giustificò dicendo: «Pur percependo il carattere deplorevole della situazione, abbiamo scelto di non peggiorarla con un incidente pubblico». Un incidente diplomatico schivato ma che si ripresenta oggi nei confronti di tanti cittadini che si sono vaccinati o stanno in fila facendo la terza dose perché hanno sentito, fino allo sfinimento, che il vaccino è «l’unica arma contro il Covid». Michel forse non si fida e allora preferisce che chi entra a Palazzo Europa abbia avuto il Covid e sia guarito oppure che abbia appena fatto un tampone. Nel frattempo dalle nostre parti, dove sono state inoculate 100 milioni di dosi, non soltanto sta per partire la vaccinazione per i bambini dai 5 agli 11 anni, ma già si pensa a quella da 0 a 5 anni da far decollare a gennaio per arrivare a quella famosa immunità di gregge che tutti sanno essere impossibile da raggiungere.
Friedrich Merz (Ansa)
Il dissenso della gioventù aveva provocato forti tensioni all’interno della maggioranza tanto da far rischiare la prima crisi di governo seria per Merz. Il via libera del parlamento tedesco, dunque, segna di fatto una crisi politica enorme e pure lo scollamento della democrazia tra maggioranza effettiva e maggioranza dopata. Come già era accaduto in Francia, la materia pensionistica è l’iceberg contro cui si schiantano i… Titanic: Macron prima, Merz adesso. Il presidente francese sulle pensioni ha visto la rottura dei suoi governi per l’incalzare di rivolte popolari e questo in carica guidato da Lecornu ha dovuto congelare la materia per non lasciarci le penne. Del resto in Europa non è il solo che naviga a vista, non curante della sfiducia nel Paese: in Spagna il governo Sánchez è in piena crisi di consensi per i casi di corruzione scoppiati nel partito e in casa, e pure l’accordo coi i catalani e coi baschi rischia di far deragliare l’esecutivo sulla finanziaria. In Olanda non c’è ancora un governo. In Belgio il primo ministro De Wever ha chiesto altro tempo al re Filippo per superare lo stallo sulla legge di bilancio che si annuncia lacrime e sangue. In Germania - dicevamo - il governo si è salvato per l’appoggio determinante della sinistra radicale, aprendo quindi un tema politico che lascerà strascichi dei quali beneficerà Afd, partito assai attrattivo proprio tra i giovani.
I tre voti con i quali Merz si è salvato peseranno tantissimo e manterranno acceso il dibattito proprio su una questione ancestrale: l’aumento del debito pubblico. «Questo disegno di legge va contro le mie convinzioni fondamentali, contro tutto ciò per cui sono entrato in politica», ha dichiarato a nome della Junge Union Gruppe Pascal Reddig durante il dibattito. Lui è uno dei diciotto che avrebbe voluto affossare la stabilizzazione previdenziale anche a costo di mandare sotto il governo: il gruppo dei giovani non aveva mai preso in considerazione l’idea di caricare sulle spalle delle future generazioni 115 miliardi di costi aggiuntivi a partire dal 2031.
E senza quei 18 sì, il governo sarebbe finito al tappeto. Quindi ecco la solita minestrina riscaldata della sopravvivenza politica a qualsiasi costo: l’astensione dai banchi dell’opposizione del partito di estrema sinistra Die Linke, per effetto della quale si è ridotto il numero di voti necessari per l'approvazione. E i giovani? E le loro idee?
Merz ha affermato che le preoccupazioni della Junge Union saranno prese in considerazione in una revisione più ampia del sistema pensionistico prevista per il 2026, che affronterà anche la spinosa questione dell'innalzamento dell'età pensionabile. Un bel modo per cercare di salvare il salvabile. Anche se ora arriva pure la tegola della riforma della leva: il parlamento tedesco ha infatti approvato la modernizzazione del servizio militare nel Paese, introducendo una visita medica obbligatoria per i giovani diciottenni e la possibilità di ripristinare la leva obbligatoria in caso di carenza di volontari. Un altro passo verso la piena militarizzazione, materia su cui l’opinione pubblica tedesca è in profondo disaccordo e che Afd sta cavalcando. Sempre che la democrazia non deciderà di fermare Afd…
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«The Rainmaker» (Sky)
The Rainmaker, versione serie televisiva, sarà disponibile su Sky Exclusive a partire dalla prima serata di venerdì 5 dicembre. E allora l'abisso immenso della legalità, i suoi chiaroscuri, le zone d'ombra soggette a manovre e interpretazioni personali torneranno protagonisti. Non a Memphis, dov'era ambientato il romanzo originale, bensì a Charleston, nella Carolina del Sud.
Il rainmaker di Grisham, il ragazzo che - fresco di laurea - aveva fantasticato sulla possibilità di essere l'uomo della pioggia in uno degli studi legali più prestigiosi di Memphis, è lontano dal suo corrispettivo moderno. E non solo per via di una città diversa. Rudy Baylor, stesso nome, stesso percorso dell'originale, ha l'anima candida del giovane di belle speranze, certo che sia tutto possibile, che le idee valgano più dei fatti. Ma quando, appena dopo la laurea in Giurisprudenza, si trova tirocinante all'interno di uno studio fra i più blasonati, capisce bene di aver peccato: troppo romanticismo, troppo incanto. In una parola, troppa ingenuità.
Rudy Baylor avrebbe voluto essere colui che poteva portare più clienti al suddetto studio. Invece, finisce per scontrarsi con un collega più anziano nel giorno dell'esordio, i suoi sogni impacchettati come fossero cosa di poco conto. Rudy deve trovare altro: un altro impiego, un'altra strada. E finisce per trovarla accanto a Bruiser Stone, qui donna, ben lontana dall'essere una professionista integerrima. Qui, i percorsi divergono.
The Rainmaker, versione serie televisiva, si discosta da The Rainmaker versione carta o versione film. Cambia la trama, non, però, la sostanza. Quel che lo show, in dieci episodi, vuole cercare di raccontare quanto complessa possa essere l'applicazione nel mondo reale di categorie di pensiero apprese in astratto. I confini sono labili, ciascuno disposto ad estenderli così da inglobarvi il proprio interesse personale. Quel che dovrebbe essere scontato e oggettivo, la definizione di giusto o sbagliato, sfuma. E non vi è più certezza. Nemmeno quella basilare del singolo, che credeva di aver capito quanto meno se stesso. Rudy Baylor, all'interno di questa serie, a mezza via tra giallo e legal drama, deve, dunque, fare quel che ha fatto il suo predecessore: smettere ogni sua certezza e camminare al di fuori della propria zona di comfort, alla ricerca perpetua di un compromesso che non gli tolga il sonno.
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Ursula von der Leyen (Ansa)
Mentre l’Europa è strangolata da una crisi industriale senza precedenti, la Commissione europea offre alla casa automobilistica tedesca una tregua dalle misure anti-sovvenzioni. Questo armistizio, richiesto da VW Anhui, che produce il modello Cupra in Cina, rappresenta la chiusura del cerchio della de-industrializzazione europea. Attualmente, la VW paga un dazio anti-sovvenzione del 20,7 per cento sui modelli Cupra fabbricati in Cina, che si aggiunge alla tariffa base del 10 per cento. L’offerta di VW, avanzata attraverso la sua sussidiaria Seat/Cupra, propone, in alternativa al dazio, una quota di importazione annuale e un prezzo minimo di importazione, meccanismi che, se accettati da Bruxelles, esenterebbero il colosso tedesco dal pagare i dazi. Non si tratta di una congiuntura, ma di un disegno premeditato. Pochi giorni fa, la stessa Volkswagen ha annunciato come un trionfo di essere in grado di produrre veicoli elettrici interamente sviluppati e realizzati in Cina per la metà del costo rispetto alla produzione in Europa, grazie alle efficienze della catena di approvvigionamento, all’acquisto di batterie e ai costi del lavoro notevolmente inferiori. Per dare un’idea della voragine competitiva, secondo una analisi Reuters del 2024 un operaio VW tedesco costa in media 59 euro l’ora, contro i soli 3 dollari l’ora in Cina. L’intera base produttiva europea è già in ginocchio. La pressione dei sindacati e dei politici tedeschi per produrre veicoli elettrici in patria, nel tentativo di tutelare i posti di lavoro, si è trasformata in un calice avvelenato, secondo una azzeccata espressione dell’analista Justin Cox.
I dati sono impietosi: l’utilizzo medio della capacità produttiva nelle fabbriche di veicoli leggeri in Europa è sceso al 60% nel 2023, ma nei paesi ad alto costo (Germania, Francia, Italia e Regno Unito) è crollato al 54%. Una capacità di utilizzo inferiore al 70% è considerata il minimo per la redditività.
Il risultato? Centinaia di migliaia di posti di lavoro che rischiano di scomparire in breve tempo. Volkswagen, che ha investito miliardi in Cina nel tentativo di rimanere competitiva su quel mercato, sta tagliando drasticamente l’occupazione in patria. L’accordo con i sindacati prevede la soppressione di 35.000 posti di lavoro entro il 2030 in Germania. Il marchio VW sta già riducendo la capacità produttiva in Germania del 40%, chiudendo linee per 734.000 veicoli. Persino stabilimenti storici come quello di Osnabrück rischiano la chiusura entro il 2027.
Anziché imporre una protezione doganale forte contro la concorrenza cinese, l’Ue si siede al tavolo per negoziare esenzioni personalizzate per le sue stesse aziende che delocalizzano in Oriente.
Questa politica di suicidio economico ha molto padri, tra cui le case automobilistiche tedesche. Mercedes e Bmw, insieme a VW, fecero pressioni a suo tempo contro l’imposizione di dazi Ue più elevati, temendo che una guerra commerciale potesse danneggiare le loro vendite in Cina, il mercato più grande del mondo e cruciale per i loro profitti. L’Associazione dell’industria automobilistica tedesca (Vda) ha definito i dazi «un errore» e ha sostenuto una soluzione negoziata con Pechino.
La disastrosa svolta all’elettrico imposta da Bruxelles si avvia a essere attenuata con l’apertura (forse) alle immatricolazioni di motori a combustione e ibridi anche dopo il 2035, ma ha creato l’instabilità perfetta per l’ingresso trionfale della Cina nel settore. I produttori europei, combattendo con veicoli elettrici ad alto costo che non vendono come previsto (l’Ev più economico di VW, l’ID.3, costa oltre 36.000 euro), hanno perso quote di mercato e hanno dovuto ridimensionare obiettivi, profitti e occupazione in Europa. A tal riguardo, ieri il premier Giorgia Meloni, insieme ai leader di Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Bulgaria e Ungheria, in una lettera ai vertici Ue, ha esortato l’Unione ad abbandonare, una volta per tutte, il dogmatismo ideologico che ha messo in ginocchio interi settori produttivi, senza peraltro apportare benefici tangibili in termini di emissioni globali». Nel testo, si chiede di mantenere anche dopo il 2035 le ibride e di riconoscere i biocarburanti come carburanti a emissioni zero.
L’Ue, che sempre pretende un primato morale, ha in realtà creato le condizioni perfette per svuotare il continente di produzione industriale. Accettare esenzioni dai dazi sull’import dalle aziende che hanno traslocato in Cina è la beatificazione della delocalizzazione. L’Europa si avvia a diventare uno showroom per prodotti asiatici, con le sue fabbriche ridotte a ruderi. Paradossalmente, diverse case automobilistiche cinesi stanno delocalizzando in Europa, dove progettano di assemblare i veicoli e venderli localmente, aggirando così i dazi europei. La Great Wall Motors progetta di aprire stabilimenti in Spagna e Ungheria per assemblare i veicoli. Anche considerando i più alti costi del lavoro europei (16 euro in Ungheria, dato Reuters), i cinesi pensano di riuscire ad essere più competitivi dei concorrenti locali. Per convenienza, i marchi europei vanno in Cina e quelli cinesi vengono in Europa, insomma. A perderci sono i lavoratori europei.
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